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Difendiamo la legge 194

di Sabrina Cristallo

 

“Cucchiaio d’oro” era il nome attribuito a quei medici che, in cambio di una ingente somma di denaro, praticavano l’aborto clandestino nei loro ambulatori privati, ricorrendo all’uso di un cucchiaio di ferro per ripulire l’utero.

Dietro le porte di cucine o scantinati di abitazioni, dunque economicamente più abbordabili, la mammana inseriva un ferro da calza nell’utero della donna e lo faceva roteare per procurare il distacco della placenta.

In entrambi i casi, se ‘andava bene’ la donna abortiva, altrimenti si poteva compromettere l’utero e il rischio era quello di morire dissanguate.

Per decenni, la repubblica italiana ha lasciato nelle mani di queste figure la sorte di migliaia e migliaia di donne. Un destino fatto di indicibili umiliazioni ed improponibili geografie della clandestinità: donne costrette ad intraprendere veri e propri viaggi della speranza verso quei luoghi malsani dai quali non si sapeva se si usciva vive, sistemi d’interesse che sulla necessità e i patimenti della donna hanno costruito la propria fortuna.

Per decenni, la democrazia borghese, complice della forte ingerenza ecclesiastica, ha privato la donna della propria autodeterminazione, sottomettendo il corpo femminile al giogo di una speculazione spesso mortale. Quello stesso corpo femminile che, oltre ad essere strumento di riproduzione, si era inserito a pieno anche nella vita produttiva del paese, utile come forza-lavoro per incrementare i profitti dei padroni ma ancora sottratto di ogni libertà e tutela.

Con 58 imperdonabili e lunghissimi anni di ritardo rispetto all’Unione Sovietica, primo paese al mondo a depenalizzare l’interruzione volontaria di gravidanza, il 22 Maggio 1978, forte di una grande ondata di lotte operaie, viene concesso in Italia il diritto all’aborto.

Con una percentuale non chiara di strutture in cui l’obiezione di coscienza è imposta agli studenti e una media di 7 obiettori su 10 negli ospedali pubblici e conseguenti realtà geografiche in cui la donna risulta completamente isolata, la 194 resta tutt’oggi una delle leggi più osteggiate, minacciate, raggirate e sotto continuo attacco, in perfetta continuità con il ruolo subalterno spettante alla donna sotto il regime capitalista.

Ancora oggi si denuncia una realtà in cui il corpo femminile è oggetto di strozzinaggio, dove incontriamo gli stessi medici obiettori nel pubblico praticare aborti a pagamento nelle cliniche private. Ancora oggi, soffriamo dell’insufficienza di un sistema informativo, preventivo e di accompagnamento: dalla mancanza dell’educazione alla sessualità e alla contraccezione nelle scuole (l’Italia è tra i pochi paesi in Europa a non aver reso obbligatoria tale materia) al depotenziamento e la carenza dei consultori pubblici sul territorio, in media 1 ogni 35 mila abitanti.

Ancora oggi, a 42 anni dalla legge 194, l’aborto si presenta più come un privilegio che come una diritto garantito a tutte le donne. Una forbice persino ampliata dalla situazione di emergenza sanitaria in corso, per molti ospedali divenuta occasione di riduzione o addirittura sospensione di accesso alle pratiche per l’IVG, nonostante il suo carattere d’inderogabilità.

Le donne hanno sempre abortito e continueranno a farlo. Una scelta da sempre drammatica e mai dettata dalla leggerezza, ma spesso anche determinata da condizioni sociali svantaggiate. Difendere la legge 194 e la sua piena applicazione per un aborto sicuro e gratuito cancellandone l’obiezione di coscienza è un dovere inderogabile così come lottare affinchè possano essere superate tutte le discrimine economiche che conducono la donna lavoratrice a maturare la decisione di interrompere una gravidanza.

Proteggere l’autodeterminazione del corpo della donna, abolirne la mercificazione, mettere al centro la parità tra uomo e donna e intervenire nella tutela della maternità e dell’infanzia: questo è quanto un paese civile dovrebbe impegnarsi ad attuare, ripudiando ed abbandonando definitivamente ogni sorta di residuo fondamentalista e retrogrado, per una reale emancipazione della donna.

 

 

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