Tra guerre guerreggiate, commerciali e diplomatiche, il panorama internazionale è sempre più infuocato dai conflitti d’interessi fra gruppi capitalistici che determinano le mosse geopolitiche dei vertici statali connessi nei mutevoli equilibri per la ripartizione del mondo. In questo articolo approfondiamo la crescente tensione nel Mediterraneo orientale e i Balcani meridionali che rischiano di diventare un nuovo focolaio di guerra in grado di attirare molti paesi inserendosi in uno scontro più ampio e sempre più pericoloso che dal Medio Oriente si estende fino alla polveriera balcanica. La Grecia e la Turchia – entrambi membri della NATO – sono le principali parti avversarie ma vi è anche la partecipazione diretta o indiretta di USA, Israele, Egitto, Cipro, un certo numero di paesi dell’UE, tra cui l’Italia, e altre potenze imperialiste e regionali.
Dopo lo speronamento di una motovedetta greca da parte di una nave della Marina militare turca avvenuto nei pressi degli isolotti di Imia-Kardak nell’Egeo sud-orientale e l’arresto e la detenzione di due soldati ellenici che avrebbero attraversato illegalmente il confine turco[1], che si sommano alle palesi e ripetute violazioni dei confini da parte di aerei e navi turche, la tensione è ai massimi livelli e l’escalation è possibile, come dimostrano le parole dei dirigenti politici e delle forze armate dei due paesi che non nascondono l’opzione della guerra. L’«incidente fatale con la Turchia è ormai vicino» e la Grecia dovrà «difendere il suo territorio» ha infatti dichiarato Panos Kammenos, ministro della difesa ellenico della componente di “destra” ANEL della coalizione del governo Tsipras, mentre il presidente turco parla con disinvoltura di «prepararsi alla terza guerra mondiale».
Le dispute nel Mar Egeo
La Turchia rivendica il possesso di 18 isole greche nell’Egeo, vicine alla costa turca, in cui non riconosce il diritto marittimo internazionale. La borghesia turca mette così in discussione i diritti che la Grecia vuol esercitare nel Mar Egeo nella competizione per l’acquisizione delle risorse energetiche di questo mare. «La Turchia continuerà a garantire la sicurezza delle frontiere ed eliminare qualsiasi fonte di minacce. La Turchia e il suo esercito non hanno paura dei nemici e devono esser pronti a mobilitarsi in qualsiasi momento, anche se non vi è alcuna necessità immediata. Siamo alla vigilia di un nuovo conflitto. Ci aspettiamo un’estate “calda”», sono le parole di Erdoğan che non rinuncia al progetto espansionista ottomano nel Mar Egeo e nel Mediterraneo orientale mentre conduce le operazioni militari in territorio siriano con l’invasione della città di Afrin insieme ai mercenari dell’ELS[2]: «Non pensate che la ricerca di gas naturale a Cipro e l’opportunismo nell’Egeo rimangono inosservati dal nostro radar» ha dichiarato alla stampa locale nelle scorse settimane.
La Turchia, infatti, sta impedendo a chiunque, comprese le navi trivellatrici delle compagnie energetiche, l’accesso nella “zona esclusiva economica” (Zee) di Cipro. Provocazioni che si sviluppano sullo sfondo dei preparativi politici e mobilitazioni militari, in cui il governo greco guidato da Tsipras e dal partito di pseudosinistra Syriza, con il cosiddetto piano “di aggiornamento geostrategico” rafforza la posizione dei capitalisti greci nella catena imperialista stringendo cooperazioni con Israele e Egitto, fornendo agli USA un’enorme base militare a Creta e altre infrastrutture, come la base militare di Araxos, dove sono in corso riparazioni e ricostruzioni, con la possibilità di trasportare le testate nucleari americane dalla base NATO di Incirlik (Turchia). Gli USA prevedono anche di costruire nuove strutture militari in Grecia, come una nuova base di elicotteri al confine con la Turchia, ad Alexandroupolis o a Larissa, dove intendono portarvi i loro droni.
