Stracciato l’accordo di maggio. Almaviva ha comunicato oggi l’intenzione di procedere al licenziamento di oltre 2.500 lavoratori, dei quali 1.666 a Roma e 845 persone a Napoli. Solo a maggio i sindacati, al termine di una lunga trattativa che aveva visto i lavoratori manifestare al Ministero dello Sviluppo Economico e l’apertura di un tavolo di crisi con il governo, avevano siglato un accordo con contratti di solidarietà e riduzioni salariali, accordo in scadenza a novembre e che l’azienda sembra non intenzionata a rinnovare. Alla base il rifiuto da parte dei sindacati di sottoscrivere una clausola aziendale sulla “gestione di qualità e produttività individuale” ossia in sistema di controllo interno per la valutazione del lavoro dei singoli, legato all’interesse all’incremento della produttività da parte dell’azienda.
Terrorismo da parte aziendale, che si inserisce nel pieno della trattativa con l’ovvia intenzione di condizionare in senso favorevole nuovi accordi, nella direzione della diminuzione del costo del lavoro, per ottenere nuoco sostegno da parte dello Stato e strappare ai lavoratori condizioni peggiorative. Non che già la situazione sia rosea: di accordo in accordo la condizione dei lavoratori è sempre peggiorata, con aumento della precarietà e riduzione dei salari anche grazie agli accordi di solidarietà. Una spirale senza fine per questo settore che dalla vertenza e chiusura di Eutelia in poi ha messo sul lastrico migliaia di lavoratori.
Dal canto suo l’azienda lamenta l’impossibilità di mantenere i livelli attuali del costo del lavoro in Italia in un settore dominato dalle delocalizzazioni verso paesi dell’est della UE o al di fuori di essa, dove il salario dei lavoratori è estremamente più basso. Dichiara perdite mensili di 1,3 milioni di euro a fronte di utili di 2,4 milioni, nonostante l’intervento pubblico con gli ammortizzatori sociali. Si punta il dito anche contro le amministrazioni pubbliche (tra cui Roma e Milano, la Regione Lazio) che con le ultime gare d’appalto al ribasso hanno dato l’affidamento dei propri servizi proprio a queste aziende, impedendo di fatto a qualsiasi azienda operante in Italia di poter vincere le gare, essendo le tariffe inferiori a quelle del costo del lavoro nazionale. La soluzione? Abbassare il costo del lavoro e aumentare la produttività, magari con un sostegno pubblico, consentendo così di elidere il gap con i paesi attrattivi e mantenere margini di profitto in Italia. Politica che i grandi gestori di call center hanno praticato per anni spostandosi di volta in volta nelle regioni dove questa pratica era più redditizia, oppure delocalizzando la produzione all’estero, in un continuo balletto di minacce, tavoli, comunicati scioccanti e trattative. Tutto sulla pelle dei lavoratori e delle casse pubbliche. Tutto in vantaggio delle grandi società.
La vicenda Almaviva è davvero il paradigma della connotazione del conflitto capitale-lavoro nell’Italia di oggi. Le istituzioni pubbliche, dopo massicce campagne di esternalizzazione dei servizi, per servizi connessi con i diritti dei cittadini, ricorrono ad appalti esterni per assicurare i diritti dei cittadini. Il profitto privato che si insinua in un settore prima pubblico porta a comprimere il costo del lavoro. Le gare si aggiudicano con prezzi sempre più bassi con amministrazioni strette dai vincoli di bilancio per i piani di rientro del debito e il patto di stabilità. Molte imprese italiane non riescono a restare competitive in un contesto economico sempre più globale, vedono i loro margini di profitto compromessi e ridotti rispetto a quanto accadrebbe comprimendo il costo del lavoro. Delocalizzano la produzione o minacciano di delocalizzare per ottenere lo stesso effetto senza dover spostare l’azienda ma “importando” condizioni di lavoro e salari al minimo in Italia. Ogni trattativa sindacale ha armi del tutto spuntate, anche perchè abbandonando la strada della lotta e della preparazione dei lavoratori alla lotta, e abbracciando la pratica perdente della concertazione i sindacati confederali si sono chiusi in un vicolo cieco. Nell’ottica della ricerca del compromesso immediato si strappano soluzioni di brevissima durata, che si limitano ad utilizzare il potere contrattuale del sindacato, magari sotto elezioni – l’accordo di maggio era stato siglato prima delle amministartive – per chiamare il governo e le istituzioni all’unica soluzione tampone: iniezione di denaro pubblico alle imprese sotto forma di ammortizzatori sociali, ossia la socializzazione delle perdite per mantenere la privatizzazione del profitto. Soluzione che dura solo il tempo di calmare le acque per poi far ripartire alla carica l’azienda, che si regge solo sul binomio sussidi statali, e contrazione dei costi del lavoro, facendo digerire mano a mano ai lavoratori soluzioni che se prospettate tutte in un momento sarebbero respinte come inaccettabili, e strappando dalle casse pubbliche sempre più incentivi e sostegno. I sindacati si acconciano, e emarginano quella parte più combattiva, espressa dai sindacati di base, che leggendo la situazione poneva come centrale la lotta per l’internalizzazione di questi settori di lavoro, che poi sotto l’appalto privato svolgono compiti per grandi amministrazioni e enti statali tra i quali colossi come l’Inps. Perché la lotta per l’internalizzazione è l’unica soluzione di carattere economico che ai lavoratori possa portare davvero una relativa tranquillità, mettendo fine alla spirale che si è venuta a creare.
Chiunque abbia partecipato alle lotte dei lavoratori di Almaviva sa quale disperazione si abbatta ogni volta su migliaia di lavoratori, con famiglie, con anni di precarietà alle spalle. Sa quale voglia anche del peggiore accordo e del peggiore compromesso esista, pur di avere la possibilità di mantenere il proprio posto di lavoro, assicurando la minima dignità alla propria famiglia, ai propri figli. E’ un sentimento che chi lavora conosce bene sulla propria pelle che si può e si deve comprendere, ma che conduce dritti nel precipizio. E’ sulla strada di accordi al ribasso che i lavoratori avanzano verso la loro sconfitta, non solo in termini generali e di classe, ma anche semplicemente come lavoratori di Almaviva perchè quella strada porta dritta a futuri accordi ancora peggiori, che vogliono privare anche di quella dignità residua che il lavoro garantisce. Nulla vieta all’azienda di tornare sui suoi passi, ma non è consentito ai lavoratori fare altrettanto.
Puntiamo in alto allora: si può dimostrare conti alla mano che i soldi che ciò che lo Stato e le amministrazioni pubbliche spendono per gare, assegnazione di appalti, per sostegno indiretto alle aziende con cassa integrazione e misure varie, che finiscono direttamente o indirettamente nelle mani delle aziende, coprirebbe tutti costi di campagne di stabilizzazione e internalizzazione dei lavoratori. Diciamo che la riduzione dei costi nelle pubbliche amministrazioni può avvenire se si elimina la quota di profitto privato che deve andare alle aziende che vincono gli appalti, che è il profitto privato che rende insostenibili i costi e che livella al ribasso la quota restante per i salari. Rivendichiamo il controllo diretto dei luoghi di lavoro, che sono di chi lavora e non di chi specula sulla pelle dei lavoratori. E’ una battaglia difficile, molto più difficile di accettare i sussidi e rimandare a domani l’inevitabilità del problema ancora maggiore. Ma è l’unica battaglia che conduce alla vittoria.