Abbiamo assistito nelle scorse settimane a uno scontro nel Parlamento europeo riguardante la legge sul copyright. Le linee di frattura hanno spaccato sia i gruppi politici sia i gruppi nazionali con 348 favorevoli e 274 contrari (in particolare Lega, M5S e parte del PD) e 36 astenuti. A prima vista non si capisce quali siano le ragioni di questa contrapposizione. Usando invece una corretta chiave di lettura marxista possiamo arrivare a intravvedere quali sono gli interessi che si nascondono dietro a questi due settori rappresentanti della borghesia europea.
Osserviamo per prima cosa che nel diritto alla proprietà intellettuale si misura uno dei più gravi limiti allo sviluppo delle forze produttive insito nel capitalismo. Le idee hanno una peculiarità: si possono diffondere con poco sforzo, generando una loro moltiplicazione praticamente senza costo. Un bene materiale può essere trasferito da un soggetto all’altro, ma in questo caso il primo se ne priva a favore dell’altro; ma se viene trasferita un’idea, un’informazione, un sapere, chi la trasferisce non se ne priva, ma ne crea un’altra nella testa di chi la riceve. Perciò pagare per la proprietà intellettuale è uno degli ostacoli più gravi alla diffusione della cultura (includendo in questo termine l’informazione, la ricerca scientifica e tecnologica, l’arte, ecc.) il cui accesso invece dovrebbe essere completamente gratuito. È chiaro che la produzione della cultura implica uno sforzo e un costo sempre più grande nella società tecnologica moderna, ma proprio per questo essa dovrebbe essere a carico della collettività, che potrebbe goderne i frutti collettivamente. Invece nella società capitalistica, in cui si produce per il profitto dei detentori dei mezzi di produzione e non per il benessere dei produttori, si deve remunerare chi produce la cultura ed anzi si assiste a un fenomeno di sempre maggiore mercificazione, ossia di progressivo spostamento dalla produzione di cultura pubblica a quella privata, seguendo così la tendenza a far generare profitto anche in quei settori che prima non entravano nel mercato capitalistico, quali la scuola, la sanità, ecc.
Per intendere correttamente quali sono i due settori capitalistici in conflitto e i rispettivi interessi in gioco, dobbiamo fare riferimento alla proprietà monopolistica che è un fattore importante, che altera la concorrenza perfetta. Il possesso monopolistico di un bene di produzione rende o impossibile l’attività produttiva o commerciale senza il suo concorso, o rende più redditizia la stessa attività quando essa si svolge su alcune proprietà anziché in altre. Esempi tipici sono: nella produzione agricola la fertilità del terreno, nella produzione mineraria la redditività della miniera, nel commercio la posizione dell’attività commerciale, nell’informazione la detenzione della rete di diffusione (giornali, siti internet). Marx distingue la rendita assoluta dalla rendita differenziale. La prima è quella che si genera perché esiste il monopolio della proprietà privata su certi fattori di produzione (per es. il possesso della terra coltivabile, nel nostro caso del copyright una rete di diffusione dell’informazione), la seconda è quella che nasce dal fatto che tali fattori hanno una redditività maggiore o minore (per es., diversa fertilità dei terreni, nel nostro caso una rete più o meno estesa ed efficiente).
Così come i miglioramenti nelle tecniche commerciali abbassano il valore dei prodotti finali, in quanto essi vengono trasportati e stoccati con meno lavoro, altrettanto fanno i miglioramenti delle reti di diffusione dell’informazione, in quanto garantiscono il raggiungimento di sempre più utenti, potendo così ripartire tra più soggetti il costo della produzione dell’informazione. Il saggio di plusvalore aumenta nelle aziende che sono in grado di seguire o addirittura di anticipare i miglioramenti tecnici. I profitti di tutti i settori aumentano per due cause. Se i vincoli salariali sono abbattuti, le riduzioni si scaricano sui salari, abbattendoli al loro valore facendo aumentare così i profitti di tutti i settori. Laddove non ci sono barriere nella redistribuzione dei profitti, essi si ripartiscono mediamente, altrimenti vengono sequestrati dalle aziende che sono in posizione dominante. Le rendite assolute, di converso, tendono ad abbattersi, perché la composizione organica tende ad eguagliare quella degli altri settori. Tendono invece ad aumentare le rendite relative dovute alle posizioni dominanti. Quindi assistiamo a un fenomeno contraddittorio per cui, mentre i settori che non hanno a che fare con una rendita devono innovare (aumentando così la composizione tecnica della propria produzione e conseguentemente la composizione organica del proprio capitale) per non soccombere alla concorrenza degli altri capitalisti del proprio settore, il settore che ha a che fare con la rendita (commerciale o dell’informazione) quando innova spazza via sia la propria concorrenza, che non riesce a restare al passo, che la rendita assoluta (ossia quei settori che hanno il privilegio di possedere una rendita di posizione).
