Il “Capitale – Critica dell’economia politica”

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Il “Capitale – Critica dell’economia politica”

di Alberto Lombardo

Perché Marx fece seguire il sottotitolo “Critica dell’economia politica” al titolo della sua più celebre opera? Se ci si soffermasse accuratamente su questo particolare, tanto in mostra quanto sfuggito ai più, probabilmente tutta una serie di equivoci si sarebbero evitati.

“Critica” significa che l’ultima cosa che Marx volesse fare era costruire un “sistema” (di hegeliana memoria) che spiegasse i meccanismi dell’economia a partire da leggi preesistenti (nel senso che esistono prima e indipendentemente da) i reali e multiformi e innumerevoli processi che invece si vogliono spiegare. Dove per “spiegare” Marx ci ha insegnato che egli intende: realizzare un’astrazione storicamente determinata” per cogliere, al di là dei dati empirici, le tendenze generali e la connessione logica e storica. Quindi tutto il contrario di quello che la “scienza economica”, in particolare quella odierna, pretende di trovare: sistemi autoconsistenti, che trovano rispondenza nella coerenza matematica dei modelli.

Tra parentesi vogliamo anche criticare la tendenza opposta, che è quella econometrica, in cui spesso si affastellano dati statistici estremamente dettagliati, che spesso mancando di trovare la corrispondenza con le teorie di cui sopra, si affannano a ritagliarne altre che si adattano perfettamente ai propri dati, ma spesso a non molto altro.

Tutte le categorie – e in particolare quelle dell’economia politica, quali il lavoro, il denaro, ecc. – sono frutti dell’astrazione. Solo mediante l’astrazione, per esempio, è possibile scoprire, al di sotto dei prezzi che la realtà empirica ci mostra, la legge del valore che li regola o, sotto al profitto e alla rendita, il plusvalore. Per astrarre correttamente un aspetto fondamentale della realtà è necessario escludere gli aspetti secondari. Questa astrazione non implica mai in Marx la costruzione di una teoria avulsa dalla realtà e dalla sua storia reale, ma serve invece a connettere, logicamente e storicamente, i fatti concreti: una realtà concreta e storicamente determinata, mai una realtà concepita come universale ed eterna.

Come scrive Engels a Kautsky il 20 settembre 1884:

Marx riassume il contenuto comune delle cose e dei rapporti che ci stanno dinanzi nella sua espressione concettuale più generale, perciò la sua astrazione non fa che tradurre in forma concettuale ciò che è già contenuto nelle cose.

Nel suo scritto “Il fondamentale contributo di Piero Sraffa al riscatto del pensiero economico classico”[1], Federico Fioranelli ci dice: «Quindi, nonostante avessero compreso che la teoria del valore-lavoro portava a conclusioni approssimative dal punto di vista dell’analisi economica, Marx e Ricardo non riuscirono tuttavia a realizzare l’operazione di costruire una teoria che, pur mostrando il fatto che il profitto derivava dallo sfruttamento dei lavoratori, allo stesso tempo determinasse anche i prezzi delle merci con estrema precisione.»

Ora, è singolare addebitare a Marx di non avere fatto una cosa del genere, che è l’esatto contrario di quello che egli aveva in mente.

Valore e prezzo per Marx sono due categorie distinte: i valori si trasformano in prezzi per effetto di un processo governato dalla concorrenza tra i diversi capitali.

Indichiamo a tal proposito, non solo i passi famosissimi del Capitale, ma anche quanto scritto dallo stesso Engels (Recensione a “Per la critica dell’economia politica”), da Lenin (Che cosa sono gli «amici del popolo» e come lottano contro i socialdemocratici). Citiamo anche la preziosa Prefazione di G. Giorgetti alle Teorie sul plusvalore di Marx [7].

Il cosiddetto “problema della trasformazione” ha dato luogo nei decenni a una vasta letteratura, sia di parte marxista sia di parte antimarxista, nella quale la “trasformazione” è vista di volta in volta come processo storico, come processo reale nel sistema capitalistico, o come problema matematico.

Leggendo gli scritti di Marx e il suo carteggio ogni categoria marxiana non può che scaturire dall’osservazione e astrazione di processi reali e la “trasformazione” non fa eccezione, esso viene visto come processo reale, che trova origine nella concorrenza tra capitali.

Marx è perfettamente consapevole del fatto che il saggio di plusvalore può ben essere differente, quando dice:

È evidente quindi che con capitali di uguale composizione assoluta ο relativa il saggio del plusvalore può essere differente unicamente qualora è differente ο il salario ο la lunghezza della giornata lavorativa oppure l’intensità di lavoro.

Inoltre

Anche qui, come sino ad ora abbiamo fatto, partiamo dalla supposizione che nel saggio del plusvalore non si verifichi alcuna variazione. Una simile presupposizione si rende necessaria al fine di considerare il fenomeno allo stato puro.

Quindi è evidente che per Marx queste assunzioni sono funzionali a vedere come funziona un processo facendo variare alcuni fattori e tenendone costanti altri. Ciò non può mai essere scambiato per una effettiva descrizione di quanto accade realmente, perché un fenomeno non si presenterà mai “allo stato puro”. Tutto ciò fa parte di quel processo di astrazione, di cui abbiamo parlato all’inizio, non avendo noi qui né “il microscopio né i reagenti chimici”.

