Riceviamo il seguente contributo che volentieri pubblichiamo
Le recenti misure finanziarie del governo gialloverde sembrano andare in direzione univoca sul piano fiscale: agevolare con l’estensione dei limiti di fatturato per il regime forfettario la tassazione dei lavoratori autonomi di reddito medio/alto, più che le imprese individuali (per la mancata convenienza di molte di queste ultime che qualora aderissero non potrebbero dedurre più i costi di acquisto delle materie prime o dei prodotti da rivendere). Tale scelta di campo non dovrebbe stupire visto che tale categoria da sempre costituisce il nocciolo duro dell’elettorato leghista.
In sostanza la c.d. flat tax di cui tanto si parla, farà sì che per i professionisti con fatturato fino a 65.000 euro, il reddito imponibile sarà considerato pari al 78% (c.d. coefficiente di redditività) dei ricavi ed essi potranno comunque continuare a dedurre i contributi previdenziali. Inoltre, se precedentemente per beneficiare della tassazione agevolata (5% per le nuove attività e 15% per gli altri) occorreva oltre al limite dei ricavi (30.000 euro per i professionisti) rispettare ulteriori requisiti, questi ora verranno meno; dal 2019 infatti non si dovrà più tenere conto delle spese per il personale (5mila euro), del costo per i beni strumentali (20mila euro) e di un eventuale ulteriore reddito di lavoro dipendente (30mila euro).
Già dal gennaio del 2008 veniva introdotto con la legge 24.12.2007 n. 244, art. 1 il c.d. “regime dei minimi” per agevolare chi opera nel mondo delle professioni e in generale del lavoro autonomo. Da lì in poi tale sistema ha subito diverse evoluzioni, passando dal “regime fiscale di vantaggio per l’imprenditoria giovanile e lavoratori in mobilità” (d.l. 98/2011) per approdare appunto al regime forfettario con limiti di fatturato e coefficienti di redditività connaturati al codice attività (ateco).
La scelta attuale del governo però, rispetto a una flat tax che nei roboanti annunci iniziali avrebbe dovuto sostituire l’IRPEF in generale, si è così trasformata in un aumento esclusivo dei vantaggi fiscali per quei lavoratori autonomi con ricavi superiori ai 30.000 euro, precisamente quelli compresi tra i 30.000 e i 65.000. Tra l’altro, sfogliando le riviste di settore si presagisce già un’ulteriore estensione delle agevolazioni a partire dal 2020 anche per chi si trovi in un range di ricavi superiore.
La critica mossa si esplica nel fatto che di contro poco o nulla è stato fatto a favore del lavoro dipendente (pubblico e privato) con l’effetto di allargarne la forbice, appunto, rispetto agli autonomi.
Come scrivono Dell’Oste e Parente in un articolo de Il Sole 24 Ore del 27-12-2018: «Il regime forfettario potenziato dal 2019 allarga il solco tra i lavoratori autonomi e i dipendenti. Ma anche tra i titolari di partita Iva tassati con l’Irpef e quelli che beneficeranno della cosiddetta flat tax prevista dalla legge di Bilancio. Un professionista con compensi annui di circa 64mila euro pagherà 10.200 euro di imposte in meno rispetto a un lavoratore dipendente con un reddito analogo e due figli a carico. Una differenza di 850 euro al mese. E il risparmio è netto anche in rapporto a un titolare di partita Iva in tassazione ordinaria: 5.300 euro in meno, cioè 440 euro al mese… Per un lavoratore single che guadagna 30mila euro l’anno, il tax rate (tra Irpef e addizionali) è di 4.260 euro più alto rispetto a un professionista nel forfettario con un reddito analogo, cui corrispondono compensi di poco più di 38mila euro. Anche se il dipendente ha due figli a carico, il divario scende solo a 2.880 euro. È una differenza ampia e, per alcuni osservatori, non del tutto giustificata neppure considerando l’esclusione del rischio d’impresa.»
A conti fatti sembra che i lavoratori dipendenti debbano rassegnarsi alla constatazione che non vi saranno interventi migliorativi né sul piano fiscale né su quello salariale nel prossimo futuro.
*di Francesco Fustaneo