*di Enzo Pellegrin
La polemica di Renzo Tramaglino contro il “latinorum” di Don Abbondio dovrebbe essere riversata oggi sul Ministro del Lavoro. Quest’ultimo, nello sforzo di rassicurare che l’accordo ILVA/ Arcelor Mittal è rispettoso delle emergenze ambientali, ha spiegato che tutto starebbe nel famoso “addendum” ambientale. I tarantini, soprattutto quelli di Tamburi, sentono questo “latinorum” confondere loro la testa.
Hanno ragione: va fatta però una sommaria premessa.
1. Veleni per anni: il dossier sui tumori infantili
Sull’emergenza ambiente, salute e sicurezza a Taranto si parla da anni. Livelli di inquinamento consapevolmente tenuti al di fuori dei limiti di legge hanno generato una situazione in cui i bambini che vivono nelle abitazioni prossime agli impianti (come ad esempio quelli del quartiere Tamburi o Paolo Sesto) hanno il 30% di probabilità in più di ammalarsi di tumori infantili.
Così affermava il dossier consegnato nel 2016 al Ministero dell’Ambiente, aggiungendo che “Per quanto riguarda l’esposizione a metalli con proprietà neurotossiche in fluidi e tessuti di soggetti in età evolutiva (6-11 anni), lo studio dell’Iss di biomonitoraggio e tossicità degli inquinanti presenti a Taranto ha permesso di rilevare una situazione di potenziale presenza di disturbi clinici e preclinici del neurosviluppo nell’area di Taranto, non riconosciuti e non adeguatamente sottoposti ad interventi preventivi, terapeutici e riabilitativi” (il dossier può essere consultato qui).
Situazione importante: tant’è vero che, a seguito del dossier, venivano inizialmente stanziati 60 milioni di Euro per la prevenzione e la cura di detti disturbi. Poco dopo, in sede di approvazione della manovra finanziaria, lo stanziamento è stato cancellato e mai sinora ripristinato. Né dal governo vecchio né da quello nuovo.
Sull’inquinamento ILVA sono state condotte indagini dalla magistratura tarantina. Ne è nato un processo di Corte d’Assise con imputazioni per disastro doloso, reati ambientali, reati contro la pubblica amministrazione ed anche molti reati di omicidio colposo per violazione delle normative sulla sicurezza del lavoro.
L’evento più importante di quelle indagini fu però il provvedimento di sequestro dell’area a caldo nel luglio 2012. La magistratura inibì l’uso degli impianti, perché una perizia ordinata dal Giudice delle Indagini Preliminari aveva dimostrato che le emissioni erano diretto fattore causale di morti e malattie.
Il Governo italiano (con buona pace del principio di indipendenza del potere giudiziario) emise ben dodici decreti “salvaIlva”, di fatto consentendo la prosecuzione delle emissioni dannose e fuori legge. Gettò una gran quantità di soldi pubblici nei sei anni di commissariamento, continuando la produzione senza prospettive di bonifica, miglioramento, soluzioni sostitutive dell’area a caldo. Protesse i commissari con lo scudo legale dell’immunità penale per le violazioni ambientali.
Dopo sei anni, i soldi sono terminati e nasce l’idea di affittare gli impianti ad un privato, garantendo la medesima immunità, purchè vi sia qualche concessione in materia occupazionale. Una proposta in cui viene chiesto lavoro in cambio di mano libera su sicurezza, sfruttamento e libertà di inquinare.
A tutt’oggi, la stessa libertà di inquinare viene concessa al nuovo gestore indiano, Arcelor Mittal, il quale non potrà essere perseguito se la produzione continuerà con le stesse emissioni dannose sino ad ora autorizzate dalle varie “sanatorie” governative.
Le emissioni odierne sono le stesse in base alle quali la magistratura sequestrò l’area a caldo.
3. L’addendum e il dialogo gattopardiano: dire di cambiare per non farlo
Al capitolo 4 si configura un mero obbligo, per Mittal, di presentare al Ministero dell’Ambiente “idonea documentazione che certifichi che l’aumento della produzione garantirà che le emissioni convogliate di polveri rimarranno entro i limiti annuali post adeguamento in flusso di massa autorizzati”.
