di Sabrina Cristallo
La portata universale della crisi pandemica ha riportato con forza all’attenzione collettiva la natura profondamente ingiusta del sistema in cui viviamo: la bussola del capitalismo è il profitto a tutti i costi e la sua concentrazione deve restare nelle mani di pochi. Se fosse realmente ipotizzabile un capitalismo “buono”, certamente in questi mesi così drammatici, ha perso l’occasione di farsi avanti per ridistribuire la ricchezza.
Nel corso di decenni, il sistema capitalista, per restare in vita, ha serrato la stretta sulla classe lavoratrice e i soggetti più fragili privandoci della garanzia di un lavoro e della reale universalità di accesso ai diritti primari. Adesso queste contraddizioni sono esplose. Ci accorgiamo di camminare costantemente sull’orlo del precipizio e la precarietà a cui siamo sottomessi, che a partire dal lavoro si riflette su ogni sfera dell’esistenza, è la loro gallina dalle uova d’oro.
È evidente come lo Stato borghese non intenda assicurare niente alla classe lavoratrice che non sia strettamente volto al consumo e fonte di interesse padronale. Infatti, ci siamo trovati dinanzi al diritto primario alla salute di milioni di cittadini scalzato dal “diritto” d’impresa di pochi, mentre il diritto a ricevere cure risulta un terno al lotto e il diritto al lavoro di centinaia di migliaia di persone viene misurato a seconda degli interessi di mercato.
Siamo lavoratori usa e getta e non tentano neanche più di nasconderlo. Ce lo hanno detto a gran voce con le assunzioni di migliaia di lavoratori sanitari, inviati a rischiare la vita a tempo determinato; con i lavoratori dei supermercati, posti in cassa integrazione dopo aver rischiato altrettanto; con tutti quei lavoratori che, nel giro di pochi giorni, da essenziali sono diventati esuberi; non da ultimo, con la regolarizzazione dei lavoratori immigrati, giusto per il tempo utile dei raccolti.
La questione dei braccianti è significativa: la pandemia ha costretto il governo a fare i conti con l’esistenza di questa categoria di lavoratrici e lavoratori “essenziali”, altrimenti invisibili.
Ma dalla rivolta di Rosarno e lo sciopero di Nardò di dieci anni fa all’uccisione più recente di Sacko Soumalia, delle rivendicazioni dei braccianti viene presa in considerazione solo una porzione e in chiave esclusivamente utilitarista. L’essere umano ha diritto ad esistere sempre, a tempo indeterminato, indipendentemente dal tempo d’impiego della sua forza-lavoro, ha diritto ad una giornata di lavoro adeguata e a una giusta retribuzione, ha diritto ad avere una casa dignitosa e condizioni di sicurezza e ha diritto a lavorare libero dal ricatto padronale o delle mafie.
Nessuno di questi diritti è garantito ad oggi ai lavoratori dei campi, italiani o no, con permesso di soggiorno o no.
La retorica del restare a casa e della responsabilità individuale non funziona in non-luoghi dove il sovraffollamento e la mancanza di acqua sono consuetudine, ma il governo si ricorda dei braccianti soltanto dopo due mesi dall’emanazione delle misure di contenimento del virus e solo quando, allarmato da Confindustria, inizia a temere per la perdita dei raccolti. Un timore che si traduce nella paura che possa venir meno l’accettazione da parte dei braccianti di lavorare in condizioni di schiavitù unito al rischio di contagiarsi.
La verità è che il potere si sostiene sulla fragilità della moltitudine: mentre la crisi mette a dura prova questa tenuta, il governo mette le pezze concedendo misure assolutamente insufficienti. Sta a noi infrangere tutto, tenendo bene a mente dove risiede la potenza della classe lavoratrice, come ritroviamo nelle parole di Sacko Soumalia, il giovane bracciante e sindacalista originario del Mali, marito e padre, assassinato il 2 giugno del 2018 nella piana di Gioia Tauro, il quale, al grido di “Prima gli sfruttati”, lottava contro le condizioni di degrado e sfruttamento dei lavoratori agricoli e contro il caporalato.
«Agendo individualmente non si risolvono i problemi, solo unendo le forze si possono trasformare le cose».