Esiste un Metodo di interpretazione della Storia che è rivoluzionario, prima ancora che in termini politico-sociali, in termini intellettuali, attinenti cioè al modo in cui ci relazioniamo con la Realtà: si tratta del Metodo Critico sviluppato da Karl Marx e secondo il quale:
– non è affatto vero che preesistenti Idee, le quali risiederebbero in un mondo metafisico, plasmano il mondo fisico che a tali idee-modello è chiamato nel moto della storia sempre più ad avvicinarsi ed adeguarsi, ma al contrario le idee nascono nel mondo materiale quale frutto dei fatti storici che vanno verificandosi ed hanno lo scopo e la funzione di descrivere e consolidare i fatti storici stessi;
– il “motore” che fa sì che i fatti storici producano idee è costituito principalmente dai rapporti di forza e dallo scontro tra sfere collettive (classi) titolari di interessi principalmente economici e come esito di tale scontro incessante e dei rapporti di forza che esso sottende nascono idee/ideologie/valori che sono funzionali alla conservazione della forza prevalente e che si esprimono in corrispondenti forme statali e sistemi giuridici;
– in altre parole, la storia è mossa dall’economia, lo stato e le leggi sono la proiezione e rispecchiano gli interessi economici di momento in momento dominanti.
Se applichiamo il metodo ora delineato all’analisi dell’evoluzione del diritto del lavoro italiano dagli anni sessanta ad oggi, ne riceviamo conferme che, se possono risultare soddisfacenti per gli estimatori del Maestro di Treviri, appaiono peraltro agghiaccianti sul piano della misurazione del tasso di giustizia e di effettiva libertà sociale.
Gli anni sessanta
vedono il fiorire nelle società occidentali di tumultuose correnti libertarie ed egualitarie: dopo le macerie morali e materiali lasciate dai fascismi e dal secondo conflitto mondiale, si è immersi ora nell’entusiasmo e nella speranza della ricostruzione, ricostruzione che vuole essere non solo materiale, ma che anzi giunge ad immaginare ed a credere possibile
l’occasione per realizzare un mondo nuovo e migliore, fondato su idee diverse e più “giuste” e su un modello sociale più libero, equo e felice.
Nella realtà italiana e non solo la cultura di sinistra, quel “certo modo” di pensare e vedere si afferma nella società e nelle consultazioni elettorali, tallona e mette pressione ai vecchi egoismi e conservatorismi, si avvia a diventare dominante e tutto ciò trova poi espressione nel D.P.R. 30 giugno 1965 n.1124 – Testo Unico delle disposizioni per l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, nella Legge 21 luglio 1965 n.903 – Avviamento alla riforma e miglioramento dei trattamenti di pensione della previdenza sociale, nonchè nella Legge 15 luglio 1966 n.604 – Norme sui licenziamenti individuali, la quale, per la prima volta, abbatte un dogma e pone un limite netto al potere discrezionale e ricattatorio di licenziare, stabilendo che “il licenziamento del prestatore di lavoro non può avvenire che per giusta causa ai sensi dell’art. 2119 del Codice civile o per giustificato motivo”.
Gli anni settanta
Il boom economico si è ormai esaurito; arrivano le crisi congiunturali, l’inflazione a due cifre, l’austerità, lo scontro tra capitale e lavoro si inasprisce trasformandosi negli Anni di Piombo, non più soltanto nella prospettiva della realizzazione di una società nuova e migliore, ma anche in vista della conservazione e della protezione della qualità della vita e del lavoro delle “classi subalterne”, (prevalentemente operai nel nord Italia e contadini nel meridione); si tratta di una fetta di società largamente prevalente sul piano numerico, (specie se conteggiamo al suo interno studenti ed intellettuali), dotata di coscienza di classe e ferma nella propria capacità di rivendicazione e di lotta, peraltro affiancata ed organizzata da sindacati fino ad un certo momento e ad una certa misura forti ed efficaci: da questa realtà sociale sboccia lo Statuto dei Lavoratori – Legge 20 maggio 1970 n.300, che reca Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento; enorme è la portata di questo provvedimento, che investe radicalmente non soltanto le materie indicate nel suo titolo, ma altresì la disciplina dei licenziamenti (il ben noto art.18), del potere disciplinare e di controllo del datore di lavoro, delle mansioni, dei trasferimenti, dei permessi e aspettative, dello sciopero ed altresì istituisce il nuovo processo speciale del lavoro.
Lo Statuto dei Lavoratori rappresentò il culmine della fase ascendente delle lotte della classe lavoratrice italiana e pose l’Italia all’avanguardia nel mondo in ordine alla qualità, (anche intesa come civiltà), e modernità delle leggi sul lavoro.
