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Fare come i bolscevichi

*di Tiziano Censi

Sono passati centouno anni dalla rivoluzione bolscevica e il movimento operaio è ai minimi storici.

In particolare in Italia dati sulle ultime elezioni politiche ci forniscono un quadro in cui la gran parte delle masse popolari ha votato e continua ad aver fiducia nel finto cambiamento di Lega e Movimento 5 Stelle.

Il prospetto generale è allarmante per le forze rivoluzionarie e merita un’analisi approfondita che parta dagli errori che ci hanno condotto dove siamo oggi con un occhio agli insegnamenti che la storia può fornirci. Ripartire dalle esperienze vittoriose del movimento operaio per trarne consiglio è certamente lodevole a patto però che lo sguardo retrospettivo serva a imboccare la strada corretta e non, al contrario, a giustificare il proprio perseverare lungo la deviazione piegando a questo scopo anche la realtà storica.

Lo scollamento tra la sinistra partitica e le masse diviene il tema centrale delle riflessioni di chi a vario titolo vorrebbe intestarsi il vuoto politico ed elettorale lasciato a sinistra da un Partito Democratico sempre più debole. Sarebbe il caso di chiedersi dunque: come riuscirono i Bolscevichi a costruire il rapporto con le masse e come le conquistarono alle proprie parole rivoluzionarie dal Febbraio all’Ottobre, dalla rivoluzione borghese fino alla presa del potere da parte del proletariato?

Rispondere a questo quesito in maniera semplicistica rischia però di metterci alla coda della vulgata comune secondo la quale i bolscevichi acquisirono consensi perché riuscirono a parlare al popolo con semplicità, parlando alla pancia di un popolo stremato dalla guerra, dicendo esattamente ciò che il popolo voleva sentirsi dire. Promettendo pace, pane e terra.

Non è un caso che moderni leader di partiti che hanno svenduto l’eredità dei comunisti in Italia si lancino in affermazioni coerenti con questa visione: “Non siamo riusciti a parlare alle masse. Non ci hanno capiti. Abbiamo sbagliato temi. Per questo abbiamo perso! A cento anni di distanza dobbiamo fare come i bolscevichi. Parlare semplicemente dei temi che stanno a cuore alle masse.” La sconfitta storica delle avanguardie proletarie in questo modo viene ricondotta ad un problema comunicativo. Siamo stati troppo idealisti, abbiamo parlato di massimi sistemi mentre i nostri avversari colpivano alla pancia e accumulavano consenso. In questo modo errori storici, deviazioni strategiche e tradimenti vengono di colpo messi in secondo piano da riflessioni più generiche sulla capacità di comunicazione dei comunisti. Una visione così “populista” dell’azione bolscevica non ha rispondenza nella realtà dei fatti e nasconde inoltre una concezione denigratoria delle classi popolari che vanno trattate semplicisticamente per farsi comprendere. “Bisogna parlare con semplicità nonostante si leggano tantissimi libri”, come per dire… bisogna riuscire ad abbassarsi al livello delle masse nonostante si sia dei fini intellettuali.

L’Aprile del 1917

Ma come andarono realmente le cose nel 1917? Se è infantile credere che i bolscevichi abbiano sconfitto i partiti borghesi “perché utilizzavano parole semplici” maggiore attenzione merita il legame tra le loro posizioni politiche e gli interessi delle classi popolari. Questo legame certamente esisteva. Le parole d’ordine bolsceviche erano intimamente connesse con gli interessi della classe operaia, ma solo a patto di considerare questi interessi non come “ciò che le masse desiderano”, ma come i bisogni reali del proletariato in quanto classe in ascesa, bisogni indissolubilmente legati con le necessità storiche di sviluppo dei rapporti tra le classi in Russia in quella data epoca. La questione può apparire ostica ma è essenziale per intendere il ruolo di avanguardia che i bolscevichi effettivamente esercitarono sulle masse.

Essi analizzarono con attenzione la condizione economica e lo sviluppo delle classi nella Russia zarista adeguando la propria strategia politica alle necessità dello sviluppo storico e della lotta tra le classi. Questa è l’imprescindibile base materiale sulla quale sorsero e si ressero le parole d’ordine bolsceviche. Se esse non si fossero basate su una corretta analisi economica e di classe non avrebbero potuto diventare egemoni, i bolscevichi non avrebbero potuto conquistare le masse, non avrebbero potuto essere espressione degli interessi, non sempre coscienti nella mente degli uomini, della classe proletaria. Questa era l’intima relazione di interessi che legava i bolscevichi alle masse.