La Grecia partecipa a molte operazioni militari e di polizia della NATO e dell’UE e con il pretesto dei rifugiati, il governo greco ha spinto la flotta NATO nel Mar Egeo, che è il “canale” per il passaggio di navi russe verso la Siria dove continua ad infuriare la guerra. Questi piani mostrano come la borghesia greca, in competizione con quella turca, sta cercando di migliorare il suo ruolo all’interno della NATO, approfittando delle contraddizioni della leadership turca con gli USA e la NATO stessa di cui la Turchia è la seconda forza militare.
Tre possibili fronti di guerra sono già evidenti: nella parte Settentrionale – nella regione della Tracia, della Macedonia greca e di Salonicco; nell’Egeo – nella regione delle numerose isole tra Turchia, Grecia e Cipro; sull’isola di Cipro e nelle vicine acque del Mediterraneo.
La questione cipriota
La situazione di Cipro è storicamente uno dei motivi di conflitto tra i due paesi da quando nel 1974 le truppe turche occuparono la parte settentrionale. Attualmente l’isola, con la presenza di truppe ONU e britanniche (oltre a quelle greche e turche), è de facto ripartita tra la Repubblica di Cipro, dove vive la maggioranza greco-cipriota, riconosciuta dalla comunità internazionale e membro dell’UE, e l’autoproclamata Repubblica Turca di Cipro, non riconosciuta a livello internazionale, dove vive la minoranza turco-cipriota. Il motivo principale è la rivendicazione da parte della Turchia dei depositi di gas naturale nelle acque del sud di Cipro, dove vengono effettuate esplorazioni da parte di grandi compagnie minerarie.
Il presidente turco Erdogan ha messo in guardia la Grecia, Cipro e le società internazionali impegnate nell’esplorazione dei giacimenti di gas naturale nel Mediterraneo a non ledere i diritti della Turchia, ritenendo che le trivellazioni in questa regione violerebbero i diritti turco-ciprioti per le risorse naturali dell’isola. Il 9 febbraio scorso, le navi militari turche hanno bloccato la Saipem 12000, nave di perforazione della compagnia italiana ENI[3], mentre si dirigeva – nella zona contesa dalla Turchia – per esplorazioni geologiche dei giacimenti di gas al largo della costa di Cipro fino alla sua temporanea rinuncia. Nella ZEE di Cipro insistono in queste operazioni tra i più importanti colossi energetici mondiali: l’americana ExxonMobil, Shell e Noble Energy, la Qatar Petroleum, la francese Total, l’italiana Eni, la sudcoreana KoGas, l’israeliana Delek.
In questo contesto, la flotta turca intensifica le sue attività (sotto la copertura delle “esercitazioni”) vicino alle isole di Imia nel Mar Egeo, proprio nella fascia costiera dove si suppone esistano giacimenti di gas e il controllo di questo territorio porta automaticamente alla possibilità di estrarre gli idrocarburi. Questo si scontra naturalmente con gli interessi delle classi dominanti degli USA, di Israele, della Grecia, di Cipro, dell’Italia, che cercano di sviluppare i giacimenti di gas e petrolio nella parte meridionale di Cipro, nella Grecia orientale e occidentale, per rompere il monopolio del gas russo in Europa. Il progetto del gasdotto EastMed[4], che rientra nell’obiettivo dell’UE della diversificazione delle fonti di approvvigionamento del gas, può ridurre la dipendenza dal gas russo tagliando però fuori anche la Turchia dove passa la vena giugulare (che Ankara sfrutta per le sue ambizioni geopolitiche) nei rifornimenti di gas diretti verso l’Europa in un punto cruciale in cui si combatte un pezzo importante della guerra dei gasdotti[5] che coinvolge grandi monopoli energetici.