Gli anni ottanta
Le congiunture economiche manifestatesi nel decennio precedente non potevano restare senza effetto, il capitale, indebolito ma non sconfitto, non poteva rinunciare a proteggere se stesso: in risposta a norme che inibivano i licenziamenti e che “paralizzavano” la capacità delle imprese di adeguarsi ai mutamenti del mercato, (licenziando e disinvestendo), e così di crescere e prosperare, (a prevalente vantaggio dell’imprenditore stesso), si cominciano ad immaginare forme di lavoro nuove: il dominante modello del rapporto di lavoro subordinato a tempo pieno ed indeterminato, (sinonimo di stabilità), comincia ad arretrare sulla scena perchè ritenuto eccessivamente rigido ed oneroso (per il datore di lavoro) e cominciano ad immaginarsi e privilegiarsi forme diverse e “flessibili”: il tempo determinato, il part-time, le collaborazioni coordinate e continuative, (spesso mero lavoro dipendente mascherato da lavoro autonomo).
Benchè flessibilità del lavoro sia solo un ipocrita eufemismo che intenderebbe celare la sostanziale precarietà del lavoro stesso, flessibilità si avvia a diventare una parola d’ordine indiscutibile, perchè ritenuta espressione di logica e buon senso, ed al crescere della flessibilità/precarietà non può che far riscontro un progressivo indebolimento del potere contrattuale del lavoratore, come individuo e come classe, tanto ricattabile quanto precario.
Sintomaticamente, gli anni ottanta sono gli anni della concertazione sociale, cioè di una trattativa periodica tra sindacati dei lavoratori, associazioni degli imprenditori e governo, (quest’ultimo vera e propria parte e non semplice mediatore della negoziazione), trattativa che era volta a concludere accordi vincolanti da stipularsi in vista dei superiori interessi della pace sociale e della crescita economica; al di là delle solenni enunciazioni di principio, la concertazione, (che in ogni caso ha tanto il
sapore del corporativismo fascista), si è di fatto tradotta in una trattativa in cui, come in tutte le trattative, il più forte, (chi deteneva le chiavi della produzione), si è imposto sul più debole, (chi aveva un irrinunciabile bisogno di lavoro e chi doveva sborsare contributi ed interventi di stato per evitare il prezzo politico delle chiusure degli stabilimenti), con il risultato del progressivo declino della forza e dell’autocoscienza della classe lavoratrice, nonchè della forza, della incisività e della rappresentatività del sindacato.
Ancora più sintomaticamente, gli anni ottanta sono gli anni dell’abolizione della scala mobile, di quel meccanismo cioè che salvaguardava il potere di acquisto dei lavoratori, (impedendone il progressivo e sostanziale impoverimento a parità di salario), mediante l’automatico adeguamento dei salari stessi alle variazioni del tasso di inflazione.
Gli anni novanta
L’ultimo decennio del secolo scorso può essere adottato quale confine e spartiacque tra ciò che eravamo e ciò che siamo ancora oggi.
Da un lato, a livello mondiale, giungono a piena maturazione fenomeni che avevano già iniziato a manifestarsi negli anni ottanta e che cambieranno profondamente le nostre società, le nostre vite ed il mondo del lavoro: si entra nell’era del digitale, dell’informatizzazione, della tecnologia avanzata, delle macchine che non sono più soltanto strumenti che necessitano dell’uomo per funzionare, ma che spesso sono anche strumenti che possono sostituire l’uomo nei processi produttivi, ovvero impiegarne meno nei compiti che prima imponevano di impiegarne di più.
In molti comparti produttivi alla catena di montaggio si sostituisce la linea di produzione, in tutto o in parte automatizzata e robotizzata, e dove prima c’erano 10 operai, ora c’è 1 tecnico operatore addetto alla macchina.
Il mondo si fa molto più piccolo e molto più interconnesso: i tradizionali confini geografico-politici non bastano più a descrivere le relazioni tra i popoli e tra gli stati, perchè la realtà economica è globalizzata, perchè un’impresa può stabilire per convenienza fiscale la propria sede in un certo paese, ma poi di fatto produrre in giro per il mondo, (nei luoghi dove produrre costa meno), e vendere ovunque nel mondo.
Da un altro lato, in ambito italiano, agli effetti dei fenomeni mondiali ora accennati si aggiungono elementi peculiari: gli anni novanta segnano per noi l’inizio del berlusconismo che, a fasi alterne, si protrarrà per quasi vent’anni e che concluderà il ciclo di trasformazione della classe lavoratrice in ciò che è ancora oggi.
