È di qualche giorno fa un’intervista di Massimo D’Alema, rilasciata al giornale La Stampa e pubblicata sul sito di Art1-MDP, che annuncia la disponibilità di “Liberi e Uguali” alla formazione di un governo di coalizione post-elezioni (viene da sé, neanche a dirlo, anche con il Partito Democratico), e in particolare le linee di politica estera sulla base delle quali la nuova formazione punterà alla convergenza. «Il governo sarà frutto di intese che verranno dopo», dice D’Alema «E voi sarete disponibili?» «Siamo una forza riformista che, a determinate condizioni, è pronta a prendersi le sue responsabilità. Non ci sentiamo affatto fuori gioco».
Il titolo (“Rischio Austria anche da noi. Pronti a prenderci responsabilità…”) evoca il pericolo dell’estrema destra, quasi a voler esorcizzare preventivamente qualsiasi malumore da parte del mondo della “sinistra” facendo leva su un argomento mai invecchiato, sempre buono per giustificare le proprie politiche opportuniste. Ma oltre la retorica politica c’è molto altro.
L’intera intervista è imperniata sull’idea di un rilancio del ruolo dell’Italia sullo scacchiere internazionale. «Pretenderemo una rinnovata capacità di iniziativa internazionale dell’Italia, un rilancio dell’europeismo, federalista e comunitario, e una più forte difesa dei principali asset del Paese». Secondo l’ex leader dei DS, l’Italia potrebbe ad esempio «giocare un ruolo importante rispetto all’evoluzione della situazione mediorientale, ma abbiamo perduto moltissima influenza». Un concetto, questo della perdita di influenza dell’Italia, su cui D’Alema insiste molto nell’intervista, arrivando a parlare di una subalternità del Governo italiano nei confronti di altri paesi, e in particolare di Francia e Germania. Eloquenti sono le affermazioni che parlano di «governanti che hanno passato anni a baciare la pantofola della Merkel e adesso sono passati alla pantofola di Macron», o ancora: «il problema è la fragilità della classe dirigente italiana mentre gran parte dei principali asset nazionali stanno finendo nelle mani di capitale straniero, soprattutto francese ma non solo». Come interpretare queste affermazioni?
D’Alema è un uomo di potere. Fu capo di due governi dal 1998 al 2000, nonché protagonista della partecipazione italiana all’aggressione della NATO contro l’ex Jugoslavia, ma soprattutto leader di un partito fra i principali artefici delle politiche antipopolari all’insegna del nuovo corso neoliberista. Un uomo che conosce i meccanismi di potere, e soprattutto conosce l’importanza di accreditarsi agli occhi delle forze che realmente governano l’Italia e l’Unione Europea. Ed è proprio questo l’obiettivo delle ultime dichiarazioni: accreditare Liberi e Uguali come una forza affidabile agli occhi della finanza e delle grandi imprese, facendosi interprete di un sentimento esistente nelle alte sfere, cioè del desiderio di rivalsa dei settori del grande capitale italiano che effettivamente perdono posizioni, vedendosi scalzati dai loro competitori internazionali.
Una retorica, quella dell’Italia succube di interessi stranieri e quasi ridotta a colonia, che certo solletica l’attenzione dei padroni italiani, ma che è ben lontana dalla realtà, proprio perché la borghesia italiana non è vittima, ma corresponsabile e in buona parte beneficiaria delle politiche antipopolari portate avanti negli ultimi anni, dell’enorme trasferimento di ricchezza dal basso verso l’alto che queste politiche hanno generato.