Marx riporta nel Capitolo ottavo del III Libro del Capitale un esempio in cui in cinque settori il saggio di plusvalore è mantenuto constante mentre il saggio di profitto varia a causa della variazione della composizione organica.

Quindi osserviamo subito che in Marx c’è una chiara distinzione tra valore, prezzo di costo e prezzo di vendita delle merci, come è del tutto ovvio per chi si attiene alla realtà dei fatti. Quindi non deve destare nessuna meraviglia che Marx ammetta che le merci non si scambiano secondo la quantità di lavoro contenuto in esse, ossia secondo il loro valore. Ma non c’è neanche dubbio che i prezzi devono dunque essere derivati dai valori. Infatti …

[essi], come già abbiamo visto nella prima sezione del presente Libro, debbono essere ricavati dal valore della merce. Qualora quest’ultima circostanza non venga rispettata, il saggio generale del profitto (e quindi anche il prezzo di produzione della merce) resta un concetto assurdo e irrazionale. Perciò il prezzo di produzione della merce è uguale al suo prezzo di costo più il profitto percentuale che corrisponde al saggio generale del profitto, ossia uguale al prezzo di costo della merce più il profitto medio.

A causa della differente composizione organica dei capitali utilizzati nelle varie branche della produzione e a causa della circostanza per cui, in base alla differente aliquota della parte variabile in un capitale totale di dato volume, capitali di volume identico attivano quantità di lavoro assai diverse, essi si appropriano anche quantità assai diverse di pluslavoro, ovvero producono quantità assai diverse di plusvalore. I saggi del profitto delle varie branche della produzione hanno origini molto diverse. La concorrenza porta questi differenti saggi del profitto a un saggio generale che rappresenta la media di essi. Chiamiamo profitto medio il profitto che, in conformità a tale saggio generale del profitto, tocca a un capitale di dato volume, quale che sia la sua composizione organica. Il prezzo di una merce, che è uguale al suo prezzo di costo più la parte di profitto annuo medio sul capitale utilizzato (e non solo consumato nella sua produzione) nella sua produzione, che tocca alla merce stessa in rapporto alle sue condizioni di rotazione, è il suo prezzo di produzione.

Quindi Marx dice «tocca», ossia «dovrebbe andare, se…». Quindi il fatto che poi ciò si realizzi in ogni singola vendita è tutto da vedere.

Per ottenere l’eguaglianza del saggio di profitto per tutti i settori, il prezzo di vendita delle merci di alcuni settori dovrebbe essere aumentato e quelle di altri diminuito. Qui però nasce il problema che la merce del settore I, che era stata acquistata pari al proprio valore, ora viene venduta sopra il proprio valore e viceversa per la merce II. Ciò implicherebbe un prezzo di acquisto e di vendita differente, il che sarebbe un controsenso se gli scambi avvenissero simultaneamente.

A questa obiezione hanno risposto i sostenitori dell’interpretazione temporale del sistema unico (Temporal single-system interpretation o TSSI), sottolineando il fatto che acquisti e vendite sono effettuati in istanti temporali diversi e quindi cade l’impossibilità logica di avere prezzi che si modifichino tra un periodo e l’altro. Al ciclo successivo, aumentando opportunamente i prezzi delle merci acquistati dal settore I, e diminuendo quelli acquistati dal settore II, il sistema di stabilizza su un nuovo equilibrio dei prezzi, perché ora i saggi dei profitti tra i due settori sono uguali e non c’è necessità di alterare nuovamente i prezzi.

Qui si apre però un altro problema.

Pur essendo i due settori partiti da una situazione di equilibrio dal punto di vista dei valori scambiati tra il primo e il secondo, non lo sono più rispetto alle controparti monetarie. Lo “scandalo” quindi non consiste tanto nel fatto che i prezzi di acquisto e vendita sono differenti, quanto che si rompe l’equilibrio della circolazione del capitale tra i due settori che avevamo assunto nel Libro II. Inoltre i saggi di plusvalore ora in prezzi non sono più uguali tra i due settori.

La seconda delle due obiezioni è facilmente superabile, poiché l’assunzione di un saggio di plusvalore comune tra i due settori era una posizione di comodo iniziale. È nomale che, difronte a un’innovazione tecnica che richiede un impiego di capitale supplementare, il saggio di plusvalore debba aumentare, poiché l’innovazione porterà a un saggio di plusvalore relativo maggiore, altrimenti il capitalista non l’avrebbe introdotta.

Più grave la prima obiezione, in quanto, se pure è possibile pensare che il primo settore diminuisca proporzionalmente il proprio prodotto (cosa che non altera i saggi) fino al punto di equilibrio, le composizioni organiche in prezzi, ridotte a quelle in valore, ossia quelle legate ai reali rapporti fisici presenti tra c e v dividendole per i prezzi modificati non sono uguali a quelle di partenza. Che significa questo? Che i rapporti tra i valori e i prezzi non sono gli stessi, perché i prezzi modificati dal lato delle vendite non corrispondono alla modifica dei prezzi dal lato degli acquisti.

Il pasticcio nasce dal fatto che i due ragionamenti del II Libro e nel III Libro vengono fusi in modo improprio per realizzare una terza cosa, che Marx non aveva proprio in mente. Il risultato è la nascita di una polemica sulla quale sono fiorite pericolose deviazioni del marxismo e una nuova impostazione dell’economia borghese.