Tutto questo ci fa ben comprendere quali siano gli immensi interessi in gioco, nel quadro internazionale della competizione inter-imperialista per il controllo e trasporto delle risorse energetiche e la ripartizione dei mercati che coinvolge anche il nostro paese, che causano l’attuale tensione che potrebbe portare fino alla guerra. In questo senso, la “questione Cipro” può divenire uno dei feroci teatri delle operazioni militari, sia a terra che in mare, e servire reciprocamente come pretesto per la guerra come difensore dei “greco-ciprioti” e dei “turco-ciprioti”.
La questione macedone
Nell’acutizzazione dei contrasti inter-imperialisti rientra anche il pericolo di una nuova edizione delle guerre balcaniche, che può esser innescata da diversi attori e centri imperialisti. Da ultimo, la questione del nome dell’ex Repubblica Jugoslava di Macedonia (FYROM)[6], alla quale la Grecia rifiuta dal 1991 l’utilizzo del nome Repubblica di Macedonia (eguale alla confinante regione greca), è esplosa nuovamente con forza in queste ultime settimane ed è alimentata dai nazionalisti di entrambe le parti (con annesse rivendicazioni territoriali) mentre avanzano le negoziazioni spalleggiate anche dal governo greco per l’ingresso nella NATO e nell’UE della FYROM.
Naturalmente, la disputa sul nome nasconde le vere questioni territoriali di fondo e i piani imperialisti generali promossi dalla NATO, dagli USA e dall’UE per rafforzare la loro presenza economica, politica e militare nella regione. La Grecia settentrionale è un trampolino di lancio per promuovere gli interessi di USA-NATO-UE al fine di rafforzare la loro competizione con la Russia e la Cina, consapevoli che Salonicco rappresenta «una porta di accesso ai Balcani occidentali e all’Europa sudorientale» come dichiarato dall’ambasciatore statunitense in Grecia identificandola a ragione come snodo cruciale nel conflitto per il controllo delle risorse energetiche e delle rotte.
La borghesia turca cerca di approfittarne per realizzare cambiamenti territoriali e la revisione dei precedenti trattati internazionali, come quello di Losanna del 1923 che fissò i confini nell’Egeo ma anche quelli territoriali tra Turchia, Iraq e Siria. «Quelli che credono di aver sradicato dal nostro cuore le terre che abbiamo perso cento anni fa sbagliano. In ogni occasione ripetiamo che la Siria, l’Iraq e altre parti della mappa non sono separate dalle terre della nostra patria», sono parole di Erdoğan che rendono chiari gli obiettivi dell’aggressività turca e del progetto espansionista in tutta l’area che trovano conferma nell’intenzione di proseguire le operazioni militari di questi giorni nel nord della Siria fino all’Iraq.
L’assistente del Segretario di Stato USA per gli affari europei ed euroasiatici, Mitchell, recentemente in visita nei paesi dei Balcani occidentali, in Grecia e a Cipro – in contemporanea con l’arrivo della nave esploratrice Ocean Explorer della ExxonMobil nella ZEE con l’opposizione turca – per affrontare le questioni chiave dell’agenda americana nella regione, concentrandosi sugli interessi dei monopoli, ha promesso una politica più attiva degli USA nei Balcani al fine di aumentarvi la sua influenza contro la Russia e altri competitor regionali: «Vediamo la Russia svolgere un ruolo devastante nella maggior parte dei Balcani, minando le istituzioni democratiche» ha dichiarato senza mezzi termini in una conferenza stampa congiunta con il premier albanese Thaci[7], dirigendosi di seguito nella FYROM dove ha espresso il sostegno americano all’accordo-compromesso con la Grecia funzionale all’ingresso nella NATO.
L’escalation dello scontro turco-greco significherebbe l’emergere di un crack all’interno dell’alleanza atlantica a guida USA ma al contempo può esser utilizzato per giustificare nuovi interventi in una regione sensibile per la competizione con la Russia nell’imporre i propri progetti che ne ridisegnano controllo e confini nel quale agiscono anche gli interessi contradditori di forze locali e potenze regionali.
