Non cessa l’attacco mediatico condotto da Repubblica contro l’università statale.
I mali denunciati sono più che reali ed è giusto metterli sotto la lente di ingrandimento e favorire tutte le azioni – da quelle interne a quelle giudiziarie – che possano arginare ed eliminare questo malcostume. Concorsi barattati, vincitori già designati ancor prima di aver bandito il concorso, intere dinastie di “baroni” noti e meno noti che si perpetuano nel tempo, favori incrociati, ecc. ecc.
Tutto verissimo. Anzi, diceva qualcuno, spesso i legami occulti, che non si vedono nei cognomi che si ripetono, possono essere ancora più perniciosi.
Detto ciò, non per difesa d’ufficio di un’istituzione arroccata sui privilegi, ma per vero amore per il principale motore di uguaglianza sociale ed elevamento della cultura di un Paese intero, entriamo nel merito della denuncia che, sospesa a mezz’aria, rivela in filigrana il vero intento dell’autorevole giornale di una delle cordate economiche più potenti d’Italia.
I comportamenti denunciati nell’università statale sono reati. Nell’università statale la magistratura e le autorità accademiche possono intervenire, ognuno coi suoi strumenti. Questi interventi devono essere indirizzati a garantire che l’istituzione pubblica sia conforme al mandato costituzionale. I cittadini italiani devono essere contenti che questi atti illeciti vengano perseguiti, perché essi fanno bene all’università pubblica statale, pagata principalmente con le tasse dei lavoratori.
La distorsione mediatica però che effetto ha? Quello di aumentare o diminuire il prestigio dell’università statale? Queste azioni possono essere presentate in due modi contrapposti. Il primo è quello in cui ci si complimenta per la salutare “purga” a cui l’istituzione viene sottoposta augurandosene il più veloce risanamento. Il secondo è quello in cui tutta l’istituzione viene screditata e presentata come una piaga purulenta che va estirpata in toto al più presto.
A questo, spesso, fa da controcanto la presentazione di risultati misurati secondo criteri fatti proprio per far apparire l’università privata come nettamente superiore a quella pubblica.
I risultati sono quelli di una corsa a handicap al contrario, in cui il più leggero viene favorito. Rette più alte, finanziamenti pubblici e privati che si sommano, carichi didattici più leggeri, valutazione dei rendimenti di apprendimento che non devono allontanare l’utenza … Tutto ciò rende più attraente l’università privata. Se in questa corsa truccata l’università statale, acciaccata da continui tagli che tutti i governi hanno fatto a gara a inasprire, riesce ancora a sfornare laureati e ricerca di livello è un miracolo.
Ci si rammarica che le università italiane (pubbliche e private, per la verità) non sono classificate nelle prime cento al mondo (QS World University Rankings). Ma se i prodotti della ricerca venissero pesati per i finanziamenti ricevuti, i risultati sarebbero ben diversi.
«Le entrate dell’intero sistema universitario statale italiano sono pari a poco meno di un terzo di quelle delle top-57 università inglesi. L’ammontare del finanziamento statale per studente in Inghilterra è quasi doppio rispetto a quello italiano. La quota premiale in Italia è circa il triplo della quota premiale inglese.» (https://www.roars.it/online/la-ricetta-di-boeri-e-perotti-per-luniversita-i-numeri-sono-giusti/).
Il secondo guasto dell’università statale è provocato non solo dalla riduzione dei finanziamenti pubblici, ma anche dalla sua iniqua distribuzione. Premiare il merito, si dice. Ma il merito come lo si stabilisce? Come mai questo “merito” ha una distribuzione geografica così ben delineata? Se nel “merito” entrano anche considerazioni che riguardano la capacità di occupazione dei laureati in territori storicamente svantaggiati, è chiaro che anche questa è una gara a handicap al contrario. Se un ateneo è in difficoltà ma svolge un’insostituibile funzione di promozione sociale in un territorio, esso deve essere sostenuto con tutti i mezzi. Se i dirigenti non vanno, si cambino. Ma non si può condannare un territorio al perpetuo sottosviluppo per colpa di pochi incapaci o farabutti.
In realtà è proprio il sistema produttivo della società che è cambiato profondamente negli ultimi decenni e ciò spiega il profondo motivo di quello che sta succedendo.
Quando c’erano in Italia grandi concentrazioni manifatturiere, era necessario avere una notevole quantità di manodopera e di tecnici istruiti. Quindi una scuola media e tecnica e quindi anche universitaria di livello adeguato alle richieste. Con la riduzione della quantità di manodopera, grazie alla sempre più pressante automazione dei processi e alla esternalizzazione dei processi meno produttivi in altre aree geografiche, tale massa si è ridotta drasticamente. Anche il ruolo dei tecnici di alto livello, come ingegneri e altri laureati scientifici, si è svilito come si vede dai loro stipendi sempre più magri e dei posti di lavoro dove si sviluppano i processi innovativi sempre più confinati in aree geografiche sempre più ristrette. Questo è un fenomeno particolarmente grave in Italia, in cui vediamo contemporaneamente il numero minimo in Europa di laureati per abitante e il numero massimo di laureati disoccupati. Non è solo un problema di scarso incontro tra domanda e offerta. Il fatto è che l’espulsione di legioni di laureati dalla scuola e dalla pubblica amministrazione ha provocato questo squilibrio.
Le “retate” di professori che hanno scambiato l’università statale per un proprio orticello sono benvenute, ma sia chiaro che la soluzione non è certo quella di trasformare l’orticello di pochi per un orto fiorito di un numero ancora minore di potentati, ma quello di approfittare di queste benemerite azioni per risanare l’università statale, pubblica e che ritorni anche gratuita per chi se lo merita e ne ha bisogno per davvero.