La Cina è per l’Italia concretezza: intervista con Ettore Minore, export manager
Intervista di Pietro Fiocchi
All’analisi concreta della situazione concreta invitava Vladimir I. Lenin nel suo lavoro “L’imperialismo”.
Di concretezza parliamo con Ettore Minore, imprenditore palermitano a Roma, impegnato da oltre venti anni in Cina, dove ha fondato e dirige società che hanno uffici tra Hong Kong e Tianjin. I suoi progetti Italia-Cina spaziano dalla formazione all’elettronica, dalla finanza alle infrastrutture, anche la nautica, eccellenza italiana, e il calcio. È inoltre organizzatore e relatore di seminari e conferenze sulla Cina di oggi, in particolare sugli aspetti della cultura professionale cinese, nonché autore di cinque pubblicazioni su fiscalità, impresa e investimenti nel settore bancario della Repubblica Popolare.
Vogliamo parlare con un Italiano che lavora da tanti anni in Cina anche per guardare dall’interno quel Paese e osservare quali sono le principali differenze che egli nota col nostro, nel quotidiano, nella gestione della società e più in generale nella vita.
La gestione dell’emergenza sanitaria ha a che fare con la nostra salute, ma anche con i nostri posti di lavoro. Oggi, se parliamo di ripartenza, con certezza possiamo portare come principale l’esempio della Cina. Cosa avremmo potuto imparare dalla Cina, che a quanto pare ha risolto discretamente sia l’aspetto sanitario sia quello economico?
Dalla Cina possiamo imparare soprattutto la velocità nel diramare gli ordini di chiusura e soprattutto l’organizzazione dal punto di vista sanitario. Questo ha permesso nei primi due mesi di pandemia di chiudere tutta la zona della provincia dello Hubei, dove fa capoluogo Wuhan e quindi isolare il resto della Cina per quanta riguardava tutto quello che era la parte infettivologa, ma soprattutto la costruzione degli ospedali mobili, che ha consentito anche nelle altre province un’assistenza immediata a quelli che erano gli effetti del Covid.
Un altro aspetto, puramente economico, è stata l’assistenza alle imprese: una decina di miliardi (USD) è stata spesa solo nella provincia di Wuhan per alimentare le imprese che in quel periodo erano rimaste chiuse. Questo ha permesso di arginare la diffusione dell’epidemia, altre province non sono state quasi toccate, ma anche la ripresa è stata molto veloce, anche perché loro nello stesso periodo della chiusura non hanno chiuso le imprese, come invece è successo in Italia. Quindi hanno ripreso velocemente a produrre e dunque a esportare.
Noi purtroppo siamo stati molto lenti nel chiudere la zona di interesse e soprattutto mentre in Cina non permettevano il passaggio di confine della provincia, qui tra una regione e l’altra gli spostamenti, anche in termini di chiusura, non erano adaguati. Ne stiamo pagando le conseguenze.
Dalla Cina io prenderei la velocità di esecuzione e l’organizzazione dal punto di vista sanitario.
È possibile che alcuni sistemi socialisti, quando sono abbastanza forti ed equipaggiati da resistere al continuo sabotaggio dall’esterno, siano più idonei a fare fronte a crisi come quella che stiamo attraversando, rispetto a sistemi come l’America di Trump o il Brasile di Bolsonaro?
Il sistema socialista di per sé garantisce un’assistenza anche a fasce sociali meno avvantaggiate, cosa che nel Brasile di Bolsonaro e nell’America di Trump non è esistita e quindi questo ha favorito l’epidemia. Nel sistema socialista c’è anche una facilità di esecuzione per quanto riguarda alcuni decreti, che nelle democrazie occidentali hanno un impatto diverso rispetto alla Cina, soprattutto per quanto riguarda i tempi, un aspetto decisivo.
Nel sistema socialista l’ingranaggio funziona un po’ meglio, a cominciare dall’organizzazione.
Crede ci sarà mai una ripartenza in Italia o andremo avanti con questo apri e chiudi ancora a lungo? Con quali risultati per le attività produttive?
Quest’anno e mezzo di pandemia è costato molto all’Italia, rimasta indietro in diversi settori: è crollato il turismo ed è crollato soprattutto l’export. Se pensiamo che una delle regioni che esporta come la Sicilia ha avuto un meno 11 per cento, capiamo quale è il danno a livello nazionale.
Non credo che ci saranno altre chiusure in futuro. Mi auguro che se dovesse esserci una terza ondata saremo più organizzati dal punto di vista sanitario, ma non credo che ci saranno altre chiusure, perché se così fosse si andrebbe verso il baratro. Nell’ultimo periodo l’Italia in questo ha cambiato passo e adesso speriamo che qualcosa possa funzionare meglio, merito di una serie di compromessi che per quanto non sempre condivisi, diretti alla concretezza, appunto.
Importante sarà riprendere le esportazioni verso la Cina e verso l’Oriente in generale. In Cina avevamo un buon “appeal”, che nell’ultimo anno e mezzo si è preso. Dobbiamo riprendere i contatti con la Cina e con tutto il sistema produttivo cinese.
Oltre a quella sanitaria, c’è un’altra emergenza gravissima: il lavoro. Come potremmo fin da subito impiegare tutto l’eccellente capitale umano di cui dispone il nostro Paese?
L’emergenza lavoro è secondo me più grave della pandemia. Questa crisi ha portato alla chiusura e al ridimensionamento di tante aziende. Dovremmo riprendere tutto quello che è il mercato e l’internazionalizzazione d’impresa: solo così potremmo impiegare tutto il nostro capitale umano per le professioni più disparate.
Come dicevo, è calato molto export. Qui dobbiamo insistere per creare nuovi posti di lavoro, sia nel sistema doganale italiano e sia nelle attività produttive, soprattutto in tutte quelle società che operano con l’estero.
Siamo il secondo paese manifatturiero dopo la Germania in Europa e siamo un paese a forte anima di export. Dobbiamo riprendere i rapporti con quei paesi che prima della pandemia ci garantivano una bilancia commerciale ottimale. Solo in questa maniera possiamo far crescere l’occupazione in questo paese.