La risposta dei comunisti e del movimento contro la guerra
Di fronte a questa escalation, i comunisti greci e turchi stanno combattendo insieme contro la possibilità di una guerra fratricida, la propaganda imperialista, il nazionalismo e il ridisegno dei confini, rafforzando l’amicizia e la solidarietà tra i popoli. Il Partito Comunista di Grecia (KKE) e il Partito Comunista di Turchia (TKP) con la sua gioventù, hanno organizzato proteste contro i piani imperialisti, le politiche guerrafondaie dei loro governi e la presenza militare della NATO nella regione, chiamando i popoli alla mobilitazione di fronte alla minaccia della guerra e distruzione collegando questa lotta con quella per il rovesciamento del capitalismo e il potere dei monopoli alla base delle guerre.
«Il nostro popolo non ha niente che lo divide dai popoli dei Balcani, non ha niente che lo divide con il vicino popolo turco. Per questo non deve cadere nelle trappole del nazionalismo che avvelena i popoli mentre occulta il fatto che gli operai in tutti i paesi hanno lo stesso avversario, i medesimi sfruttatori: i borghesi e il loro sistema marcio», ha dichiarato il Segretario Generale del KKE, Dimitris Koutsoumpas alla mobilitazione di Atene dello scorso 27 febbraio culminata con un corteo di massa verso l’ambasciata USA denunciando il ruolo del governo Tsipras come “portabandiera” della NATO. Proseguendo, ha affermato che «il KKE è l’unico partito che evidenzia la natura della guerra come un massacro dei popoli per gli interessi dei monopoli. […] Così come oggi la politica per la reddittività e la competitività dei monopoli intensifica lo sfruttamento dei lavoratori, che aumenta in condizioni di crisi, in cui prevale la pace imperialista con la pistola alla testa dei popoli, per cui la guerra è la continuazione di questa politica con mezzi militari violenti, con il fine di conquistare mercati, sfere d’influenza, controllo delle risorse naturali. Lottiamo insieme contro qualsiasi tentativo di modifica delle frontiere, dei trattati internazionali, che portano i popoli a spargere il loro sangue. Contro il nazionalismo che vuol occultare il fatto che i lavoratori di Grecia, Turchia e altri paesi hanno oggi lo stesso nemico: i monopoli, il capitalismo, i loro governi e le loro alleanze imperialiste. Bisogna rifiutare gli insidiosi appelli alla presunta unità nazionale, che vuol dire sottomissione della classe operaia e del popolo ai piani del capitale, degli USA e della NATO».
Il 6 marzo è stata la volta di Salonicco con una manifestazione simile e una marcia di massa verso il Consolato degli Stati Uniti dove è stata bruciata la bandiera degli USA. In entrambe le manifestazioni sono intervenuti militari greci che hanno così espresso la loro opposizione ai piani della NATO, il rifiuto di collaborare con le sue forze e la fornitura di basi e infrastrutture, e di combattere al di fuori dei propri confini. Contemporaneamente anche in Turchia ci sono state mobilitazioni nel quadro della campagna antimperialista della gioventù comunista: azioni di protesta si sono svolte all’Università di Ankara contro la NATO, gli USA e il governo (la cui politica bellicosa è supportata anche da partiti dell’opposizione come il CHP) mentre a Istanbul è stata organizzata una manifestazione di piazza dando fuoco alle bandiere della NATO e degli USA chiedendo la cancellazione dell’accordo bilaterale NATO-Turchia e la chiusura della base di Incirlik. Nella loro dichiarazione i comunisti turchi affermano che «purtroppo, il nostro paese ha preso parte alla guerra così come alle imprese imperialiste. La morte ricade su larga parte della gioventù, mentre altri si arricchiscono e proteggono i propri interessi. Tuttavia, i giovani hanno bisogno di capire che questa non è la nostra guerra, è la guerra delle compagnie energetiche, delle agenzie per azioni che competono sulle offerte degli armamenti, dei politici che vogliono proteggere le loro posizioni».