Vediamo intanto da vicino lo “scandalo” marxiano.

Nel II Libro Marx parla del ciclo di riproduzione del capitale e quindi non può che partire da una situazione di equilibrio, sia entro i settori che tra un settore e l’altro.

Nel III Libro invece l’equilibrio tra i diversi settori – come abbiamo visto Marx ne elenca ben cinque ipotetici – non è proprio preso in considerazione perché Marx sta parlando di altro.

Quindi, se si vogliono mescolare i due discorsi: primo, è necessario puntualizzare che non è il pensiero di Marx che si riporta; secondo, ovviamente se non si arriva a una soluzione soddisfacente, ciò non può essere addebitato a Marx. Egli infatti dice:

Quanto abbiamo detto adesso apporta un cambiamento nella determinazione del prezzo di costo delle merci. Dapprima eravamo partiti dal presupposto che il prezzo di costo di una merce corrispondesse al valore delle merci consumate nella produzione di essa. Tuttavia per l’acquirente il prezzo di produzione di una merce viene ad identificarsi col prezzo di costo di essa e quindi può entrare in questa prerogativa nella formazione del prezzo di una nuova merce. Dato che il prezzo di produzione può essere differente dal valore della merce, anche il prezzo di costo di una merce che comprende il prezzo di produzione di altre può essere più ο meno grande di quella porzione del valore totale di essa formata dal valore dei mezzi di produzione che entrano in quella merce. Occorre considerare questa nuova accezione del prezzo di costo e rammentare quindi che ci si può comunque sbagliare allorché in una certa sfera di produzione il prezzo di costo della merce venga identificato col valore dei mezzi di produzione consumati in essa. L’indagine attuale non comporta un esame più approfondito e dettagliato di questo.

E più avanti ancora:

Mentre dunque la parte di questo prezzo delle merci che rimpiazza le parti di valore del capitale assorbite dalla produzione delle merci e deve quindi ripristinare questi valori capitali consumati, mentre questa parte, il prezzo di costo, viene determinata completamente dalla spesa fatta entro ciascuna sfera della produzione, l’altro elemento del prezzo delle merci, ossia il profitto aggiunto a questo prezzo di costo, non dipende dalla massa del profitto prodotto da questo determinato capitale in questa determinata sfera della produzione in un certo periodo di tempo, bensì dalla massa dei profitti che toccano in media durante un certo tempo a ciascun capitale utilizzato, considerato come un’aliquota del capitale totale della società utilizzato nella produzione complessiva.

Quindi, primo, il valore è non solo creato ma anche determinato nell’ambito della sfera della produzione; secondo, di questa grandezza, una parte – i costi di produzione – è determinata all’interno di ogni singola sfera (potrebbe essere un settore o una singola azienda), mentre l’altra parte – il profitto – come ripartizione del profitto sociale.

Questa è una parte irrinunciabile del marxismo, altrimenti si aprirebbe la porta alla possibilità che il plusvalore – in tutto o in parte – sia creato nell’ambito della circolazione e quindi che esso non derivi dallo sfruttamento che il capitale impone al lavoro con l’estorsione del plusprodotto e che quindi il profitto sia – in tutto o in parte – generato dal capitale e non dal lavoro, presente o passato, “vivo” o “morto” che sia.

Un’altra cosa irrinunciabile è che, non solo la “genesi” del valore avvenga nell’ambito della produzione, ma anche che i prezzi di scambio vengano determinati in base al valore, altrimenti, come dice Marx, «il saggio generale del profitto (e quindi anche il prezzo di produzione della merce) resta un concetto assurdo e irrazionale». In particolare si potrebbe relegare il processo di formazione del valore in un canto, diciamo, “filosofico”, o peggio ancora “etico”, e poi formulare teorie che spieghino in modo completamente diverso il meccanismo di funzionamento dell’economia capitalistica. Separare il Marx “storico-filosofico” dal Marx, che sviluppa la critica all’economia politica, significa ridurre il marxismo a una narrazione e sminuirlo nel suo contenuto scientifico.

Il fatto che Marx riconosca che «ci si può comunque sbagliare allorché in una certa sfera di produzione il prezzo di costo della merce venga identificato col valore dei mezzi di produzione consumati in essa», sta a indicare che egli capisce bene che il dettaglio di come questo processo possa inverarsi in ogni singolo scambio è impossibile da prevedere e che quindi «L’indagine attuale non comporta un esame più approfondito e dettagliato di questo» non è un comodo modo da parte di Marx di eludere il problema, ma non distogliere il lettore dal nucleo principale della discussione.

Ora non si può pretende da Marx una legge sull’equilibrio generale tra i settori che egli non ha mai avuto la pretesa di formulare, anzi ha proprio escluso dal proprio studio. Il Capitale è la critica dell’economia politica, Marx ha sempre studiato gli stati di disequilibrio di questo sistema e – se, occasionalmente, è partito per fini espositivi da una situazione di equilibrio – ciò non vuol dire che la permanenza nello stato di equilibrio, o il ritorno ad esso dopo alterazione, sia il fine che egli si proponga di descrivere. È invece metafisica presupporre che l’equilibrio esista come condizione assunta e che una teoria che non lo preveda sia errata.

