*di Alberto Lombardo
(Ufficio Politico Partito Comunista)
MEDIOBANCA: «Intesa incassa opportunisticamente il premio della reputazione nazionale, con zero rischi. Avrà enorme potere di fissazione dei prezzi in Veneto».
CODACONS: «I cittadini si ritrovano doppiamente danneggiati dalla crisi di Veneto Banca e Banca Popolare di Vicenza: una prima volta attraverso il crollo delle azioni delle due banche, già costato 19 miliardi di euro ai risparmiatori assieme agli aumenti di capitale e alle perdite degli ultimi anni, la seconda volta attraverso le risorse pubbliche che il Governo mette a disposizione del salvataggio, 17 miliardi di euro pari a 708 euro a famiglia.»
FEDERCONSUMATORI FVG: «Cedere per un euro gli asset redditizi prefigura un aiuto di Stato, ma non alle banche venete, bensì a Intesa Sanpaolo, che in un sol colpo ha eliminato due competitor radicati in un territorio molto produttivo acquisendo quasi mille sportelli e la totale egemonia nel Nordest».
I commenti sull’operazione che ha portato al “salvataggio” delle due banche venete non si sono fatti attendere, soprattutto da coloro che o non ci hanno guadagnato, o ci hanno perso.
Mai però il governo si poteva rivelare più sfacciatamente di così quale “comitato d’affari” della borghesia, e in particolare dei settori preminenti, a servizio della concentrazione monopolistica, mettendosi sotto i piedi le loro stesse regole nazionali ed europee tanto sbandierate fino a un istante prima, facendo dei “due pesi e due misure” la regola del gioco.
La crisi delle due banche venete dura da diversi anni e i governi e gli amministratori che si sono succeduti avevano cercato di temporeggiare. Quando a inizio anno le due banche avevano fatto domanda di “ricapitalizzazione preventiva”, la Banca Centrale Europea le aveva dichiarate “solvibili”. Quando però è stato chiaro che la ricapitalizzazione preventiva non avrebbe trovato nessun privato disposto a mettere i 1,2 miliardi necessari – come avrebbe richiesto una vera “operazione di mercato” gravida di rischi – e il 14 giugno 2017 i legali della banca hanno dato l’avvio dell’azione di responsabilità, che presenta un conto da 2,3 miliardi a titolo di danni «nei confronti di ex amministratori e sindaci alternatisi in carica fino al 26 aprile 2014», allora la BCE ha cambiato le carte in tavola e ha dichiarato che le due banche sono in realtà “fallite o sull’orlo del fallimento”. Ciò consente al governo Gentiloni di liquidarle con le regole italiane, in quanto la BCE ha comunicato che non considera le due banche abbastanza grandi da essere “sistemiche” (cioè da generare conseguenze gravi sull’intero sistema bancario in caso di fallimento) e non era necessario quindi applicare la direttiva che prevede il cosiddetto bail-in, cioè il salvataggio delle banche usando prima di tutto i soldi di investitori e risparmiatori invece dei soldi pubblici.
Ciò ha aperto la strada per un affarone da parte della principale banca italiana, Banca Intesa. La soluzione “trovata” dal governo, invece che 1,2 miliardi per la ricapitalizzazione, prevede una spesa iniziale di ben 5 miliardi di euro per salvare i risparmiatori delle due banche e una spesa potenziale di altri 12 miliardi di garanzie. Banca Intesa “acquisterà” la parte sana delle banche, mentre lo Stato si farà carico della cosiddetta “bad bank”. Banca d’Italia infatti ha ribadito che dal «perimetro della cessione, sono esclusi, tra l’altro, i crediti deteriorati (sofferenze, inadempienze probabili ed esposizioni scadute) e ulteriori attività e passività delle Banche in liquidazione, come specificate nel contratto di cessione». Ossia tutte quelle attività che comportano un rischio sono a carico dello stato. Banca Intesa stanzierà 60 milioni per rimborsare i piccoli risparmiatori, che detengono le obbligazioni subordinate delle due popolari, che saranno rimborsati integralmente, ma questa parte sarà solo pari al 20% del totale, mentre il rimanente 80% sarà a carico del Fondo Interbancario di tutela dei depositi, ossia delle altre banche italiane, che devono quindi pagare il conto del rafforzamento della concorrente maggiore. Per il momento lo Stato dà 4,7 miliardi di euro a Intesa San Paolo, più garanzie pubbliche, per un importo pari a 1,5 miliardi di euro, volto alla sterilizzazione di rischi. Altri 12 miliardi di euro per il momento sono garanzie di vario genere emesse sempre dallo Stato. Per capire quanto costerà effettivamente l’operazione, bisognerà vedere a quanto lo Stato riuscirà a vendere gli asset delle “bad bank” e quanto bene andrà l’integrazione tra Intesa e ciò che resta delle due banche venete.
Con buona probabilità quindi non si dovrebbe rivelare vero quanto hanno dichiarato il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, e la Banca d’Italia, scesa in campo a difesa del decreto, cioè che i fondi necessari «non impattano sul deficit» e sono «già previsti in bilancio» nei fondi stanziati a Natale per le ricapitalizzazioni precauzionali, come quella del Monte Paschi. Infatti questi fondi avrebbero dovuto costituire una specie di partita di giro, di prestito ponte, che poi le banche risanate avrebbero dovuto restituire, invece quello che si potrebbe ricavare dalla bad bank, dopo che essa è stata spolpata da Intesa, potrebbe essere davvero misera cosa.
Ulteriore beffa, la Commissione europea ha detto che questa operazione si configura come aiuto di Stato, ma ha comunque deciso di approvarla per via della particolare situazione in cui si trova il Veneto e per l’impatto positivo che potrebbe avere l’intervento sull’economia locale.
Fuori dall’orizzonte di Intesa restano i crediti deteriorati e gli «oneri di integrazione e razionalizzazione», cioè i costi legati alla gestione dei circa 4mila esuberi che sarebbero prodotti dall’intervento. Per questa ragione in cantiere c’è un rifinanziamento da oltre un miliardo per il fondo esuberi. Quindi anche la pantomima che l’operazione è finalizzata a salvare posti di lavoro è falsa. Infatti, spiega Intesa, «un ulteriore contributo pubblico cash a copertura degli oneri di integrazione e razionalizzazione connessi all’acquisizione, che riguardano tra gli altri la chiusura di circa 600 filiali e l’applicazione del Fondo di Solidarietà in relazione all’uscita, su base volontaria, di circa 3.900 persone del gruppo risultante dall’acquisizione, nonché altre misure a salvaguardia dei posti di lavoro, quali il ricorso alla mobilità territoriale e iniziative di formazione per la riqualificazione delle persone».
Per avere un’idea di chi vince e di chi perde, basta dare un’occhiata alla Borsa, dove Intesa lunedì 26 alle 13 guadagna oltre il 4%.
In tutto questo, resta senza risposta, anzi viene demonizzata come “impraticabile” – al pari della vicenda Alitalia – la rivendicazione dei comunisti di nazionalizzare le due banche ed affidarle ai lavoratori, salvando i loro posti di lavoro e i risparmi dei piccoli risparmiatori. Questa soluzione, che non è il socialismo, ma non è la soluzione dei padroni, sarebbe costata meno, soprattutto se si fosse fatta per tempo, prima che i precedenti amministratori non avessero finito di dilapidare le risorse delle due banche.
Cosa dimostra questa vicenda, ancora una volta: