DSA: I millennials americani si appassionano al “socialismo”?

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DSA: I millennials americani si appassionano al “socialismo”?

*di Matteo Bernunzo

I millennials (i nati tra il 1981 e il 1996) iniziano a mettere in discussione il capitalismo o comunque il suo volto più predatorio e liberista. 

I giovani americani sono costretti a contrarre debiti enormi per poter studiare, hanno sempre più difficoltà a permettersi una sistemazione autonoma, si trovano spesso a dover accettare lavori meno qualificati, in un paese in cui, nonostante le apparenze scintillanti, erano presenti nel 2017 circa 40 milioni di poveri. 

Questa generazione, che vive insicurezza e contraddizioni, in contemporanea con l’ascesa di Donald Trump, ha iniziato a interessarsi di politica e a radicalizzarsi, arrivando, anche grazie ai social network e ai meme, a interessarsi al “socialismo”. Ma cosa intendono con questa parola, fino a pochi anni fa considerata tabù a causa della forte propaganda contro i “rossi”? 

A livello mediatico e numerico, la più grande novità politica sono i Democratic Socialists of America (Socialisti Democratici d’America), o DSA. 

L’organizzazione politica nasce negli anni ‘70 e gravita intorno al Partito Democratico, agendo sia dentro che fuori da esso. 

Questo dato è già indicativo, ma leggendo la storia dei DSA sul sito ufficiale viene fugato ogni dubbio sulle loro posizioni confuse, opportuniste e utopiche. 

Fin da subito, sono stati «tra i più forti critici del “comunismo autoritario”», aderendo invece alla visione eurocomunista e proponendo «welfare e crescita equa». Crescita, ma per quale classe? In questo modo, in Italia, si è passati da Gramsci a Renzi, passando per Occhetto; e come certi personaggi nostrani, i DSA celebrano letteralmente la dissoluzione antidemocratica dell’URSS e del blocco socialista come «una conquista per la democrazia», glissando sui terribili disastri economici che hanno colpito la popolazione dopo la “terapia shock” suggerita dagli economisti occidentali dopo il ‘91, per poi stupirsi che il capitalismo liberista più predatorio abbia da allora dominato la scena politica mondiale con le sue false promesse di prosperità e “libertà”. 

Nonostante celebrino il trionfo dell’imperialismo, subito dopo si descrivono come organizzazione “anti-imperialista” che si oppone alle azioni militari statunitensi (dimostrando anche una comprensione limitata di cosa sia l’imperialismo). Bernie Sanders, figura che ha avuto un ruolo importante per il movimento “socialista democratico”, ha usato parole molto generose nei confronti dell’ex senatore repubblicano John McCain e dell’ex Presidente statunitense Bush senior, contribuendo a riabilitare due figure dal passato politico e personale molto compromessi con l’imperialismo. 

Anche il loro programma attuale è confuso e limitato: hanno appoggiato la visione della “rivoluzione” politica di  Sanders,  candidato socialdemocratico indipendente alla presidenza USA e sconfitto alle primarie del PD da Hillary Clinton, vicina agli ambienti dell’oligarchia statunitense, co-responsabile di numerosi interventi militari (A supporto dei Contras in Nicaragua, la distruzione della Libia, il tentativo di cambio di regime in Siria che ha causato lo spostamento di masse di profughi…) ed elogiata dagli ambienti liberal esclusivamente in quanto candidata donna. 

Sul sito dei DSA leggiamo di tasse progressive, della visione di una società «più egualitaria e democratica, in cui le grandi aziende devono rendere conto ai lavoratori del loro operato e agire per gli interessi della società e non di pochi». Ma gli interessi fondamentali della classe capitalista sono contrari agli interessi della maggioranza della società e dei lavoratori e il suo potere economico, specialmente negli USA, permettono a una ristretta oligarchia di emarginare qualsiasi forza politica porti avanti interessi di classe diversi. Entrambi i partiti maggiori, Democratico e Repubblicano, portano avanti direttamente le richieste delle lobby che finanziano le campagne elettorali dei candidati. Dopo la sconfitta di Sanders alle primarie, è difficile pensare che il PD possa lasciare molto spazio alla cosiddetta “ala sinistra”, una area critica degli eccessi del capitalismo ma che rimane dentro i confini del sistema economico attuale e dentro i limiti della democrazia borghese, che non lascia spazio in alcun modo a proposte realmente alternative (come dimostrano la messa al bando dei comunisti durante la Red Scare e il maccartismo). 

Non solo, i DSA ci tengono esplicitamente a distaccarsi dai comunisti. Il manifesto sul loro sito (What is democratic socialism?) rigetta esplicitamente la pianificazione centrale e la proprietà sociale come fondamenti della società socialista, se non per alcuni settori chiave, prevedendo invece ampi meccanismi di mercato e insistendo molto sulle cooperative. Le esperienze del Cile di Allende e del Venezuela bolivariano dimostrano tuttavia che socialismo e capitalismo non possono coesistere e che un governo riformista può, al massimo, ottenere una redistribuzione economica sul breve termine, ma presto o tardi le contraddizioni tra il potere borghese e il potere socialista esplodono, mentre i meccanismi capitalistici e di mercato non possono garantire la piena occupazione e lasciano spazio alla reazione della borghesia nazionale, ostile a progetti di emancipazione popolare. 

Del resto, non basta nemmeno ottenere, dall’opposizione, delle riforme come la nazionalizzazione di alcuni settori chiave senza il controllo dei lavoratori, altrimenti l’Italia dell’IRI sarebbe stato un esempio di socialismo. A parte brevi accenni, nel manifesto non vi sono menzioni della lotta di classe e riflessioni sulla questione del potere politico e di quale classe lo detiene. 

Quali paesi oggi sono esempi di “Socialismo democratico” per i DSA? A quanto affermano, non esistono paesi che hanno realizzato questo modello politico ma guardano con favore le politiche di welfare delle socialdemocrazie scandinave e del Canada, rinforzando la nozione, proveniente dalla propaganda conservatrice, che qualsiasi tipo di politica sociale o intervento statale in uno Stato capitalista siano definibili “socialismo”. 

Non certo Cuba, nonostante il suo sistema politico, basato su candidati proposti da assemblee popolari, sia sicuramente più democratico di quello americano che consente di scegliere tra il braccio sinistro e destro del capitale e tra rappresentanti miliardari diametralmente opposti agli interessi della working class.

A questo proposito, è sicuramente diversa la storia di Alexandria Ocasio-Cortez, giovane deputata dei DSA eletta di recente al Congresso, vincendo a sorpresa le primarie del Partito Democratico nel 14-esimo distretto di New York. Nata da madre portoricana, dopo la laurea ha svolto diversi lavori, come la cameriera. Ha fatto quindi scalpore la vittoria di una giovane attivista proveniente da uno strato popolare. Ma basta questo ad alimentare illusioni sui DSA e il sistema politico americano? 

Storicamente, le uniche volte che il capitalismo americano ha tremato è stato con la Rivoluzione d’Ottobre, quando il Partito Comunista degli USA (nato da una scissione del Partito Socialista degli USA, in modo simile all’Italia) fu condannato alla clandestinità e all’inizio della guerra fredda, quando furono attuate misure repressive durante l’isteria anticomunista, sfruttando ex nazisti e fascisti riciclati sia nella CIA sia nelle istituzioni di paesi come Italia e Germania Ovest. I DSA, insomma, sembrano ignorare l’importanza della Rivoluzione bolscevica anche per le conquiste del movimento operaio nei paesi capitalisti, possibili solo nel momento di massima forza e prestigio dell’URSS e del movimento dei lavoratori e anzi si rifanno alla tradizione del Partito Socialista, di ispirazione riformista. 

Nel loro sito affermano di rivendicare il nome “socialisti” e la storia del movimento dei lavoratori per combattere l’isteria anti-socialista degli USA, portando avanti allo stesso tempo la propaganda anticomunista in termini simili a quelli usati dalla destra conservatrice o “libertaria”, riducendo ad esempio le esperienze del socialismo realizzato al “big government”, escludendo ogni discorso su cosa sia uno Stato e gli interessi che questo serve. 

La Ocasio-Cortez, in particolare, ha fatto delle dichiarazioni controverse, come l’appoggio a Nancy Pelosi per il ruolo di House Speaker (portavoce, ovvero leader di uno dei due rami del Congresso americano), la stessa Pelosi che alla domanda di uno studente aveva risposto, a proposito del Partito Democratico, «We are capitalists, deal with it», cioè «Siamo capitalisti, fatevene una ragione», in quanto era la “candidata più progressista”. 

In un’altra occasione, dopo aver parlato, in una intervista, di occupazione dei territori palestinesi da parte di Israele, ha in seguito chiarito, timidamente, «Non sono esperta di geopolitica», quasi pentendosi di essersi esposta su un tema controverso. 

I DSA non spendono inoltre parole sulla NATO e a livello internazionale si rifanno alle esperienze di Podemos e Syriza, il partito di Tsipras, che piegandosi alla Troika e alla volontà del capitale, ha portato avanti la macelleria sociale vista in Grecia, mostrando i grossi limiti dei movimenti riformisti e socialdemocratici che non si pongano in rottura con il sistema economico e politico. 

Si potrebbe tuttavia pensare che, se da una parte questa operazione ideologica confonde i lavoratori su cosa sia uno Stato socialista e sui principi del marxismo, sulla lotta di classe e sulla possibilità di riformare il sistema “scalando” il Partito Democratico, almeno contribuiscano a spostare “a sinistra” il dibattito politico americano. Questo in parte è vero e va riconosciuto: parliamo di un Paese in cui anche la sanità universale e gratuita era, fino a pochi anni fa, considerata una proposta da “bolscevichi”. 

Non si può però negare che il progetto politico dei DSA sia confuso e non basato su una visione teorica coerente, che porti avanti la retorica anticomunista e che si rifaccia perfino a una diversa tradizione politica. Un’ulteriore conferma è il fatto che i DSA si presentano come una organizzazione che ammette diverse tendenze politiche e diverse forme di attivismo e partecipazione ma vieta esplicitamente di far parte di organizzazioni a centralismo democratico, pena l’espulsione! 

Che fare, dunque? Negli ultimi anni, in seguito alla radicalizzazione dei millennials dopo le ultime elezioni presidenziali, ma non solo, sta rinascendo negli USA un clima di mobilitazioni, lotte sociali e sindacali che vedono il ritorno dell’organizzazione sindacale autonoma e conflittuale dei lavoratori e che meritano un articolo a parte. 

Questo movimento, però, rischia di disperdersi o essere trascinato nell’ennesimo progetto socialdemocratico se non emerge un partito comunista capace di compiere una battaglia ideologica (anche contro gli stessi “socialisti democratici”) e di mettersi alla testa di questo conflitto, unificarlo e portarlo in una direzione rivoluzionaria. Questo comporta emarginare sia le illusioni socialdemocratiche, sia una parte di sinistra radicale che, arrivando a supportare la Clinton in funzione anti-Trump, si sono abbandonati al più bieco opportunismo. 

I compiti dei comunisti americani sono molti: costruire un partito autonomo e di classe, che costruisca il consenso sia nelle grandi città che nelle aree rurali, unire e rafforzare le lotte sindacali trasformandole in lotta politica per una società radicalmente diversa, per la prospettiva del potere ai lavoratori, legando a sé sia la working class bianca che le minoranze, sfruttando anche l’entusiasmo di tanti giovani, studenti e non, che sentono sulle proprie spalle il peso di questo sistema e rifiutano sempre di più il dogma del There is no alternative.

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