Questo è il motivo per cui, proprio grazie alle innovazioni tecnologiche nei settori che sono ancora affetti da forti posizioni di rendita, abbiamo assistito negli ultimi anni a due fenomeni, impensabili alcuni decenni fa quando il mercato del lavoro e quello delle merci non erano così “liberalizzati”.
Nel commercio. Primo, i prezzi delle merci si sono abbattuti proprio per la riduzione dei costi di trasporto, ma con essi si sono abbattuti anche i salari. Secondo, le aziende commerciali più piccole hanno fatto posto a quelle sempre più grandi e i fitti dei negozi e delle aree commerciali (le rendite odierne) sono crollati; invece sono aumentate le rendite commerciali relative, create da grandissimi investimenti di capitali creati dalle grandi compagnie di distribuzione globale.
Nell’informazione. Primo, i prezzi delle notizie (ma anche in media di quelli relativi alla produzione culturale) si sono abbattuti e con essi anche i salari medi degli operatori. Secondo, le aziende editoriali più piccole hanno fatto posto a quelle sempre più grandi e i costi di gestione della rete sono crollati; invece sono aumentate le rendite relative, create da grandissimi investimenti di capitali dei grandi operatori.
Vediamo quindi che il fenomeno della “globalizzazione” è molto più antico di quello a cui abbiamo assistito ai giorni nostri. L’esposizione precedente ci mette in condizioni di valutare attraverso una chiave marxista la competizione attuale tra “globalisti” e “sovranisti” che si sta svolgendo oggi nel mondo e in particolare in Europa, a partire dalle ragioni economiche che risiedono dietro i settori in competizione e quindi la proiezione politica di questa lotta.
Intanto occorre mettere a posto i termini, che sono fuorvianti. È opportuno parlare di “liberismo” in riferimento alla dottrina economica, che tende ad abbattere ogni rendita di posizione e vincolo alla libera circolazione delle merci e dei capitali – tra le merci includiamo ovviamente anche la forza lavoro – che ha come proiezione politica il “liberalismo”. Mentre i “sovranisti” non sono che una riproposizione dei settori che vengono colpiti da questa liberalizzazione, ossia tutti i settori che si basano su rendite di posizione, principalmente settori commerciali protetti, che hanno come proiezione politica il protezionismo. Potremmo includere anche tutti settori produttivi che si rivolgono a un mercato protetto, ove la forza delle “liberalizzazioni” non è ancora arrivato.
I sostenitori della globalizzazione, dell’apertura dei mercati, della libera circolazione e delle privatizzazioni in ogni settore sono espressione del capitalismo monopolistico finanziario, quelli che detengono “l’artiglieria pesante” – come la definiva Marx – che abbatte le difese protezionistiche dei capitali e delle merci. Sul terreno internazionale appartengono a questi settori, non solo ovviamente i grandissimi gruppi monopolistici, ma anche importanti e dinamici settori produttivi, costituiti da aziende anche non grandi, che riescono a “stare sul mercato” e hanno la forte tendenza a misurarsi con un mercato non protetto. I settori legati a rendite e mercati protetti reclamano politiche protezioniste rispetto allo strapotere del capitalismo globalizzato, in nome della difesa di un territorio economico, che si vuole mostrare come un territorio comune – nazione, regione – ma che in realtà coincide e si limita all’interesse del proprio mercato, spesso asfittico. Sono settori che si trovano in difficoltà finanziarie e soffrono particolarmente l’abbattimento dei loro mercati protetti.
Nell’industria dell’informazione possiamo usare come esempi di questi due settori rispettivamente Google e le grandi case editrici. Google rappresenta l’azienda globalizzata per eccellenza, ogni vincolo territoriale la ostacola. Il mondo a sua immagine è completamente piatto, ogni punto è uguale all’altro, senza differenza di fuso orario o di regole legali. Questa azienda gode di una rendita di posizione? Certo, è quella che ha creato col proprio capitale con l’enormità delle disponibilità economiche a propria disposizione. Quindi non una rendita assoluta, ma una rendita relativa costituita dall’investimento di capitale. La grande casa editrice invece ha una sfera territoriale di riferimento che ha creato e mantiene grazie al possesso di una posizione locale dominante, che le viene assicurata fin quando il più vicino concorrente non interferisce con essa. Possiede una rendita assoluta molto forte, ma che tende a squagliarglisi in mano sotto i colpi dell’“artiglieria pesante” di Google, che assicura prezzi più bassi e operabilità dovunque e sempre.