Questo ennesimo scontro in atto, addirittura tra alleati nella NATO, ci dà la dimensione di quello che sta accadendo nel mondo (non solo nei principali scenari di guerra aperta), che richiede di innalzare il livello di vigilanza e controinformazione. L’immediata e congiunta risposta dei comunisti greci e turchi, smaschera la natura dello scontro evidenziando come siano i monopoli e il loro potere a generare le guerre per gli interessi dei capitalisti che non coincidono con quelli dei lavoratori chiamati a versare il loro sangue in guerra e ad esser spremuti in pace sempre per i profitti. I temi e posizioni che sollevano hanno pertanto rilevanza per l’intero movimento operaio e comunista internazionale nella lotta contro la guerra da collegare con i piani antioperai e antipopolari complessivi delle borghesie, dei governi e conglomerati imperialistici come l’UE e la NATO, e indicano la strada da seguire per fermare e ribaltare la possibilità di un massacro inter-imperialista mondiale, anche nel nostro paese che è pienamente coinvolto in questi processi e piani.
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[1] Il governo turco sta tentando di usare come merce di scambio le due guardie di frontiera greche detenuti dalle forze speciali turche al fine di ottenere la consegna di sette suoi militari che chiesero asilo ad Atene dopo il fallito colpo di stato.
[2] Esercito Libero Siriano, composto da jihadisti provenienti da Al Qaeda e ISIS, alleato degli USA e della Turchia per destituire il legittimo presidente siriano Assad. Washington all’inizio dell’operazione militare turca “Ramo d’Olivo” contro i curdi e il PYD (anch’essi alleati degli USA nella coalizione delle Forze Democratiche Siriane-SDF) nel distretto di Afrin ha riconosciuto le “preoccupazioni legittime della Turchia in materia di sicurezza” esortando però il governo turco a “limitare l’operazione di Afrin nella portata e nella durata”. Di fatto un via libera controllato al loro alleato nella NATO che ha in progetto lo smembramento della Siria.
[3] L’ENI è presente a CIPRO dal 2013 e detiene interessi in sei licenze situate nei blocchi 2, 3, 6, 8, 9 E 11, di cui cinque come operatore. Pochi giorni fa il gruppo ha annunciato di aver effettuato una scoperta di gas nel blocco 6, nell’offshore di Cipro, attraverso il pozzo CALYPSO 1, considerata “una promettente scoperta di gas”.
[4] Il gasdotto EastMed, di circa 2000 km in grado di trasportare 15 miliardi di metri cubi all’anno di gas, collegherà direttamente le risorse di gas dell’Mediterraneo orientale (Israele e Cipro) con la rete europea del gas naturale attraverso la Grecia e l’Italia.
[5] Al Blue Stream che collega Russia e Turchia attraverso il Mar Nero si affianca il rinato progetto del Turkish Stream; più a sud corre il Tanap, che passato l’Adriatico dovrebbe sfociare nel contestato Tap in costruzione del Salento, porterebbe il gas dall’Azerbajan fino all’Italia passando dalla Turchia e Grecia. Sempre nell’orbita turca sono i progetti del Southstream, che Putin vuole per tagliare fuori l’Ucraina, e del Nabucco, che vogliono invece gli americani per tagliare fuori la Russia.
[6] L’ampia regione della Macedonia è attualmente condivisa tra quattro Stati balcanici secondo il Trattato di Bucarest nel 1993: 51% alla Grecia, la Serbia il 39% (FYROM), la Bulgaria il 9,5% e l’Albania lo 0,5%.
[7] Anche la borghesia albanese avanza l’idea della cosiddetta Grande Albania, con le aspirazioni territoriali a spese dei paesi vicini come la Grecia, la Serbia, la FYROM e il Montenegro, progettando l’annessione del protettorato NATO del Kosovo come primo passo. Sia la FYROM che l’Albania, hanno cooperazioni politico-militari sia con la Turchia che con la NATO e gli USA e possono esser coinvolti direttamente in operazioni militari nella regione.