Nei decenni è montata una polemica senza fine su questo argomento, che – in realtà – a nostro parere Marx aveva già disinnescato in partenza, almeno nel suo contenuto essenziale. Vediamo.

K. Dmitriev (1868-1913) [4] individuò la difficoltà, che si presenta nella forma del seguente circolo vizioso: non si può determinare il saggio del profitto in termini di valore se tutte le merci si scambiano in base ai prezzi di produzione; d’altra parte, non è possibile determinare questi prezzi senza il saggio del profitto, dal momento che questi includono il saggio del profitto.

Esplicito invece il collegamento a Marx operato nel lavoro di Ladislaus von Bortkiewicz (1868-1931). Egli fu tra i primi a occuparsi del problema della trasformazione, mostrando – a suo dire – che un errore fosse effettivamente presente nella formulazione di Marx, il quale avrebbe trasformato il prezzo dei prodotti (gli output), ma non quello dei mezzi di produzione e di sussistenza (gli input). Bortkiewicz, basandosi sul precedente lavoro di Dmitriev del 1904, propose quindi nel 1907 (in [2]) una “correzione” al sistema marxiano con una soluzione alternativa. Egli utilizza un sistema a più settori, mutuato dagli schemi di riproduzione del Libro II del Capitale – che è simile al sistema di equilibrio generale di Léon Walras (1834-1910) – in cui le medesime merci appaiono sia tra gli input, sotto forma di elementi del capitale costante o dei consumi dei lavoratori, che negli output, sotto forma di prodotti.

Tutto ciò può essere rappresentato attraverso un sistema di equazioni lineari, in cui ogni equazione rappresenta un settore. In un sistema di tre equazioni, la prima equazione rappresenta il settore che produce i mezzi di produzione (le merci costituenti il capitale costante), la seconda riga il settore che produce i mezzi di sussistenza dei lavoratori (cosiddetti beni o merci-salario), ad esempio il grano, e la terza il settore che produce i beni di lusso, ad esempio l’oro. La riproduzione semplice è assicurata dal fatto che il prodotto reintegra sia il capitale costante che i consumi dei lavoratori.

Le incognite sono quattro: i tre rapporti prezzi/valori e il saggio del profitto. Abbiamo quindi un sistema con tre equazioni e quattro incognite, che può essere risolto solo scegliendo un ulteriore vincolo, di solito posto nel prezzo dell’oro, uguale a 1. In questo modo il prezzo dell’oro, che è anche la merce rappresentata dalla moneta (nel sistema monetario aureo), viene posto uguale al suo valore, e gli altri parametri di trasformazione possono essere espressi in termini del primo, cioè come rapporto tra ciascuno di loro e il valore della moneta. Un siffatto sistema ha un’unica soluzione non negativa per ogni incognita.

A differenza del sistema marxiano, la soluzione viene determinata simultaneamente per il saggio del profitto e per i prezzi di produzione, mentre per Marx prima si determina il saggio del profitto.

Queste differenze, anziché “correggere” il preteso “errore” di Marx, in realtà ne snaturano il significato. L’approccio è esclusivamente computazionale e non rispecchia il naturale processo che avviene nella realtà. Inoltre – ed è più grave – offrono una “soluzione” matematica in cui i singoli termini, potendosi scambiare indifferentemente tra di loro, perdono di significato economico. Infatti si spezza la visione di Marx di voler determinare i prezzi in modo tale che «gli elementi che entrano in considerazione devono essere visti come in una catena causale, nella quale ciascun membro viene determinato, quanto a composizione e grandezza, soltanto dai membri precedenti» e le quantità di lavoro non avrebbero nessun ruolo essenziale da svolgere.

Il metodo iterativo

Marx aveva intuito in modo esatto la via d’uscita da questa contraddizione, ma – come abbiamo visto – non aveva ritenuto di completare i passaggi numerici per ottenere un sistema costituito da variabili tutte espresse quantitativamente in prezzi.

Sviluppando in modo iterativo il suo procedimento, alcuni autori sono giunti agli stessi risultati della soluzione simultanea del sistema dei prezzi, passando dall’uno all’altro dei due sistemi in modo tale che, dopo una serie di successive approssimazioni, si raggiunge la soluzione desiderata. I passaggi iterativi consentono di mettere in risalto alcune relazioni tra le grandezze fondamentali nell’analisi marxiana e che viceversa vengono perdute con il calcolo diretto. È chiaro che il metodo iterativo ovviamente non descrive quanto storicamente avvenuto, né quanto realmente avviene in modo puntuale in ogni transazione, seguendo quanto fanno gli operatori economici quotidianamente – come del resto anche la soluzione diretta. Descrive in verità per astrazione il processo nel suo “stato puro”, eliminando i fattori che non vogliamo studiare, quali le particolari abilità individuali o le fluttuazioni di prezzo casuali o che avvengono per altre cause, secondo quanto già detto da Marx.

La riflessione però riguarda se con tale procedimento iterativo la categoria del valore riacquisti o no quel ruolo di condizione necessaria e sufficiente per la determinazione dei prezzi, dalla quale era stata spodestata dai metodi di determinazione simultanea delle incognite.

