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Brasile. La resa dei conti

di Piero Bergonzini

Fed. Esteri – Partito Comunista

 

Il 30 giugno il Tribunale Superiore Elettorale brasiliano, per 5 voti a 2, ha riconosciuto l’ex presidente Jair Bolsonaro colpevole di abuso di potere politico e utilizzo improprio dei mezzi di comunicazione, dichiarandolo così ineleggibile per 8 anni. La sentenza non è definitiva ma, se fosse confermata, segnerebbe l’inizio della fine della sua carriera politica. Se da una parte è vero che il periodo di 8 anni viene calcolato a partire dalla data del primo turno delle elezioni politiche 2022 e quindi Bolsonaro, pur non potendo candidarsi alle elezioni presidenziali del 2026, per soli 4 giorni, potrebbe teoricamente concorrere a quelle del 2030, è altrettanto evidente che egli avrà allora già compiuto 75 anni e, soprattutto, è opinione abbastanza condivisa che questa sarà solo la prima di una serie di condanne che, molto probabilmente, sfoceranno in una lunga pena detentiva.

Le prime reazioni dopo la condanna vedono da una parte i sostenitori dell’ex presidente, sempre più radicalizzati ma sempre meno numerosi, accusare i giudici di avere emesso una sentenza politica. La cosiddetta opinione liberale e democratica, che in gran parte nel 2018 ha votato per lui, ne sta approfittando per lavarsi la coscienza e fare professione di antibolsonarismo. La sinistra più radicale, invece, spinge affinché, come dicevamo sopra, dopo la giustizia elettorale entri in campo anche quella penale e Bolsonaro possa presto rispondere dei numerosi crimini commessi durante il suo mandato.

Se da una parte è giusto e doveroso che Bolsonaro paghi per le sue malefatte, in tanti, anche a sinistra, sembrano non capire che Bolsonaro, ben lungi da essere il deus ex machina della destra radicale, magari anche suo malgrado, è stato solo il prestanome degli interessi statunitensi, della borghesia compradora locale e dell’alto comando dell’esercito brasiliano, le forze reazionarie che fin dal primo mandato del governo Lula, a partire dal 2003, si sono attivate sinergicamente per mettere fine il prima possibile all’esperienza di governo del Partido dos Trabalhadores. Forse anche suo malgrado non nel senso che lui non fosse d’accordo, ma per sottolineare come probabilmente non ne fosse nemmeno pienamente consapevole, visto che pare acclarato che oltre a essere stato un “pessimo militare” (così lo definì Ernesto Geisel, il generale brasiliano golpista che fu presidente del Brasile dal 1974 al 1979 durante la dittatura militare), non è generalmente ritenuto particolarmente intelligente (i suoi stessi superiori, quando era ancora un militare, lo giudicarono immaturo, eccessivamente ambizioso e carente in pensiero logico e razionale).

In tanti, anche tra le cosiddette forze progressiste, non si sono resi conto che Bolsonaro, dopo la mancata rielezione dello scorso anno, era già finito politicamente e che, soprattutto, la sua condanna in sede giudiziaria è la condizione necessaria affinché la destra liberale, ora “innaturalmente” alleata di Lula, possa assorbire la destra radicale bolsonarista e prepararsi a sfidare Lula alle elezioni presidenziali del 2026.

Non si possono però escludere effetti anche a più breve termine. Lula ha sì vinto le elezioni 2022, ma con un margine molto stretto (50,90% contro 49,10%) e si trova a dover governare con un parlamento paradossalmente ancora più orientato a destra di quello della scorsa legislatura. Inevitabilmente, ha dovuto così dare vita a un governo di larghissime intese che vede quindi al suo interno le stesse forze che si stanno preparando ad affrontarlo nel 2026: la fine “prematura” di Bolsonaro potrebbe quindi dare il via a una fase di progressivo scollamento della sua instabile maggioranza ed essere funzionale a ostacolare quella che è la vera posta in gioco e obiettivo principale del suo terzo mandato presidenziale: liberare il Brasile dalla nefasta influenza statunitense e riportarlo in orbita BRICS attraverso un legame sempre più forte con Russia, India e Cina. Un affronto che lo Zio Sam non può certo tollerare e che può aver dato il via a una nuova fase dell’ennesima rivoluzione colorata finalizzata a mantenere il Brasile recluso nel cortile di casa degli Stati Uniti.

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