Gli altri due attori in gioco sono: il piccolo editore e l’utente del servizio giornalistico.
Il primo è ormai un fossile economico, riesce a sopravvivere, schiacciato dai primi due molto più forti, solo perché spesso rendita, profitto e reddito da lavoro si identificano in un piccolo proprietario, che rinuncia a pagare la rendita a sé stesso e l’interesse al proprio capitale investito, se non addirittura anche il salario ai propri familiari collaboratori nell’azienda ed è quello che esercita il massimo sfruttamento sul proprio lavoratore salariato.
Il secondo è proprio il killer dei due subalterni. Attraverso la micidiale trasparenza delle offerte, spesso fittizie se non truffaldine, è lo strumento per l’abbattimento dei prezzi. Perché questo è uno strumento infernale? Perché, se nel brevissimo periodo quest’abbattimento sembra tornare a vantaggio del lavoratore quando esso entra nel mercato nelle vesti del consumatore, alla lunga si abbatte anche su di lui con l’abbassamento costante dei salari ai minimi di sopravvivenza. Per il lavoratore più importanti dei 29 giorni in cui egli assume la funzione di consumatore, è il 30-mo quando entra come salariato. Se le merci costano la metà sono contento, ma se il mio salario è ridotto a un quarto o addirittura è evaporato?
Anche la qualità dell’offerta artistica e dell’informazione ne risente. A lungo andare i prodotti sono sempre più standardizzati e reperibili in una ristretta cerchia offerta da pochissimi siti che hanno una capacità enorme di immagazzinare e riprodurre quantità inimmaginabili di contenuti. Ciò, anziché garantire la diffusione di contenuti liberi, li oscura attraverso un caos generato dal loro numero, relegando i contenuti davvero pregevoli a nicchie dal valore commerciale pressoché nullo. Intanto però la massa quasi totale degli utenti a livello planetario è indirizzata verso contenuti creati da campagne pubblicita-rie, che rappresentano una rendita differenziale, come l’ha definita Marx, ossia quella generata per in-vestimenti di capitali e non per possesso di un bene non altrimenti indisponibile.
Ciò non si verifica solo sul terreno dei prezzi, ma anche della normativa; per es., gli orari di apertura degli esercizi commerciali. Ovviamente il piccolo chiede che si pongano delle limitazioni per potere avere dei momenti di riposo, non potendo sostenere i ritmi del grande centro commerciale. Il centro commerciale invece non vuole limitazioni, perché ogni limitazione favorisce in realtà l’attore globale internazionale che opera in rete 24 ore al giorno 365 giorni l’anno. Il lavoratore dipendente è quello più scisso. Il lavoratore dipendente generico chiede che non ci siano limiti di orario nei negozi, perché ciò gli dà una maggiore flessibilità di acquisto, non rendendosi conto che così si apre la porta ad aumenti generalizzati di orari di lavoro anche per lui in qualunque settore esso operi: “se si può andare a fare la spesa la domenica sera allora puoi anche lavorare sabato e domenica mattina”. Ma anche i lavoratori degli stessi settori commerciali, che si suppone dovrebbero chiedere un limite agli orari di lavoro, invece spesso reclamano l’apertura prolungata, perché ciò si traduce in reddito supplementare, non rendendosi conto anche loro che su questa china si arriva presto o tardi a un inglobamento dello straordinario nell’orario ordinario e in momenti di crisi nello straordinario non pagato, arrivando alla fine a un aumento generalizzato dell’orario di lavoro.
I proprietari dei contenuti non sono i singoli compositori, giornalisti ricercatori, ma le aziende a cui essi hanno ceduto i propri diritti per far sì che quelle stesse opere del loro ingegno possano trovare valore sul mercato. Quindi le lobbies che hanno sostenuto questa legge ovviamente si sono preoccupate che questi prodotti abbiamo una remunerazione, non già per far sì che vengano riconosciuti i giusti diritti degli autori, ma per ridare valore di scambio a una merce senza il quale esse stesse non possono fare quel profitto che estorcono agli autori che pretendono di difendere. Se una merce non ha valore commerciale non ci guadagna l’operaio che l’ha prodotta, ma soprattutto non ci può fare profitto il suo padrone. D’altro lato gli autori che si sono messi in prima fila come paladini dei “diritti dei più deboli” sono quella esigua minoranza che ha essa stessa una rendita di posizione acquisita sul mercato col proprio nome che è stato sapientemente costruito da potenti aziende di manipolazione del pubblico. Ai piccoli produttori indipendenti toccheranno sempre le briciole.