Nel corso degli anni si sono avute diverse proposte di utilizzare il metodo dell’iterazione per risalire dai valori ai prezzi e per estendere la validità del procedimento della trasformazione a condizioni sempre più complesse, partendo dall’ipotesi di riproduzione semplice, per poi passare a quella di riproduzione allargata, sia nel caso specifico di sviluppo equilibrato, che in quello più generale, non condizionato da alcun vincolo.

Il primo autore che ha affrontato il problema dello sviluppo in termini iterativi del sistema dei valori marxiano è stato il giapponese Kei Shibata (1902-1986) nel 1933 [14], in un articolo per lungo tempo rimasto sconosciuto perché pubblicato solo in giapponese, le cui conclusioni non si scostano di molto da quelle già acquisite ai primi del secolo da Dmitriev e da Bortkiewicz, circa la non necessità della categoria del valore una volta che si fosse fatto ricorso ad un sistema di equazioni simultanee. Shibata dimostrò l’equivalenza tra metodi di soluzione simultanea e sviluppo in serie del procedimento marxiano.

Il metodo di calcolo attraverso iterazioni successive venne ripreso dall’economista ungherese András Bródy (1924-2010) nell’ambito dei legami tra teoria del valore e pianificazione socialista.

In seguito Michio Morishima (1923-2004), in una serie di contributi sulla teoria economica di Marx [8], ha cercato di mettere in luce le condizioni per completare questo procedimento.

L’approfondimento del metodo iterativo ha posto in luce alcune differenze nel modo di ottenere la soluzione, rispetto al metodo delle equazioni simultanee: esso, infatti, consentirebbe di mantenere la sequenzialità formale dell’analisi marxiana, e permetterebbe anche di osservare come il vettore dei valori si trasformi progressivamente attraverso l’applicazione di un saggio uniforme di profitto, in quello dei prezzi di produzione di equilibrio.

È stato tuttavia contestato che le differenze siano più di natura formale che di natura sostanziale: infatti, il metodo iterativo non è che uno dei numerosi modi con cui possono essere determinate le incognite di un sistema di equazioni. Inoltre anche il fatto di partire dal vettore dei valori, a cui si applica successivamente il saggio medio di profitto, di volta in volta corretto in base alla legge della concorrenza, può essere invocato per dimostrare l’imprescindibilità dei valori come punto di partenza, in quanto è stato dimostrato che per qualunque vettore di partenza, assumendo come costanti i saggi di profitto e fissati gli altri saggi, si ottengono sempre i corretti prezzi di produzione.

Un secondo tipo di obiezione è stato mosso, sin dai tempi di Böhm-Bawerk, al procedimento matematico della trasformazione, che sarebbe viziato da circolarità. Esso infatti definirebbe i prezzi in termini di prezzi. In Marx, avendo assunto l’interdipendenza fra le variabili, il fatto di prenderne una come antecedente, non può che portare a formulare definizioni circolari. È possibile eliminare questa circolarità solo facendo ricorso a procedure che permettano di determinare simultaneamente i due insiemi di variabili, i prezzi e i valori. Questo calcolo simultaneo però elimina ogni spiegazione di tipo causale.

Anche a causa di questa pretesa fallacia nelle argomentazioni di Marx, vari economisti abbandonano l’impostazione classica abbracciando un nuovo approccio economico basato su una teoria del valore radicalmente diversa: la teoria dell’utilità, attaccando la teoria del valore lavoro, tanto nella formulazione di Ricardo che in quella di Marx.

Piero Sraffa (1898-1983) in Produzione di merci a mezzo di merci, [15] pubblicato nel 1960, riprende l’impostazione classica del sistema economico come un «processo circolare della produzione sociale, nel quale le stesse merci che compaiono come prodotti sono presenti anche come mezzi di produzione impiegati per la loro produzione».

Sviluppando quanto esposto da Dmitriev (1904) e da Bortkiewicz (1907 e 1921), Sraffa mostra come, al contrario di quanto sostenuto dai teorici neoclassici, sia possibile determinare in modo matematicamente esatto i prezzi e i saggi di profitto e del salario sulla base delle ipotesi classiche e senza usare la teoria del valore utilità.

In particolare, data una certa configurazione produttiva e una delle due variabili distributive, il salario e il profitto, mediante un sistema di equazioni simultanee, si possono determinare i prezzi che assicurano l’equilibrio nei diversi settori e l’altra variabile distributiva.

Sraffa mostra come non vi sia un unico salario o profitto di equilibrio, ma vi siano infiniti valori di equilibrio possibili del sistema economico. In Sraffa, proprio come in Ricardo, la distribuzione del reddito non dipende soltanto dalle condizioni della produzione (la configurazione produttiva): vi è anche una componente esogena. La remunerazione dei “fattori” della produzione, lavoro e capitale, ovvero la distribuzione del reddito tra salario e profitto, è “esterna” alle condizioni della produzione. Quindi non esistono “leggi del mercato” che univocamente stabiliscano quale sia la “giusta” retribuzione dei fattori. Da questo punto di vista potrebbe sembrare che la sua teoria si contrapponga solo alle teorie contrarie al marxismo, quali la teoria dell’utilità, mentre salvi il pensiero ricardiano-marxiano per cui il valore nasce nella produzione e non nella circolazione.