La posizione dell’Italia non è quella di una colonia, ma quella di una delle prime potenze economiche del mondo, tra l’altro membro del G7, che da anni perde terreno e arretra rispetto al sistema imperialista globale, in quella che potremmo definire la piramide imperialista. Questo avviene per ragioni di natura strutturale, legate alle capacità produttive del capitale italiano, incapace di competere alla pari con i monopoli europei nel contesto di un mercato e di una moneta comune che, imponendo appunto un terreno di competizione comune, favoriscono inevitabilmente i monopoli di paesi a più alta capacità produttiva. I padroni italiani, già da molti anni, hanno deciso di intraprendere l’unica strada possibile: un attacco generalizzato ai salari e ai diritti sociali, volto all’abbattimento del costo del lavoro, come unica strada per rilanciare la “produttività”, che è sinonimo di “profittabilità”, cioè di rilancio dei profitti delle grandi imprese. Politiche che hanno visto anche Massimo D’Alema fra i principali artefici: sono passati solo pochi anni da quando, in diretta TV a Porta a Porta, si vantava di aver fatto «più privatizzazioni di chiunque altro».
Non è un caso infatti se D’Alema, puntando a differenziarsi rispetto al Partito Democratico attualmente al governo, preferisca focalizzarsi sulla politica estera, promettendo di rimettere al centro il ruolo e gli interessi “dell’Italia” (cioè dei monopoli italiani). Così come non è casuale la sostanziale apertura nei confronti della Russia, in linea del resto con le posizioni da anni assunte da Romano Prodi, ex leader dell’Ulivo.
Quando D’Alema parla di una «Europa incagliata in una posizione di principio che rende difficile il dialogo con la Russia. Che invece secondo me è necessario», non fa altro che cogliere un sentimento diffuso fra settori sempre più ampi del capitale italiano. La politica italiana è oggi dominata da orientamenti fortemente anti-russi, prodotto di una competizione inter-imperialistica che vede l’Italia fortemente legata agli USA e al capitale nordamericano, nonché alla NATO. Un ancoraggio che difficilmente verrà meno nel breve e medio periodo. Ma mentre a livello politico, o sovrastrutturale se si preferisce, domina questa visione, a livello economico c’è una bussola che punta sempre più proprio verso la Russia, e più in generale verso i cosiddetti BRICS. Settori sempre più importanti del capitale italiano, che spaziano dall’ENI a numerose piccole e medie imprese (che in Italia costituiscono tradizionalmente una importante fetta del tessuto produttivo, pur nel contesto di una sempre maggiore concentrazione), vedono nell’alleanza col capitale russo e nella Russia una grande opportunità economica. Massimo D’Alema tutto questo lo sa bene, e parla di un’apertura che il capitale italiano (o almeno una sua parte) da tempo chiede a gran voce. Nel linguaggio della politica tutto questo viene presentato come una sorta di “rimonta” dell’Italia in un derby con la Francia, la Germania o l’Inghilterra. Ma l’oggetto di questa competizione sono interessi del tutto estranei a quelli dei lavoratori.
Per le classi popolari, come ha affermato in un commento Marco Rizzo, segretario del Partito Comunista (PC), in corsa per le elezioni 2018, «non esistono interessi nazionali diversi da quelli dei lavoratori, cioè della stragrande maggioranza del popolo italiano. Chi vuole far passare come interesse “nazionale” quello delle grandi imprese che vorrebbero rilanciare i loro profitti nella competizione con le imprese francesi o tedesche, sta chiedendo per l’ennesima volta ai lavoratori di piegarsi agli interessi di chi li sfrutta ogni giorno, facendo profitti sulla loro pelle».
«Sarebbe interessante sapere cosa intende D’Alema quando parla di “difesa dei principali asset del paese”» – ha aggiunto Rizzo – «Se significa negoziare in Europa normative più favorevoli per le banche e le imprese italiane, o fare come sempre misure che socializzano le perdite mentre i profitti restano privati, non possiamo che essere contrari, perché i lavoratori hanno tutto da perdere e nulla da guadagnare. Nel nostro programma parliamo di nazionalizzazione dei settori strategici, di gestione delle imprese da parte dei lavoratori. Questa è un’altra cosa, significherebbe rompere con il sistema di potere attuale. Ma D’Alema questo non vuole farlo, perché quello che vuole è proprio governare per conto dei padroni. Noi comunisti siamo un’altra cosa».