In una società in cui sono le logiche dei mercati a dettare sia il bello che il cattivo tempo, la delocalizzazione è una spada di Damocle che pende sulla testa degli operai. Un’azienda decide di chiudere i battenti, operare in un altro paese e centinaia di persone perdono il lavoro. Questa famigerata mossa viene appunto definita delocalizzazione e trova il suo ambiente ideale nell’Unione Europea. La Bekaert, gruppo belga leader nella produzione di rinforzi d’acciaio per utilizzi diversi con 30.000 dipendenti in 120 paesi, ha annunciato lo scorso 22 giugno che sposterà la produzione in Romania chiudendo lo stabilimento di Figline Valdarno dopo averlo rilevato (con un esubero di 50 operai) dalla multinazionale italiana Pirelli nel 2014, acquisendo il ramo stellcord (cordicella metallica per pneumatici) per divenirne una sua fornitrice nella filiera produttiva globale. Come si evince dai comunicati inviati dalla stessa multinazionale, sia ai sindacati che ai suoi ormai quasi ex-dipendenti, le ragioni che l’hanno spinta a traslocare sarebbero rintracciabili nelle gravi “perdite della società”. La Bekaert non si fa quindi scrupoli a spostarsi dove il “costo del lavoro” è più basso, dopo aver acquisito le competenze sviluppate anche da un reparto di ricerca e sviluppo fra i più all’avanguardia, portando a termine lo smantellamento dello stabilimento nato nel 1959 e iniziato con l’esternalizzazione del ramo operata da Pirelli.
I diretti interessati, vale a dire i lavoratori, dopo aver accusato il colpo non sono rimasti a guardare. La partita si gioca per antonomasia sul campo, oltreché a tavolino. Sono state organizzate manifestazioni che hanno mobilitato l’intera comunità. I sindacati di Cgil e Cisl hanno intavolato trattive con il governo per cercare d’impedire il licenziamento collettivo. Il ministro del lavoro e dello sviluppo economico, Luigi di Maio, ha parlato di provvedimenti di “moral suasion” con il quale illude di poter bloccare la vertenza. Ad oggi, non sembra una strada praticabile. La protesta comunque prosegue: la Fiom, sostenuta dalle tute blu, ha intenzione di organizzare una manifestazione da svolgere in prossimità della sede di Bekaert, che si trova in Belgio. Inoltre, ad agosto, durante il periodo di ferie della società, il sindacato che ha chiamato a raccolta gli operai e gli abitanti della località, propone eventi e manifestazioni di resistenza. Vi sono persino tentativi di boicottare i prodotti che la Bekaert offre alla propria clientela. I membri di rappresentanza delle organizzazioni sindacali, insieme ai lavoratori dell’azienda, hanno firmato una lettera rivolta ai produttori di vino e spumante nel nostro paese, chiedendo loro di sospendere l’acquisto delle gabbiette fermatappo vendute dalla Bekaert.
Nonostante gli arditi e imperterriti tentativi, vi sono pochi spiragli. A queste condizioni arrivare a una soluzione che vada a vantaggio degli operai sembra molto difficile. Un’opzione vagliata da entrambe le parti in gioco, sindacati e multinazionale, è la reindustrializzazione. Al Mise se n’è discusso ma la Bekaert pare disposta ad accettare, a patto che l’azienda subentrante non produca prodotti “steel record”. Anche se lo stabilimento venisse sostituito con un altro, ovviamente gestito da una proprietà diversa, non sarebbe una conquista per i lavoratori toscani. Gli operai sarebbero costretti a reinventarsi, con il rischio di non essere assunti dalla nuova azienda, dato che questa non opererà nel mercato del ferro.
Un altro punto riguarda il fatto che la Bekaert, secondo alcuni eurodeputati, avrebbe agito violando alcune norme europee sulla concorrenza in materia di aiuti di Stato per favorire la delocalizzazione in un altro paese. Ma anche questo sembra un tentativo più d’apparenza che altro. A tutto questo si aggiunge il Jobs act, in eredità dal governo Renzi, che aggrava una situazione già di per sé perniciosa. Infatti, una delle sue parti prevede che i lavoratori non abbiano il diritto alla cassa integrazione in caso di cessazione di attività dell’impresa.
Bisogna ribaltare il tavolo ponendo altre opzioni sicuramente più forti e concrete, come sottolineato anche da qualche operaio, che risiedono nella nazionalizzazione sotto controllo operaio. Solo in questo caso, si potrebbe mantenere la produzione, i posti di lavoro e i diritti dei lavoratori verrebbero preservati. Solo così, con la lotta, la solidarietà e il proprio protagonismo, si possono cambiare le condizioni in modo che i lavoratori escano vittoriosi dalla disputa rifiutando di esser trattati come merce usa e getta. Nel frattempo, l’intera comunità si trova in impasse. Congelata dalla repentina decisione di una multinazionale, le manifestazioni provano a scuotere il senso di torpore che pervade gli abitanti del territorio. Purtroppo i sindacati da anni hanno perso la veemenza e la conflittualità che un tempo li contraddistingueva, così i 318 lavoratori devono trovare la forza nella loro capacità di auto-organizzarsi contro l’attacco padronale per non piegarsi più alle esigenze del profitto.