Traduzione: – dateci qualche carta (che fate voi per carità, ci fidiamo) la quale dica che il necessario aumento della produzione non supererà i livelli già autorizzati fino ad oggi.
Ma questi livelli sono gli stessi livelli “condonati” dai Governi: gli stessi livelli che sono stati riconosciuti come causa di morte e malattia dalla perizia del giudice, gli stessi livelli che hanno portato la magistratura a chiudere e sequestrare l’impianto.
Nell’”addendum” c’è però dell’altro. Viene previsto l”impegno a “confrontare il flusso di massa annuale autorizzato … ed applicabile al 31 agosto 2018 delle emissioni convogliate di polveri degli impianti oggi in esercizio, con il flusso di massa delle emissioni convogliate di polveri previste esercendo gli impianti ambientalizzati in coerenza con il DPCM del 29 settembre 2017, fino a 8 milioni di tonnellate”.
Che significa quest’altro latinorum? Ulteriore traduzione (con dialogo):
– sappiamo benissimo di avervi autorizzati ad inquinare con limiti ben superiori a quelli legalmente tollerati”. Però, da altre parti, con altri impianti, si inquina di meno. Ci sono “gli impianti ambientalizzati”, che tutte queste emissioni non le fanno più. Cosa vi prescriviamo allora? Un obbligo di conversione degli impianti in quelli meno inquinanti?”
– Per niente, – risponde Mittal, – fatevelo voi, a spesa pubblica, sennò non ci stiamo, per il noto principio che i profitti son sempre privati e le perdite sempre di tutti.
– Ma allora almeno un allineamento al valore delle emissioni degli impianti non inquinanti?
– Eh no! Perché sennò dobbiamo produrre di meno, e addio profitto.
La matematica, soprattutto quando c’è da difendere il capitale, non è mai un’opinione.
– Va bene: ci basta che “vi confrontiate”: fate il confronto tra quanto sporcate voi e quanto sporcano quelli che sono costretti a rispettare la legge. Solo un confronto”.
– E se inquinano di più?
– Nessun problema. L’accordo prevede comunque che non possano essere negate le autorizzazioni ad inquinare purchè le emissioni rimangano ai livelli di oggi.
– Ah allora va bene – Mittal ringrazia.
Ma i livelli di oggi sono quelli che un giudice, una serie di periti, una serie di funzionari ambientali che non si sono piegati ai precedenti padroni hanno ritenuto causa diretta di morte e malattie.
– Disfattisti! Servi estremisti e settari della magistratura politicizzata!
A Taranto i Riva finanziarono una manifestazione di operai contro il processo che li vedeva imputati. A ciascun manifestante comprarono il “kit di protesta”: cartelli e striscioni, compreso il cestino della merenda. Come tradizione della marcia dei quarantamila, molti non erano neppure di Taranto, molti forse neppure operai. I tarantini dalle parti di Tamburi e Paolo VI invece il Governo – qualunque sia – lo ringraziano meno: loro i confronti li vivono sulla propria pelle da anni, così come sulle statistiche dei dossier. Aveva dunque ragione Renzo a dubitare del latinorum, così come oggi han ragione i tarantini.
4. L’accordo Di Maio uguale all’accordo Calenda
Sull’accordo però si incassa l’entusiasmo di Confindustria e dei sindacati concertativi: vengono salvati 10.700 lavoratori. Un pochino di più dell’accordo Calenda, il quale ne faceva assumere 10.000 direttamente, e altri 1.200-1.500 addetti dovevano venir “travasati” nella società mista Ilva-Invitalia (controllata dal Tesoro), la quale avrebbe fatto un pezzo di bonifiche e altre attività. Il resto – circa 2mila lavoratori – sarebbero stati smaltiti attraverso gli esodi volontari, agevolati e incentivati (200 milioni il plafond destinato).
Secondo il sindacato FMLU CUB, col nuovo piano verrebbero confermati 3000 esuberi della cassa integrazione passata, già pattuita dai sindacati concertativi. Quindi 10.700 assunti e 3000 fuori per l’accordo Di Maio, contro 10.000 assunti e 1200 a carico del tesoro e 2000 prepensionati a incentivo pagato dal pubblico, per l’accordo, mai firmato, di Calenda. In entrambi gli accordi, immunità penale e libertà di inquinare per i nuovi padroni.