In verità nell’impostazione di Sraffa il problema classico di quale sia l’origine del valore delle merci, e con esso il problema della trasformazione, vengono messi da parte. Infatti, i coefficienti del sistema di equazioni simultanee da cui si ottengono i prezzi e il saggio del profitto, dato il salario (o il salario, dato il saggio del profitto), è vero che possono essere espressi in quantità di lavoro, ma è anche vero però che tali valori non sono in alcun modo necessari né per la comprensione né per la determinazione dei prezzi e del saggio del profitto. In questo senso sia la teoria del valore lavoro la teoria del valore utilità divengono superflue. La teoria dei prezzi risulta così completamente autonoma, da un punto di vista logico, da qualsiasi teoria del valore, si riduce a un mero calcolo di equazioni simultanee, i cui termini possono essere scambiati l’uno con l’altro. Si perde quindi la critica dell’economia, aprendo le porte a impostazioni antimarxiste. Il punto di vista di Sraffa, affermatosi anche in alcune correnti del marxismo, venne preso a base per la maggior parte dei successivi contributi alla discussione sulla teoria marxiana del valore, con esiti per essa distruttivi.

Paul Samuelson (1915-2009) ha ironizzato su queste “soluzioni”: «(1) scriviamo le relazioni di valore; (2) prendiamo una gomma e cancelliamole; (3) infine scriviamo le relazioni di prezzo, completando così il cosiddetto processo di trasformazione» [13]. Capiamo quindi quanto siano perniciose queste teoria per l’impostazione marxiana.

Da Sraffa in poi, gli esponenti della cosiddetta scuola del sovrappiù, tra cui l’economista americano Paul M. Sweezy (1910-2004), hanno rinunciato a difendere la teoria marxiana del valore, cercando però di salvare alcune conclusioni di Marx, quali la teoria dello sfruttamento dei lavoratori, in quanto il prodotto complessivo misurato in termini fisici supera gli input fisici.

Claudio Napoleoni (1924-1988) ha rilevato che, con la sua rinuncia a spiegare l’origine del profitto in termini marxiani, come deduzione dal prodotto del lavoro, Sraffa aveva contribuito a nascondere la realtà dello sfruttamento capitalistico e a ridurre sovrappiù e profitto a concetti neutrali, non legati a fatti sociali e compatibili quindi con qualsiasi teoria del valore, compresa quella neoclassica del valore-utilità, nel cui ambito l’origine del sovrappiù non poteva certamente essere ricondotta allo sfruttamento del lavoro. Paradossalmente dal punto di vista strettamente formale, il sovrappiù potrebbe essere interpretato non come sfruttamento sui lavoratori ma – se i salari fossero al di sopra del livello di sussistenza, lasciando così al profitto una quota minore di sovrappiù – si potrebbe ugualmente sostenere che i salariati sfruttano i capitalisti. Nella formalizzazione delle equazioni, scambiando il capitale costante c con quello variabile v, il plusvalore potrebbe essere visto come una “quota di remunerazione di capitale che il lavoratore sottrae al capitalista”, come “profitto non pagato”.

Nel suo libro Marx dopo Sraffa (1987) [17], Ian Steedman (1941-), seguendo Sraffa, utilizza direttamente gli input di merci. Il valore risulta quindi ridondante. Nel suo sistema le soluzioni risultano incompatibili con quelle di Marx.

La formulazione di Steedman, come quella di Sraffa, Bortkiewicz, Samuelson, non ricorre alle quantità di lavoro. In particolare egli afferma che:

1. «le condizioni di produzione e il salario reale pagato ai lavoratori, entrambi specificati in termini di quantità fisiche di merci, sono sufficienti a determinare il saggio del profitto;

2. le quantità di lavoro incorporate nelle varie merci, che possono essere a loro volta determinate soltanto una volta che le condizioni di produzione siano note, non hanno così alcun ruolo essenziale nella determinazione del saggio del profitto (o dei prezzi di produzione);

3. la soluzione di Marx al “problema della trasformazione” è inesatta, non soltanto per quanto riguarda i prezzi di produzione ma anche, ciò che più importa, per quanto riguarda il saggio del profitto. Il saggio del profitto, in un’economia capitalistica concorrenziale, non è uguale, in generale, a S/(C+V), dove S, C e V sono, rispettivamente, il plusvalore aggregato, il capitale costante e il capitale variabile, anche questi aggregati. Infatti, poiché il saggio del profitto e tutti i prezzi di produzione possono essere determinati senza fare riferimento alcuno alle grandezze di valore, il “problema della trasformazione” è uno pseudo-problema, una chimera; non esiste un problema da risolvere per quanto riguarda la derivazione dei profitti dal plusvalore e i prezzi di produzione dai valori;

4. la distribuzione sociale della forza-lavoro può essere determinata senza riferimento alcuno alle grandezze di valore;

5. la relazione tra pluslavoro ed esistenza di profitti può essere stabilita del tutto indipendentemente dal concetto di valore di Marx;

6. non c’è base a priori che consenta di stabilire alcuna aspettativa relativa al movimento di lungo-periodo del saggio del profitto.»

Vediamo quali sarebbero le conseguenze.

Primo, considerare i fattori in termini fisici non vuol dire avere un approccio “materialista”, come affermato da Steedman; ciò che rende materialista (storico) l’approccio marxiano sta nel riguardare tali fattori nella relazione sociale che essi fanno istaurare ai soggetti nella produzione e per la produzione attraverso lo scambio delle merci, come esordisce Marx nel Capitale.

