E’ salito a 13 il numero degli operai morti questo lunedì a seguito dell’esplosione di una caldaia in una fabbrica tessile in Bangladesh, con il ferimento di altri 50. Lo scoppio ha provocato il collasso di un tetto e di pareti dell’edificio di sei piani coinvolgendo anche altre edifici nelle vicinanze. Un numero di morti e feriti che poteva esser di dimensioni ancor più drammatiche se non fosse stato che al momento dell’esplosione la maggior parte dei dipendenti dell’impianto erano in congedo per le celebrazioni della festività musulmana di Eid al-Fitr.
Lo stabilimento ubicato a Gazipur, zona industriale alla periferia di Dhaka, capitale del Bangladesh, è di proprietà della Multifabs Ltd, che produce per molte delle marche di vestiti europei e non: 14 marchi del Regno Unito, Paesi Bassi, Spagna, Russia, Germania, Giappone, Danimarca e Svezia sono infatti clienti della Multifabs Limited, fondata nel 1992-93 che produce circa 70mila pezzi di abbigliamento al giorno. Tra questi ci sono la Littlewoods, uno dei più antichi marchi inglesi di vendita al dettaglio, la giapponese Mitsubishi Corporation Fashion e la tedesca Aldi. Il proprietario, Mohiuddin Faruque, ha subito rigettato ogni responsabilità offrendo ai familiari la possibilità di prendere il posto degli operai morti, mentre le autorità promettono risarcimenti economici e accertamento delle responsabilità. Solito cliché ipocrita che si ripete come il silenzio assoluto delle grandi imprese committenti impegnate a disconoscere ogni tipo di coinvolgimento nello sfruttamento della manodopera nel Paese asiatico.
Immediate proteste (in foto) da parte del sindacato GWTUC (Garment Workers Trade Union Centre), legato alla Federazione Sindacale Mondiale e vicino al Partito Comunista del Bangladesh (CPB), denunciando e responsabilizzando le pessime condizioni di sfruttamento e mancanza di sicurezza diffuse nel paese per questa ennesima tragedia nel settore tessile. In Bangladesh ci sono oltre 4.500 fabbriche tessili, per un fatturato di circa 20 miliardi di dollari, che impiegano circa 4 milioni di lavoratori con un salario minimo mensile di solo 67 dollari di fronte ad una richiesta d’incremento del salario minimo di 203 dollari da parte del sindacato. Alla fine dello scorso anno, una rivolta operaia si scatenò a seguito del licenziamento di 121 operai, nel distretto industriale di Ashulia, con la richiesta di reintegro dei licenziati, l’incremento del salario minimo mensile e il miglioramento delle condizioni di lavoro, riuscendo a fermare diverse fabbriche per giorni. Ma la repressione statale non si fece attendere con decine di feriti e arresti, e il licenziamento di 1.500 operai colpevoli di aver protestato.
Molte delle fabbriche non hanno le minime condizioni di sicurezza, con ambienti insalubri e pericolosi, come dimostrano i frequenti eventi luttuosi che colpiscono la classe operaia bengalese, dal “Rana Plaza” con 1.129 morti le cui famiglie e feriti ancora aspettano anche i “promessi” risarcimenti, ad altri come l’incendio della Tzareen Fashion che costò la vita a 112 persone a Aushulia, l’esplosione di una fabbrica di fertilizzanti chimici lo scorso anno coinvolgendo 200 operai a Chittagong e l’incendio alla Tampaco Foils Ltd a Tongi (nord di Dhaka) con 33 morti, i 15 morti nell’incendio che ha devastato i due piani della Aswad Knit Composite proprio a Gazipur, per citarne alcuni. Tutto questo continua ad avvenire nonostante le tanto declamate e pubblicizzate iniziative internazionali per Accordi per la prevenzione degli incendi e sulla sicurezza degli edifici che, secondo quanto dicono i promotori, le imprese e il governo locale dovrebbe garantire la messa in sicurezza delle fabbriche di committenti dei marchi internazionali dell’abbigliamento e il miglioramento delle condizioni di lavoro. Proprio nei giorni scorsi era stato firmato un secondo accordo tra “sindacati, marchi di abbigliamento e distributori” che dovrebbe garantire “la prosecuzione del programma più efficace per garantire la sicurezza nelle fabbriche nell’era contemporanea della produzione globale di abbigliamento”.
Ma i lavoratori bengalesi continuano a perdere la vita a causa dell’appetito insaziabile della borghesia locale e internazionale per aumentare i suoi profitti. Profitti che sarebbero inficiati da misure sanitarie e di sicurezza adeguate a salvaguardare la vita dei lavoratori che per i capitalisti non conta nulla. Pessime condizioni di lavoro, bassi salari, lavoro minorile, orari massacranti che arrivano a 70-80 ore settimanali sono le condizioni favorevoli per la “catena”, fatta di sfruttamento, morte, repressione e regole non rispettate, che dalle fabbriche bengalesi arriva fin dentro i negozi di mezzo mondo, compresi quelli europei e del nostro paese, per gli enormi profitti dei grandi marchi dell’abbigliamento che delocalizzano in questi paesi del sud-est asiatico appaltando la produzione a veri e propri centri di sfruttamento. Si stima che sui capi di abbigliamento prodotti tramite questo metodo le grandi marche riescano a ricavare un profitto di oltre venti volte il costo pagato alla fabbriche che esegue il lavoro. E in questo sono pienamente coinvolti anche capitalisti italiani.