Abbiamo visto come dai decenni precedenti abbiamo ereditato un mondo del lavoro abitato da soggetti deboli, precari, non effettivamente rappresentati e non significativamente consapevoli di essere membri di una classe: la figura dell’operaio-massa elaborata sul finire degli anni settanta descrive pienamente tale realtà, ma probabilmente va aggiornata nell’espressione lavoratore-massa, perchè la società italiana è sempre meno operaia e sempre più frammentata in figure di lavoratori precari e/o discontinui, ovvero di “padroncini” che si cimentano nei “nuovi mestieri” che nascono sull’onda dell’era digitale ed informatica.
La realtà ora descritta, peraltro, sembra trovare indiscutibili sponde sul piano concettuale:
– l’Unione Sovietica è implosa e con essa la parte di mondo che le orbitava intorno e tale implosione la “cultura” dominante si è, ovviamente, affrettata ad etichettare e contrabbandare come fallimento e morte del Comunismo e non solo, ma anche come fine delle ideologie in generale, come fine della Storia, come schiacciante vittoria del capitalismo, unica realtà possibile;
– il berlusconismo opera una vera e propria manipolazione psicologica di massa: il modello di riferimento, ciò che ognuno deve sforzarsi di diventare se vuole dirsi felice e di successo, è una figura sorridente, individualista fino all’egoismo ideologizzato, disinvolto fino alla cialtroneria, un consumista ottuso che ostenta tutti i beni che altri gli han detto e gli riesce di comprare, perchè adesso avere è essere e null’altro conta veramente; rispetto al modello proposto il lavoratore non è, in termini di autorappresentazione, nè vuole essere parte del proletariato: esiste solo, quantomeno, chi è già ceto medio e chi deve diventarlo; siamo alla figura del piccolo borghese ottimamente descritta da Lenin, del proletario che non vuole esserlo, in termini di coscienza di classe, e che perciò della sua stessa classe è il peggior nemico, perchè in ciò si illude di trovare legittimazione.
Del resto, siamo ormai dentro ai fenomeni di immigrazione di massa e per i lavori sporchi e duri v’è a disposizione un ampio sottoproletariato di manodopera a basso costo, con ben pochi diritti e poca attitudine a “creare problemi”.
Gli anni novanta ci lasciano un mondo del lavoro popolato da soggetti deboli, precari, frammentati ed anche confusi, in schizofrenica ed infelice lotta tra ciò che effettivamente sono e ciò che ritengono di dover assolutamente essere e mentre si alimenta l’illusione della borghesizzazione del proletariato, si prepara il terreno per la manovra finale che chiuderà il cerchio ed invece proletarizzerà il ceto medio.
Gli ultimi vent’anni
E siamo ai giorni nostri: è arrivato l’euro, c’è un’Unione Europea che sembra essere null’altro se non un comitato d’affari di banchieri e grandi imprenditori, ma che pretende di dettare regole sempre crescenti, sempre più pervasive, sempre più indiscutibili; l’Italia è sempre più la provincia malaticcia e di second’ordine di altri imperi, (imperi spesso fatti di multinazionali più che di nazioni), e deve allinearsi ed adeguarsi, (come Grecia, Irlanda, Portogallo), correggendo ciò che “dall’alto” sono indicate come inefficienze ed anomalie, come freni allo sviluppo economico, come criticità; si è parlato da più parti di “macelleria sociale” con riferimento al complesso di misure varate dai governi per adeguarsi ed allinearsi agli standard imposti dall’alto, misure che si sono potute adottare perché andavano a colpire realtà sociali pur vaste, ma oltremodo deboli e frammentate, per come sopra si è visto.
In Italia vengono emanate:
– la Legge Biagi – D. Lgs. 10.09.2003 n.276 – Nuova disciplina in materia di occupazione e mercato del lavoro, che introduce nuove ed ulteriori tipologie di contratti di lavoro subordinato di natura sostanzialmente precaria e/o a durata limitata, (contratto a progetto, somministrazione di lavoro, contratto di lavoro ripartito, contratto di lavoro intermittente), disciplina il lavoro accessorio ed il lavoro occasionale e sminuisce il ruolo del sindacato a funzioni meramente consultive;
– la Legge Fornero – Legge 22.12.2011 n.214 (di conversione del cosìddetto Decreto Salva Italia), che modifica in senso radicalmente restrittivo il funzionamento del sistema pensionistico;
– la Legge Fornero – Legge 28.06.2012 n.92 – Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita, la quale, previa affermazione di principio che qualifica il contratto di lavoro a tempo indeterminato come forma comune del rapporto di lavoro e “contratto dominante”, introduce poi, tra l’altro, nuove norme sui rapporti di lavoro subordinato e parasubordinato, modifica i contratti dei collaboratori ed i termini di durata del lavoro a termine, rivisita interamente il sistema degli ammortizzatori sociali, modifica la disciplina dei licenziamenti e lo Statuto dei Lavoratori (art.18) limitando i casi di reintegrazione del dipendente illegittimamente licenziato e facilitando i licenziamenti individuali per motivi economici, prevedendosi per lo più unicamente un indennizzo monetario per il caso di accertata illegittimità del licenziamento;
– il Jobs Act – Legge 10.12.2014 n.183 – Deleghe al Governo in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonchè in materia di riordino della disciplina dei rapporti di lavoro e dell’attività ispettiva e di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro, che attraverso i nove decreti attuativi della delega emanati nei successivi due anni tra l’altro: introduce il contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, (con possibilità per il datore di lavoro di licenziare un dipendente senza giusta causa), prevedendosi l’applicazione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori solo dopo i primi tre anni di rapporto, con reintegrazione nel posto di lavoro limitata ad alcuni casi particolari e sostituita in generale dal diritto ad ottenere un’indennità a titolo di risarcimento; prevede la prorogabilità fino a 5 volte dei contratti di lavoro a tempo determinato;
– la Legge 09.08.2018 n.96 (di conversione del cosìddetto “Decreto Dignità”), con la quale si sono apportati alcuni ritocchi in materia di lavoro a tempo determinato anche a scopo di somministrazione e di licenziamenti, nell’intento di limitato contrasto al precariato.
Conclusioni
Il viaggio lungo gli ultimi sessanta anni di provvedimenti sul lavoro evidenzia molto chiaramente:
da un lato che Karl Marx aveva ragione: è l’economia a muovere la Storia, è la forza a decidere l’esito dei conflitti che dentro la Storia incessantemente si producono e sono i vincitori di quei conflitti ad occupare lo stato ed attraverso di esso a dettare le regole, cioè le leggi;
al crescere della debolezza, della frammentazione e dell’inconsapevolezza dei lavoratori ha fatto riscontro a loro carico sempre maggiore ingiustizia e sfruttamento a danno dei molti ed a vantaggio dei pochi; l’OCSE certifica che i lavoratori italiani occupano gli ultimi posti nella classifica mondiale della crescita dei salari reali, (variazione del potere di acquisto in relazione alle variazioni del tasso di inflazione), salari reali che in Italia sono sostanzialmente fermi dagli anni novanta, mentre i salari medi italiani restano al di sotto della media OCSE ed anche al di sotto dei salari medi che si registrano nelle principali economie europee;
il capitalismo, contrabbandato come unico mondo realmente possibile, come migliore dei mondi possibili e come benevolo dispensatore di felicità e progresso, mostra ancora una volta a chi voglia vedere il suo vero volto di divoratore di vite e di gioia: la ricchezza mondiale è sempre più concentrata in poche mani pressochè onnipotenti, mentre aumenta la platea dei poveri e/o dei nuovi poveri; si sono bloccati, per la prima volta dal secondo dopoguerra, gli ascensori sociali ed intere classi di popolazione, (vedasi ceto medio), si proletarizzano e sono immolate all’inesauribile avidità del grande capitale.
Davvero stiamo vivendo una nuova era che sollecita questioni sociali e interrogativi vecchi e nuovi per il mondo del lavoro: questioni ed interrogativi che riguardano la tutela della persona di fronte alle nuove insidie che si presentano, anzitutto per ciò che riguarda le condizioni materiali di vita, (in considerazione della gravissima diffusione del “lavoro povero” e/o della “povertà nonostante il lavoro”), ma anche riguardo ai sacri diritti alla dignità ed alla sicurezza, anche in considerazione dei rischi che la digitalizzazione, l’informatizzazione e l’intelligenza artificiale possono
comportare in termini di discriminazione, di invasività dei controlli sul lavoro, di lesione della privacy e di abuso dei dati personali.
Scriveva Giuseppe Santoro Passarelli, insigne giurista e studioso: “Comunque il diritto del lavoro avrà ragione di esistere fino a quando assolverà alla sua funzione tipica che è quella di proteggere la parte debole del rapporto e, conseguentemente, la persona del lavoratore … se, viceversa, le nuove normative terranno conto solo delle ragioni dell’economia globalizzata dimenticando la disparità di forza contrattuale che esiste tra le parti del rapporto di lavoro, il diritto del lavoro non avrà più ragione di esistere e il contratto di lavoro tornerà ad esse uno dei tanti contratti regolati dal diritto civile”. (1)
Rosario M. Menza
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1 Cfr. G. SANTORO PASSARELLI, La funzione del diritto del lavoro, 55 ss., e ID., Civiltà giuridica e trasformazioni sociali sul diritto del lavoro, cit., 96-97.