Il nuovo accordo riserva però inattese sorprese. Secondo il sindacato conflittuale FMLU CUB, non sarebbe così sicura neppure l’esenzione dal jobs act per i nuovi assunti (peraltro prevista anche dal piano Calenda): sembra che i nuovi padroni non abbiano confermato la clausola pattizia di esenzione nei contratti di assunzione, fonte sicura di cavilli legali. E’ invece certo che i lavoratori rinunceranno nei confronti della nuova società “a qualsiasi causa che potrebbe instaurare per malattie o danni derivanti da mancanza di misure necessarie per tutelare l’integrità fisica che il datore di lavoro avrebbe dovuto adottare, nonché ad ogni causa che riguarda il mancato versamento dei contributi previdenziali.
Tutto questo per conservare la libertà di inquinare stoppata dalla magistratura nel 2012, mentre nell’addendum non è previsto nessun piano per la rimozione e la bonifica dell’amianto all’interno dell’impianto.
Si parla spesso di bilanciamento degli interessi tra ambiente e l lavoro, affermando che diversamente non si può fare, a meno di massacrare i lavoratori. Si potrebbe fare diversamente, senza mettere a repentaglio i posti di lavoro?
Gli impianti “ambientalizzati” esistono in molte parti del mondo. Cina compresa. Quello di Taranto è un impianto siderurgico a “ciclo integrale”: impiega le materie prime come in natura (minerali, fossili), i quali vengono polverizzati e stoccati in enormi parchi minerali. Di qui il minerale parte per l’area a caldo, detta cokeria, che trasforma il carbon fossile in carbon coke (con un contenuto in carbonio che va dall’85% al 90%). Il carbon coke va poi all’altoforno dove si produce la ghisa liquida. Quest’ultima deve essere “affinata” in acciaieria per abbassare il contenuto di carbonio e eliminare impurezze (trattamento LF, ladle furnace). Questo tipo di lavorazione è quello che genera le emissioni più impattanti e pericolose.
Il parco minerali genera polveri sottili di ferro e carbone, le quali vengono trasportate dall’impetuoso vento tarantino, così “dipingendo” le case dell’adiacente quartiere Tamburi di un rosso ruggine vivo. Lo stesso trattamento viene riservato alle vie respiratorie.
Il sinteraggio e la pellettizzazione del minerale di ferro genera diossina e piombo. Gli altoforni per la cottura del carbon coke producono idrocarburi policiclici aromatici: benzene, toluene xilene, monossido di carbonio e zolfo. Il trattamento LF produce solfuro di magnesio e zolfo. I convertitori ad ossigeno che trasformano la ghisa liquida in acciaio generano monossido di carbonio ed anidride carbonica.
Le fasi tradizionali possono essere sostituite da altre tecnologie. Così avviene nelle acciaierie coreane Posco a Phoang, le quali utilizzano il cosiddetto processo Finex. Impiegano direttamente il minerale raffinato e la polvere di carbone con eliminazione del forno di sinterizzazione e della cokeria. L’inquinamento viene ridotto sensibilmente: 90% in meno di sostanze tossico-nocive e 98% in meno di contaminazione dell’acqua. Si riducono persino i consumi di energia e i costi di produzione (meno 15%).
Un altra alternativa alla cokeria è tecnologia Corex, che si basa sull’impiego di carbone fossile al posto del coke e del minerale di ferro fornito dalle miniere. Vi sono vantaggi ambientali ed anche riduzione di costi per il 20%, come nel sito siderurgico di Shangai Baosteel, realizzato dalla Siemens.
C’è pure un modo per conservare la tradizionale cokeria e inquinare di meno: ancora la Siemens Vai ha realizzato un impianto in Austria (VausAlpine Stahl Gmbh) con la c.d. tecnologia Meros, in grado di ridurre l’impatto dell’impianto di sinterizzazione (meno 97% di diossine e meno 90% di polveri sottili), riuscendo così ad abbattere una grande fonte di inquinamento, pur mantenendo il ciclo tradizionale.
E’ vero: tali tecnologie necessitano di un importante investimento : la chiusura della cokeria e la riconfigurazione della sinterizzazione comportano minore necessità di mano d’opera. Ma quello che viene chiamato “esubero” dagli attuali padroni, all’interno di una programmazione economica collettiva, può avere il proprio impiego nel procedimento di bonifica e riconversione, nonché in nuove attività produttive nelle zone bonificate.
