Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha annunciato ieri il riconoscimento di Gerusalemme come capitale d’Israele e il conseguente trasferimento dell’ambasciata americana da Tel Aviv. Una mossa che mira a promuovere gli interessi degli USA nella più ampia regione del Medio Oriente, provocando forti reazioni contrarie anche nei suoi alleati che congiuntamente sono responsabili degli interventi imperialisti nella regione. Tra questi si segnalano le parole del presidente francese Macron che la giudica una decisione unilaterale “triste” e non sostenibile, e di quello turco Erdogan che avverte che porterà la «regione e il mondo in un incendio senza fine, favorendo i gruppi terroristici». Hanno espresso in varie forme “preoccupazione” anche il presidente dell’ONU, António Guterres e Papa Francesco, così come la Russia che giudica la definizione dello status di Gerusalemme «una questione complessa e delicata», mentre Federica Mogherini, capo della politica estera e sicurezza comune dell’UE, ha invitato i palestinesi all’autocontrollo sottolineando che l’UE sostiene la «ripresa di un vero processo di pace sulla base della soluzione dei due stati, poiché questa è l’unica prospettiva che garantisce la pace e la sicurezza». Posizioni naturalmente che, come quella USA, non hanno altro obiettivo che quello di promuovere in altro modo gli interessi geopolitici delle rispettive borghesie.
Trump, a nome dell’imperialismo americano, ha cinicamente e provocatoriamente sostenuto che il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele «è stato a lungo ritardato» e che «le politiche fallite del passato non sono riuscite ad assicurare una pace praticabile tra israeliani e palestinesi finora». Inoltre ha ricordato che il Congresso degli Stati Uniti, anni fa, aveva già riconosciuto Gerusalemme come capitale di Israele, ma nessun presidente ha voluto finora attuarlo, finendo per sfidare la logica descrivendo Israele come «una delle democrazie di maggior successo del mondo».
Il presidente palestinese, Abu Mazen, contattando telefonicamente una dozzina di leader stranieri, ha chiesto loro di intervenire per impedire al presidente Trump di prendere una decisione che potrebbe “infuocare” la regione. Inoltre, ha invitato tutte le organizzazioni palestinesi a porre fine alle loro differenze e a lavorare “direttamente” per raggiungere «la riconciliazione nazionale per far fronte ai gravi pericoli». Il primo ministro, Rami Hamdallah, incontrando i diplomatici europei, ha dichiarato che la decisione degli USA «rovinerà il processo di pace e la soluzione delle due nazioni», invitando i leader di quei paesi europei che non lo hanno ancora fatto a riconoscere immediatamente lo stato palestinese ai confini del 1967.
Il primo ministro sionista, Netanyahu, ha invece definito la giornata “storica”, dicendo ipocritamente che sarebbe «un’opportunità di pace» e che qualsiasi accordo deve comunque «includere Gerusalemme come capitale di Israele», dichiarandosi inoltre convinto che anche altri stati seguiranno la decisione degli USA: «Siamo in contatto con altri Paesi che accetteranno il riconoscimento (fatto dagli USA), non ho dubbi che non appena l’ambasciata statunitense sarà portata a Gerusalemme, altri Stati faranno altrettanto» ha dichiarato stamani in un incontro al ministero degli esteri sionista.
«Ferma condanna» proviene invece dal Consiglio Mondiale per la Pace (WPC) che dichiara che la «decisione degli Stati Uniti è una chiara violazione delle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite sullo status della città come parte dei territori palestinesi occupati. La decisione è una prova del pregiudizio del leader degli imperialisti mondiali e del suo aperto sostegno all’occupazione israeliana e alla sua continuazione» prevedendo infine che la «situazione in tutto il Medio Oriente sarà influenzata se gli Stati Uniti manterranno la loro posizione che sta innescando l’escalation».
Intanto circa 250.000 palestinesi si sono riversati, subito dopo l’annuncio di Trump, nelle strade delle città della Striscia di Gaza, manifestando contro tale decisione, mentre i dirigenti di Hamas, che governa a Gaza, hanno chiamato le “tre giornate della rabbia” con il picco in occasione del venerdì delle preghiere islamiche e del 30esimo anniversario dell’inizio della prima intifada contro l’occupazione israeliana, per «una nuova intifada per la liberazione di Gerusalemme». «Come abbiamo liberato Gaza siamo in grado di liberare Gerusalemme… Il riconoscimento (americano) di Gerusalemme quale capitale di Israele è una dichiarazione di guerra nei nostri confronti», ha dichiarato il leader di Hamas, Ismayl Haniyeh. Più prudente la reazione invece del partito Fatah, del presidente palestinese Abu Mazen, che ha avviato un processo di riconciliazione nazionale con Hamas. Pur manifestando rabbia per la decisione americana, Fatah ha esortato i palestinesi a manifestare pacificatamene e a non scegliere la strada della violenza.
