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Capitalismo e occidente hanno semplicemente un’altra faccia.

*di Enzo Pellegrin

Sullo storico quotidiano torinese della Fiat, Franco Debenedetti il 22 ottobre scorso eleva in un elzeviro la lamentazione dei democratici liberisti, orfani del potere. Il titolo è emblematico: “Nel tunnel della crisi peggiore”. Nell’occhio dell’elzeviro non ci sono però le problematiche economiche, ma «i valori e gli obiettivi dell’Occidente».

I democratici hanno svolto per moltissimi anni il ruolo di cavalier servente della globalizzazione capitalistica occidentale, a trazione USA. In cambio hanno ottenuto posti di potere in quasi tutti i governi accodati alle politiche liberiste. Appare quindi normale che il loro orizzonte ideologico tenda ad identificare l’Occidente con ciò che hanno insegnato loro: la favola della cessione al potere economico di sovranità, ricchezza, diritti in cambio di promesse di crescita, estensione dei diritti civili, sviluppo sociale ed economico.

Oggi è chiaro che quelle promesse non sono mai state nell’agenda del vero potere, ma solo nella narrazione dei suoi serventi.

Mentre il pifferaio cantava, e i suoi topini disciplinati andavano a fare il loro dovere alle urne, il potere economico occidentale ne approfittava per ristrutturare la fabbrica produttiva mondiale, trasferendo le unità produttive nei paesi in cui il lavoro poteva essere preteso con bassi salari, senza sprecare profitti in sicurezza ed ambiente. Abbatteva ogni barriera per poter trasferire i suoi capitali. In una parola creava un esercito industriale il quale non doveva essere eccessivamente blandito con pensioni, previdenza, sanità e pace sociale, antidoti che esigevano prelievi fiscali onerosissimi per i portafogli privati.

Oggi, soprattutto per quegli hidalgos squattrinati che sono i paesi avanzati del Sud Europa, di fronte all’impossibilità di crescere per manifesta decadenza industriale, di fronte ad una disoccupazione apparentemente senza rimedi, di fronte al fatto che ogni diritto è diventato estremamente costoso per le loro fasce sociali medio-basse, il pifferaio quella canzone non la può più suonare. Diverrebbe ridicola come un liscio dei Casadei in un disco-club di London City.

Ma i Casadei sanno suonare bene solo quello, ed allora imperterriti continuano come Debenedetti: è l’opposizione all’Europa, l’occidente a noi più prossimo, ad accomunare i nuovi pretendenti al potere; per il senatore dalla chioma bianca significano la contestazione dei sacri principi dell’Occidente/Europa: cessione di sovranità in cambio di offerta di solidarietà, rinuncia alla zecca nazionale in cambio della stabilità dei prezzi, rinuncia ai sussidi in cambio di mercati concorrenziali.

Per riconoscere la stonatura bastano semplici domande:

  • quando mai il progetto Europeo si è prodigato in solidarietà?
    • Nel momento in cui strangolava la Grecia e imponeva di politiche di austerità?
  • Quando mai la gabbia monetaria europea ha tutelato la “stabilità dei prezzi”?
    • Quando ha permesso che l’Europa sia il posto nel mondo dove il cibo costa di più in rapporto al reddito?
    • Quando è stata lo strumento principe per la deflazione salariale?
  • Quando mai la concorrenza tra i privati ha eliminato i sussidi in Europa?
    • Quando le diverse politiche economiche dei governi hanno approvato tagli fiscali sempre più grandi alle imprese ed aumenti di tasse ai lavoratori?
    • Quando hanno mantenuto i paradisi fiscali per le corporations in Olanda, London City, Lussemburgo, Irlanda?
    • Quando hanno mantenuto fiscalità ridicole per i mercanti on line?
  • Quando mai la concorrenza non si è risolta nel proliferare prima di imprese meteora piccole, fiscalmente infedeli, che hanno drenato e nascosto ricchezza nei loro veloci fallimenti, per poi risolversi in concentrazione di ricchezza e potere produttivo nelle solite mani che lo trasferivano all’estero?

Per suonare la canzone di Debenedetti – senza prendere fischi – occorre avere una balera tutta per sé, quella dei quotidiani in mano agli storici rentiers del paese. Ma prima o poi nessuno finirà per entrarci.

Questi vecchi cavalieri serventi non si sono accorti che non sono più utili, nemmeno al loro vecchio signore. Egli sa che il popolo che ha impoverito non accetterà altre favole.