Secondo, se le quantità di lavoro incorporate nelle merci non determinano i prezzi e quindi il saggio di profitto, questi da dove scaturiscono?

Terzo, se il saggio di profitto non è S/(C+V) e quindi il profitto aggregato non è uguale al plusvalore aggregato, da dove scaturisce? ovviamente da qualche parte che non è il lavoro estorto al lavoratore. Non basta affermare, come fa più avanti, che «i profitti saranno positivi se e solo se c’è plusvalore», essi potrebbero comunque provenire da qualche altra parte che non sia il plusvalore.

Quarto e quinto, se il valore viene scisso sia dalla distribuzione della forza-lavoro che dal plusvalore così come dai profitti, essi trovano giustificazione solo nella soluzione di un sistema di equazioni che potrà ben descrivere una situazione ipotetica, ma non spiegarla all’interno di una teoria economica (e sociale).

Sesto, la ricaduta politica più grave, la teoria marxiana della caduta tendenziale del saggio di profitto viene smantellata.

Capiamo quindi cosa c’è in gioco per i marxisti in questa polemica?

Anche se Steedman continua, dicendo che: “ciò non significa, naturalmente, ridurre la teoria di Marx a questi problemi particolari; il suo obiettivo era di gran lunga più vasto. Più precisamente, molti aspetti dell’economia politica di Marx, in quanto sono indipendenti dal suo ragionamento in termini di grandezze di valore, non sono toccati dalla critica fondata sul lavoro di Sraffa. Per esempio, i concetti di lavoro, forza-lavoro e pluslavoro sono indenni da quella critica. Resta anche indenne l’enfasi di Marx sul processo lavorativo, sulla coercizione su di esso e sulla sua natura continuamente mutevole dovuta sia ai conflitti nel luogo di lavoro sia alla lotta per la concorrenza.”

noi marxisti sappiamo che accettare quelle conclusioni significherebbe ridurre – come abbiamo già più volte sottolineato – la critica marxista a “concetti” che non toccano il cuore del problema dell’analisi della società capitalistica, ossia la grande scoperta di Marx del plusvalore, affondato il quale il marxismo resta solo un anelito egualitarista che nulla ha di scientifico.

Se Marx nel II Libro, in cui parla di equilibrio, non menziona la trasformazione dei valori in prezzi, e se nel III Libro, in cui parla della trasformazione non parla di equilibrio, avrà il suo motivo. Tutto il pasticcio nasce dall’aver mescolato questi due concetti cercando di inserirli in un’unica tecnica, solo perché era diventato di moda tra gli economisti e sembrava non se ne potesse fare a meno. Dobbiamo quindi non partire dall’assunto aprioristico che l’equilibrio esista necessariamente come punto di convergenza necessario in caso di squilibrio ma, caso mai, vedere quali sono i percorsi che realisticamente possono portare a ripristinare una condizione di equilibrio preesistente e rotto per un generico motivo.

Non ha senso quindi partire da una condizione di squilibrio e cercare di equilibrarlo, ma è più corretto patire da condizione di equilibrio, alterarlo e, seguendo la strada di Marx, vedere a cosa si deve rinunciare nelle assunzioni puramente di comodo che erano lì fatte, per ritrovare il senso della sua teoria.

In questo ci sembra appropriato l’approccio di M. Cini (Valore e prezzo: Marx aveva torto? in [1]): «… la decisione marxiana di partire nell’analisi del capitale, dal livello di astrazione secondo il quale le merci si scambiano ai loro valori, non è frutto di ingenuità nel maneggiare le categorie economiche, ma precisa scelta scientifica come del resto Marx afferma esplicitamente (anche se questa affermazione non è mai stata presa molto in considerazione) delle condizioni ottimali in grado di mettere in evidenza le cause reali del fenomeno principale: l’origine del profitto.»

Inoltre, come dimostra Cini (ibidem), che la soluzione di Marx costituisce l’arresto al I ordine di uno sviluppo in serie della soluzione della funzione che lega i valori ai prezzi finali. Quindi una prima approssimazione non solo del processo temporale di conversione dei valori in prezzi, ma anche numerica.

Come sottolinea R. Panizza in Metodo iterativo e problema marxiano della trasformazione, [1]): I prezzi nel caso di uguale composizione organica, lungi dall’essere un’ipotesi riduttiva e semplicistica, costituirebbe «“l’apparato sperimentale” mediante cui studiare lo specifico fenomeno dell’accumulazione capitalistica e alcune delle sue peculiari caratteristiche. Infatti, quando vale questa ipotesi, i rapporti di scambio delle merci sono proporzionali ai valori, mentre a mano a mano che la realtà si discosta dallo schema a composizione organica uniforme, si rende necessario, per ottenere i prezzi di equilibrio, correggere i risultati originari. L’utilità di tale procedimento consisterebbe nel fatto che solo attraverso il modello “originale”, a composizione organica costante sarebbe possibile individuare alcune proprietà della realtà capitalistica, come per esempio l’origine del plusvalore, che vengono offuscate dal mondo fenomenico dei prezzi di produzione e di mercato. Il far ricorso a un modello che fa riferimento ai valori, permetterebbe inoltre di fondare, in termini marxiani, non solo l’analisi della struttura e delle leggi di sviluppo dell’economia capitalistica, ma anche l’esame della teoria della distribuzione. L’uso del metodo iterativo permetterebbe, invece, di rifondare sul valore anche la teoria della distribuzione, nel senso che si dimostrerebbe come il profitto abbia origine dal plusvalore.»