Tutto ciò non rientra nei normali approcci dei governi come quelli italiani, abituati a risolvere la contraddizione capitale-lavoro in modi simili all’accordo ILVA: ti lascio sfruttare ed inquinare, purché me ne assumi un po’. Una logica che ispirava i rapporti tra il governo indiano e la Union Carbide, una logica che potremmo battezzare “Bhopal”. Una logica alla quale spesso si piega il sindacalismo concertativo ormai da anni.
La contraddizione tra lavoro ed ambiente sarebbe invece brillantemente risolta se fossero gli stessi lavoratori a decidere cosa come, dove e per che scopo produrre: collettivizzando la produzione di acciaio. Affidando la progettazione alla migliore tecnologia possibile, la gestione dei lavoratori potrebbe programmare la bonifica dell’impianto, riducendo l’impatto ambientale, configurando la produzione non in vista del maggior profitto possibile, ma delle reali necessità della collettività nazionale e del mantenimento degli investimenti.
Il vero scopo della produzione diverrebbe il soddisfacimento delle necessità comuni, minimizzando costi di produzione e impatto ambientale. Nello stesso modo, il lavoro verrebbe impiegato totalmente ma con un numero minore di ore. Il lavoro, da merce, diverrebbe produttore e gestore delle risorse.
Stupisce come i novelli critici dell’Unione Europea si concentrino spesso solamente sulla questione moneta/bilancio pubblico, dimenticando che l’Unione Europea è stata soprattutto una trasposizione delle regole neoliberiste di GATT e WTO all’interno di un sistema normativo ad efficacia diretta negli ordinamenti statali. Sin dall’origine dei suoi trattati, l’Unione Europea ha reso normativamente quasi impossibile la collettivizzazione e la nazionalizzazione delle imprese. Tali operazioni sarebbero censurate per violazione del divieto di aiuti statali, oppure per violazione del divieto di abuso di posizione dominante ai sensi degli artt. 81 e 86 del Trattato, presenti sin dai primordi organizzativi. Questo avverrebbe anche in caso di uscita dalla sola moneta unica.
La ragione di emancipazione dal sistema UE non sta tanto in qualche convenzione sull’immigrazione, o nei sogni keynesiani di utilizzo del deficit di bilancio, ma nel neutralizzare la mano capitalista di questo sistema normativo sull’economia dei popoli. La stessa mano capitalista (e gli stessi problemi finanziari) rimangono tali e quali se l’economia viene lasciata in mano ai capitalisti nazionali, che in ogni caso non possono essere slegati dal mercato mondiale nell’era della globalizzazione, neanche se potranno disporre di una moneta nazionale da utilizzare per i loro fini.
L’economia va riportata nelle mani dei lavoratori, non di un diverso padrone. Quando la collettività produce ciò di cui ha bisogno, senza assicurare il profitto dei capitalisti, spesso riesce a farlo nel miglior modo possibile, a prezzi e politiche competitive col privato, traendone un surplus da destinare alle esigenze della società, della piena occupazione e dello sviluppo sostenibile.
Statistiche alla mano, sono state le privatizzazioni in Italia ad aumentare i prezzi dei beni prodotti, a diminuirne la qualità, a generare veri e propri disastri: dall’Ilva alle autostrade, passando per l’aumento dei prodotti assicurativi, dell’energia, dei trasporti, della sanità.
Nella parola “collettivizzazione”, quale gestione diretta della programmazione economica da parte dei lavoratori sta però la cruciale differenza. Le imprese semplicemente nazionalizzate ed affidate a Grand Commis della borghesia nazionale finiscono per essere destinate ad interessi di altri padroni, che le conducono verso svendite e privatizzazioni. Non è il modello dell’Anas democristiana, né il modello Bhopal-Ilva che possono garantirci un futuro.
La collettivizzazione è uno spettro che ancora non si aggira per l’Europa: altri fantasmi vengono efficientemente fabbricati per nasconderla. Per queste mosse del cavallo ci vuole coraggio. Ancora Manzoni ricordava che i don Abbondio, il coraggio, non ce l’hanno, e non se lo possono dare.