Occorre un altro pifferaio, quello che racconta una favola diversa:

  • “le risorse son poche perché le dobbiamo dare ai poveri stranieri”, mentre continuano ad essere i ricchi di ogni tipo che le tengono nelle loro tasche.
  • “le risorse non ci sono perché non possiamo più stampare moneta e gestire il nostro debito”, mentre la gran parte del debito pubblico è finito nelle mani degli stessi fondi amministrati fino a ieri da uno dei nostri ministri economici.

Occorre un’altra favola che copra questa verità:

il possesso privato dei mezzi di produzione è incompatibile con qualsiasi equilibrio sociale, è incompatibile con la vita e l’occupazione dignitosa, è incompatibile con la conservazione dell’ambiente.

Occorrono anche altre favole già raccontate: la competizione economica e sociale tra gli Stati in un mondo che l’ha già sperimentata può accendere orgogli insperati.

Una “nuova era” di patriottismo che spenga l’attenzione sugli effetti del capitalismo.

La possibilità di svalutare la moneta all’indomani della crisi del 1973 conferì alla dirigenza pubblica italiana la possibilità di tamponare la crisi del petrolio. Nel contesto del cambio aggressivo fiorì quell’industrializzazione leggera, condotta dal basso da migliaia di piccole imprese, nate attorno al micelio di quelle grandi, spesso in aree che fino ad allora nulla avevano a che fare con l’industrializzazione.

Nella vulgata del nuovo pifferaio, questa “età del similoro” sui generis potrebbe dare una svolta all’Europa intera. Tuttavia, la faccia nascosta che nei discorsi economici non si tocca mai è il “profilo” della nostra struttura industriale.

È ben vero che tra i fattori che comportarono una pesante razionalizzazione delle grandi imprese negli anni ottanta vi fu la fine delle svalutazioni competitive in Europa (con l’introduzione dello SME). In questo contingente, le pesanti ristrutturazioni occupazionali generarono mobilità, scivoli e prepensionamenti: un enorme peso sul sistema pensionistico pubblico (e sul debito) che finì per socializzare le perdite delle grandi imprese allo scopo di mantenere i loro profitti privati.

In questo milieu, però, l’ingresso delle piccole imprese nella competizione internazionale in settori a bassa intensità di capitale e ricerca consentì di affrontare all’epoca condizioni concorrenziali diverse ed ancora favorevoli rispetto a quelle delle grandi imprese in settori ad alta intensità di capitale e ricerca.(1)

In quegli anni, l’Italia aveva decisamente imboccato la via dell’industrializzazione leggera a basso contenuto di capitale e tecnologia, abbandonata dalle altre nazioni di punta in Europa, dove non esistevano condizioni tali da spingere le imprese a restare piccole.

La controriforma dei poteri valutari diede però subito precisi paletti: a partire dal 1982 la Federal Reserve inaugurò una politica di restrizione monetaria che fece schizzare in alto gli interessi di tutto il mondo. In Italia, già nel 1981, il divorzio tra Banca d’Italia e Tesoro inaugurò una diversa e più pesante ascesa del debito pubblico. Da questo momento il peso debitorio non era più dovuto solamente all’assistenzialismo sociale, il quale era servito da ammortizzatore nella ristrutturazione delle grandi imprese, di fronte all’impossibilità fisica delle piccole di assorbire la stessa quantità di occupazione.

Da questo momento in poi, la struttura produttiva italiana andava incontro ad una fatale combinazione.

La struttura industriale rimaneva sempre più incentrata sull’industrializzazione leggera, a bassa intensità di capitale e ricerca.

Dall’altro, il divorzio tra Banca d’Italia e Tesoro impediva a quest’ultimo di acquistare i titoli di debito pubblico rimasti invenduti alle aste periodiche, in modo tale da calmierare i tassi di interesse.

La collocazione e la dipendenza dei titoli pubblici dal mercato privato favorirono ascesa dei ratei e la spesa pubblica dovuta a tassi di interesse. Il debito pubblico italiano si autoalimentava rispetto alla crescita del Paese.

La globalizzazione del mercato mondiale (liberalizzazione della mobilità dei fattori produttivi, merci e capitali) favorì nel contempo la creazione di una “fabbrica globale” in cui la produzione a bassa intensità di capitale e ricerca poteva essere condotta in aree dove il lavoro costava poco.

La piccola impresa che produceva nel nostro paese si trovò improvvisamente ad essere inadeguata alla concorrenza mondiale, situazione dalla quale non poteva uscire se non delocalizzando le proprie unità produttive nelle vicine aree a basso costo. Tunisia, Marocco e poi i paesi dell’est dell’era post-sovietica divennero praterie da cavalcare. Nel 2012, ad esempio, in Tunisia, l’industria italiana contava 747 imprese, seconda solo alla Francia, paese ex coloniale. Gli investimenti italiani erano e sono quasi tutti nei settori ad alta intensità di lavoro, mentre quelli francesi gravitavano in settori ad alta intensità di capitale. (2)

Ciononostante, le promesse immediate dei cavalieri di turno tengono banco: da un lato, condono ed (ennesimo) taglio fiscale per medi, piccoli e piccolissimi imprenditori, indipendentemente dalla loro efficacia per la produzione e lo sviluppo collettivo.