Il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP) ha dichiarato che sarà la lotta dei palestinesi e non Trump a decidere il destino di Gerusalemme considerando la decisione americana come una «dichiarazione di guerra contro il popolo palestinese e i suoi diritti che rende chiara la posizione degli USA come entità ostile al nostro popolo e un partner dello stato sionista nei suoi crimini contro il popolo palestinese e la sua terra, e devono esser affrontati come tali». L’organizzazione marxista palestinese, che non riconosce gli accordi di Oslo e non sostiene la soluzione dei due stati, invita «la leadership palestinese ad imparare le necessarie lezioni dalla devastante esperienza della dipendenza da negoziati e il dominio degli USA» chiamandola a «annunciare il ritiro immediato dagli accordi di Oslo e tutti gli obblighi successivi e concomitanti». Invitando le masse palestinesi e le loro organizzazioni ad «unire i loro sforzi e rispondere collettivamente, nella pratica e con forza a questa decisione attraverso l’azione e l’escalation della mobilitazione del movimento popolare», il FPLP afferma che la «battaglia per Gerusalemme è unica per tutta la Palestina. Per noi, Gerusalemme è Haifa, Safad, Yafa, Gaza, Ramallah e ogni villaggio e città in Palestina». Il FPLP sottolinea la «necessità di affrontare il triangolo di cospirazione contro Gerusalemme e la Palestina e i diritti del popolo palestinese e arabo, da parte dell’imperialismo, il sionismo e i regimi arabi reazionari, aprendo la porta ad appropriarsi dell’opzione della resistenza a questi schemi» e denuncia la natura dell’imperialismo degli Stati Uniti «come il principale sponsor del terrore sionista nella regione che cerca costantemente di accendere la regione, al fine di mantenere la sua egemonia». «Gerusalemme rimarrà per sempre la capitale del popolo palestinese e dello Stato della Palestina, mentre l’alleanza imperialista-sionista non avrà successo nel suo tentativo di cancellare l’identità araba della città» proclama in conclusione il comunicato.
Dello stesso tenore anche la reazione del Partito Comunista Palestinese (PCP) che ricordando che l’occupazione storica sionista della terra palestinese non si sarebbe verificata senza il sostegno dell’imperialismo britannico e americano che forma questa entità usurpatrice, definisce la decisione annunciata da Trump come «una dichiarazione di guerra» contro il popolo della Palestina e la sua causa nazionale. «Questo ci obbliga a unire e porre fine alla divisione palestinese in modo rapido e corretto, l’unica opzione praticabile che rimane al nostro popolo è quello di una massiccia resistenza», ha dichiarato. Il PC Palestinese richiede l’«unificazione di tutte le fazioni sull’arena palestinese e il ripristino dell’OLP sulla base democratica-rivoluzionaria», «la revisione della Carta dell’OLP e la sostituzione della soluzione dei due stati con la soluzione di un unico Stato democratico, che richiede una lotta con tutti i mezzi», chiamando infine «ad un incontro di tutte le fazioni della resistenza nazionale per prepararsi alla terza intifada, guidata dalle fazioni della resistenza e dando un ruolo più ampio alle masse». «Viva Gerusalemme, la capitale eterna di uno Stato palestinese indipendente» è il proclama dei comunisti palestinesi che conclude la dichiarazione.
La decisione di spostare l’ambasciata americana a Gerusalemme, rappresenta un cambio nelle strategie degli USA nelle relazioni nel mondo arabo per costruirsi un ambiente favorevole a portare avanti i suoi interessi a seguito della progressiva mutazione dei rapporti di forza interimperialistici nella regione a suo sfavore. Tale mossa, infatti, non può che considerarsi correlata agli sviluppi più ampi nel Medio Oriente e Golfo Persico, in cui gli USA pianificano e promuovono conflitti militari, cambiamenti di confini, nel quadro del suo progetto denominato “Grande Medio Oriente” con l’obiettivo sempre di continuare a controllare le risorse energetiche, quote di mercato, vie di trasporto in competizione con le altre potenze imperialistiche e rispettive alleanze. Per portare avanti i suoi interessi, nell’attuale quadro, non si fa, come sempre, alcuno scrupolo a gettare ulteriore benzina sul fuoco e creare ulteriore instabilità cercando di bruciare anche la soluzione di fondare e riconoscere uno stato palestinese con Gerusalemme est come capitale, accanto ad Israele. Lo stesso sta facendo anche il principale attore del mondo arabo, l’Arabia Saudita, profilandosi un pericolo quadro che prospetta un conflitto su vasta scala nell’area.
In questo quadro è sempre più grave e pericolosa la posizione del governo italiano che sviluppa e approfondisce le relazioni con Israele, come dimostra le recenti decisioni di deportare la combattente Leila Khaled e sul giro d’Italia. Va ricordato che ancora il governo italiano “congela” la decisione del parlamento di riconoscere lo Stato palestinese, e nonostante le parole del ministro Alfano che si dice non concorde con la decisione di Trump su Gerusalemme, l’imperialismo italiano coinvolge sempre più il nostro paese nei piani e conflitti imperialistici, in legame con gli USA, la NATO e l’UE, per servire gli interessi delle grandi imprese che non corrispondono di certo agli interessi dei lavoratori italiani nè tantomeno a quelli dei popoli del mondo.