Non deve sfuggire inoltre che i maggiori editori che hanno fatto enormi pressioni per fare approvare questa legge sono europei, mentre i giganti dell’informazione che invece si battono contro questa legge sono invece statunitensi (Google, Facebook, Apple, Amazon).
A livello planetario i maggiori sostenitori del “libero mercato” sono i cinesi che invece sono accusati di essere “statalisti”, in realtà sono le rendite di posizione europee e statunitensi che vengono attaccate dall’artiglieria pesante del capitalismo cinese. Mentre i sostenitori delle “regole” sono proprio quegli USA che in tema di informazione attaccano il capitalismo europeo. Infine gli europei, che hanno smantellato nel continente i diritti dei lavoratori si mostrano come i più tenaci sostenitori dei vincoli che hanno finora garantito la redditività del loro capitale.
In conclusione.
La battaglia a cui assistiamo è una battaglia tra due settori della borghesia, che detengono posizioni di rendita differente sul mercato, rendita assoluta e rendita relativa. Chi vuole imporre “regole” lo fa per ricreare valore commerciale a un bene che ne ha sempre di meno e per recuperare profitti, non certo per difendere i lavoratori del settore. Chi vuole abbattere sempre più queste regole lo fa per penetrare sempre di più nel mercato e abbattere la concorrenza dei primi, non certo per favorire i consumatori.
Non è detto che le proiezioni politiche di questi interessi abbiano sempre la stessa posizione nello schema “sovranisti”/”liberisti”. Per esempio, la Lega, che viene etichettata come sovranista, in realtà nella vicenda del copyright, ha assunto una posizione che è contraria alla regolamentazione del mercato. Ciò dimostra quanto siano superficiali e fuorvianti queste etichette.
Da comunisti dobbiamo scegliere di appoggiare uno dei due settori maggioritari borghesi?
Ovviamente, da tutta l’analisi precedente non può che discendere la necessità di una completa indipendenza e autonomia dei comunisti. Dobbiamo denunciare gli interessi economici che stanno dietro questi conflitti e smascherare i camuffamenti politici che ne costituiscono la proiezione.
Il ruolo dei comunisti è parlare alla propria classe di riferimento, il proletariato, cercare di unirlo, di non farlo sottomettere ad alcuna forma di ideologia borghese “globalista” o “sovranista”.
Gli artisti, i giornalisti, i ricercatori, tutti i produttori di cultura, subordinati o no, devono mettersi insieme in un fronte comune, unica garanzia per loro di poter contrattare in posizione meno subordinata con questo o quel padrone. In ogni caso le posizioni di retroguardia verranno comunque spazzate via dall’avanzare della tecnologia e dall’artiglieria pesante della forza della concentrazione capitalistica. Non è all’interno del sistema capitalistico che i lavoratori di qualunque settore potranno trovare un recupero delle posizioni perse né in termini di diritti, né in termini di reddito.
L’unica soluzione non è portare più regole nel mercato capitalistico ma uscirne. Per questo occorre reclamare che lo Stato e le sue articolazioni territoriali, come Regioni e Comuni, facciano una grande campagna per la produzione di cultura pubblica, gratuita, assumendo sempre più ricercatori, giornalisti, artisti negli enti pubblici, quali Università, centri di ricerca, teatri, giornali e case editrici pubbliche e statali, con la diffusione pubblica e gratuita dei loro prodotti.
Perché nell’era di internet e della stampa a prezzi irrisori ci sono ancora libri di testo carissimi nelle scuole e nelle università? Perché non si fa un pool di didatti che preparino questi materiali e li distribuiscano gratuitamente in rete o al prezzo del mero costo della stampa? Perché ci sono divi dello spettacolo che guadagnano cifre spropositate e – ce lo si lasci dire – immeritate, quando si tagliano i fondi per i teatri pubblici? Perché i giornalisti vengono pagati – quando vengono pagati – una miseria al pezzo, quando la Rai è occupata da sempre da una dirigenza asservita al potere borghese e in realtà portata avanti col lavoro oscuro di centinaia di lavoratori sempre più precari e sfruttati?
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