Dall’altro sussidi commisurati ad un minimo sostentamento, vincolati ai consumi in favore delle imprese (quindi non reddito), in un mondo del lavoro che non c’è e quando c’è deve essere accettato a salari e sicurezza sociale minima.

Su quest’ultimo punto basterebbe una riflessione minima.

Ricordava nel 2014 Giulio Palermo che la ricchezza netta delle famiglie italiane (attività reali più attività finanziarie detratti debiti e passività) ammontava a 8730 miliardi di Euro (3), questo limite è stazionario anche oggi (4). Detratti mutui e debiti, a ciascuno di noi (siamo oggi circa 60 milioni) rimarrebbero ancora circa 140.000 Euro di Patrimonio. Siamo un paese complessivamente ricco, sia quanto ad economia reale, sia quanto a patrimonio finanziario. I soldi sono tanti e sono quasi tutti in mani private.

Ma in poche mani.

Non serve quindi distribuirne a pioggia, ma basterebbe ripianare le diseguaglianze.

Se potessimo redistribuire equamente tra tutti i cittadini il patrimonio netto saremmo tutti proprietari di casa ed il reddito ci deriverebbe dalla sola rendita finanziaria del patrimonio netto (cosa ovviamente incompatibile col capitalismo). Invece l’Italia è fatta di persone che non hanno casa e vengono sgomberate perché non riescono a pagare l’affitto, persone che non possono permettersi istruzione e sanità perché non hanno reddito e persone che lavorano sempre a peggiori condizioni.

Questi ultimi, poi, sostengono per la maggior parte il carico fiscale che serve ai governi per distribuire soldi nelle casse delle imprese private, per tagliare le tasse alle imprese, per vincolare i soldi distribuiti ad essere consumati per il profitto delle imprese.

Per il capitalismo, il nuovo pifferaio è dunque manna dal cielo.

Egli trova il modo per nascondere ancora una volta il colpevole principale, trova il modo di far pagare ancora una volta alla collettività le perdite, le distruzioni, la disoccupazione create da quest’ultimo. Per far questo, oltretutto, riesce ad attingere impunemente ancora una volta al solito serbatoio fiscale dei lavoratori dipendenti, sui quali incombe per la maggior parte l’onere di versare le risorse utilizzate per le politiche economiche del governo di turno.

Quindi, caro senatore Debenedetti, i “valori” dell’Occidente, come li intendete voi, non sono in pericolo.

Il capitalismo ha semplicemente cambiato la faccia dei propri pifferai e il repertorio delle canzoni, che ormai non potevano più essere suonate senza fischi.

Queste nuove facce e queste nuove canzoni non sono più le vostre, ma l’Occidente – ovvero il capitalismo – è sempre il medesimo, quello descritto da Marx il quale ricordava che:

«L’unica parte della cosiddetta ricchezza nazionale che passi effettivamente in possesso collettivo dei popoli moderni è il loro debito pubblico… Il debito pubblico ha fatto nascere le società per azioni, il commercio di effetti negoziabili di ogni tipo… in una parola, ha fatto nascere il gioco di Borsa e la bancocrazia moderna.» (5)

I nuovi pifferai sono coloro che hanno trovato il modo di sdoganare ancora una volta l’arricchimento della classe proprietaria a spese dei veri produttori, i lavoratori.

Da cinquecento anni, nell’Europa occidentale, i proprietari di capitale e mezzi di produzione hanno sempre risolto brillantemente i loro problemi, scaricandoli su chi generava la loro ricchezza.

La classe dei veri produttori non ha invece mai incominciato a preoccuparsi dei propri, inciampando sul pifferaio di turno.

Niente paura, senatore Debenedetti, l’Occidente è salvo: ha solo cambiato volto.  Almeno fino a questo giro.

__________________________

Note:

1) M. De Cecco, Alle radici dei problemi dell’industria italiana nel secondo dopoguerra, Riv. It. degli economisti, 2004.

2) D. Moro, Globalizzazione e decadenza industriale, p. 154.

3) G. Palermo, reddito di cittadinanza, una critica marxista, perunaltracittà.org, 2018

4) R. Ricciardi, Consob, stabile la ricchezza delle famiglie. Un investitore su due non conosce le basi della finanza, Repubblica, 4 ottobre 2017.

5) Marx, Il Capitale, Libro I, cap. 24.

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