Conclusioni

Col metodo iterativo sono rispettate alcune proprietà che sbaragliano tutti gli attacchi a cui la procedura marxiana è stata sottoposta.

Primo. “I calcoli potrebbero essere svolti tutti in funzione dei dati in unità fisiche, quindi la teoria del valore-lavoro non serve”. Questa affermazione è falsa. Se è vero che c’è una corrispondenza biunivoca tra unità fisiche e unità di valore, ciò non significa che le seconde sono superflue, anzi! Ragionare in funzione dei valori, significa scoprire relazioni sociali che il calcolo nelle unità fisiche non è in grado di fare.

Secondo. “I calcoli potrebbero essere svolti tutti in funzione dei prezzi, quindi la teoria del valore-lavoro non serve”. Anche questa affermazione è falsa. Se è vero che c’è una corrispondenza biunivoca tra prezzi e unità di valore, ciò non significa che le seconde sono superflue, anzi! La corrispondenza tra i prezzi ottenuti e i valori di partenza dimostra proprio quello che ha detto Marx, cioè che i prezzi

… debbono essere ricavati dal valore della merce. Qualora quest’ultima circostanza non venga rispettata, il saggio generale del profitto (e quindi anche il prezzo di produzione della merce) resta un concetto assurdo e irrazionale.

Terzo. “Tutti i calcoli potrebbero essere fatti direttamente senza passare dal procedimento iterativo, attraverso la soluzione di un opportuno sistema di equazioni, quindi il procedimento marxiano è superfluo”. Anche questa affermazione, pur essendo vera formalmente, è falsa nella sostanza. Il procedimento iterativo astrae un processo che gli operatori economici fanno realmente, mentre il processo di soluzione simultanea delle equazioni non ha alcuna corrispondenza con processi effettivamente compiuti. Quindi, la procedura marxiana, lungi dall’essere inutile, è preziosa. In realtà è la procedura diretta che è superflua e può costituire solo una scorciatoia di calcolo che però fa perdere le reali relazioni economiche che si svolgono.

Quarto. “Non è vero, come dice Marx, che il saggio di profitto è determinato al di fuori dal sistema economico, ma viene ricavato all’interno di esso”. Anche questa affermazione è falsa. Il saggio di profitto per i vari settori è fissato prima della procedura iterativa, poi esso viene equalizzato e modificato durante la procedura in base ai passi precedenti, quindi è sempre esogeno a ogni passo. Inoltre esso è sempre uguale al plusvalore, calcolato in unità di valori originari, che rimane sempre lo stesso: se ne modifica l’espressione quando esso viene espresso in unità monetarie (prezzi).

Quinto. “La soluzione proposta da Marx è solo l’innesco di una procedura iterativa i cui calcoli egli non ha voluto svolgere fino alla fine”. È probabile che ciò sia avvenuto, come molti sostengono, perché non avesse tutti gli opportuni strumenti matematici che oggi ci permettono di trovare le soluzioni dirette e di valutarne il grado di approssimazione a quelle marxiane, così come certamente non aveva i potenti strumenti di calcolo iterativo oggi messi a disposizione da un comunissimo “foglio elettronico”.

Resta il fatto che il contributo di questa polemica – che è durata decenni – ha apportato e apporta alla comprensione dei meccanismi del capitalismo è praticamente nulla, ma invece è anche indubbio che ha prodotto danni in seno al pensiero marxista. Quindi è importante che i militanti marxisti, che si trovassero ad affrontare questa polemica, siano attrezzati a comprendere e rispondere adeguatamente.

In conclusione possiamo dire che la soluzione di Marx non solo è corretta, perché riflette il reale meccanismo di formazione dei prezzi in situazioni ridotte “allo stato puro”, ma costituisce una già sufficiente approssimazione della soluzione numericamente esatta, ricavabile perseguendo il procedimento da egli delineato, e che i prezzi possono e devono essere ricavati a partire dai valori. Il tasso di profitto viene determinato in modo esogeno a ogni iterazione proprio come previsto nella procedura di Marx e il profitto totale eguaglia perfettamente il plusvalore totale. La massa monetaria totale resta costante, mentre, pur cambiando i tassi (composizioni organiche e saggi di plusvalore) espressi in prezzi, essi restano fermi in valore.

Bibliografia

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  • Sraffa, P., Produzione di merci a mezzo di merci, Torino 1960.

  • Sraffa, P., Saggi, Bologna, 1986.

  • Steedman, I., Marx dopo Sraffa. Ed. Riuniti, 1980.

  • Sweezy, P.M., La teoria dello sviluppo capitalistico, con una raccolta di saggi, a cura di C. Napoleoni, di von Bohm-Bawerk, Pareto, Meek, Samuelson, Lange. Boringhieri, Torino 1970.

[1] https://www.cumpanis.net/il-fondamentale-contributo-di-piero-sraffa-al-riscatto-del-pensiero-economico-classico/

pubblicato anche su https://www.cumpanis.net/sraffa-marx-e-la-critica-delleconomia-politica/

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