Qualsiasi visione che non tenga contro di questa relazione è necessariamente parziale e non coglie il nodo essenziale della questione. Tale è la visione che tenga conto principalmente della capacità dei bolscevichi di rispondere alle esigenze immediate della popolazione e che si soffermi sul linguaggio utilizzato.

Questa visione “populista” non è che la controparte di sinistra della tesi per la quale i bolscevichi non fecero altro che un colpo di mano. In entrambi i casi si negano o mettono in secondo piano i rapporti sociali, lo sviluppo del conflitto di classe in Russia. Ma non solo si sorvola sull’elemento materiale senza il quale la rivoluzione non sarebbe potuta avvenire, si porta avanti un’opera di revisione della storia, presentando in maniera menzognera l’agire politico dei bolscevichi e il loro rapporto con le masse: Lenin e il gruppo dirigente del partito non fecero un colpo di mano e neanche incensarono le masse con parole semplici e demagogiche. Fecero tutto il contrario. Ritennero essenziale che la classe operaia e gli strati popolari capissero e facessero proprie le parole d’ordine bolsceviche e, con l’intento di raggiungere questo fine, trattarono da adulte le masse popolari spiegando pazientemente gli sviluppi della rivoluzione e i nuovi compiti che attendevano gli operai, i soldati e i contadini, svelarono gli interessi di classe dietro ogni manovra politica. Le dinamiche da comprendere e le parole utilizzate erano molto complesse ma non difficili da comprendere poiché esprimevano quello che la guerra e la rivoluzione aveva posto chiaramente di fronte agli strati popolari per i quali la vita stessa, con i suoi repentini sviluppi, rappresentava una scuola di formazione politica formidabile.
Allo scoppio della rivoluzione di febbraio il partito bolscevico era ancora una piccola minoranza all’interno del paese e gran parte dei dirigenti era in esilio. Questa condizione si riflesse nella composizione dei Soviet e nei consigli che si formarono nelle principali città, nelle campagne e al fronte. Il partito menscevico e il partito socialista-rivoluzionario godevano di grandissima fiducia agli occhi delle masse ed espressero da subito un’ampia maggioranza negli organismi popolari. L’azione del partito bolscevico dunque si indirizzò nella ricerca di un più ampio consenso tra gli operai e negli strati popolari. In questa direzione vanno le parole di Lenin, arrivato in Russia in aprile dall’esilio svizzero. In quelle che passeranno alla storia come le Tesi di aprile egli formulò la tattica che il partito avrebbe seguito di lì in avanti. Sosteneva Lenin:

[Dobbiamo] «Riconoscere che il nostro partito è in minoranza, e costituisce per ora un’esigua minoranza, nella maggior parte dei Soviet dei deputati operai, di fronte al blocco di tutti gli elementi opportunistici piccolo-borghesi».

«…fino a che questo governo sarà sottomesso all’influenza della borghesia, il nostro compito potrà consistere soltanto nello spiegare alle masse in modo paziente, sistematico, perseverante, conforme ai loro bisogni pratici, agli errori della loro tattica. Fino a che saremo in minoranza, svolgeremo un’opera di critica e di spiegazione degli errori, sostenendo in pari tempo la necessità del passaggio di tutto il potere statale ai Soviet dei deputati operai, perché le masse possano liberarsi dei loro errori sulla base dell’esperienza.» [1]

In queste parole si evidenzia tutto quello che sarà il lavoro politico dei bolscevichi.

Essi non tentarono l’avventura ma si posero da subito la necessità di conquistare la maggioranza della classe operaia, non dicendo ciò che le masse volevano sentirsi dire, ma con un lavoro “paziente” di “spiegazione degli errori”. Questa tattica fu portata avanti con un lavoro di critica nei Soviet, nelle fabbriche, con i comizi e attraverso la diffusione dei giornali bolscevichi che ricominciarono a essere stampati fuori dalla clandestinità fino al luglio.

L’opera di convincimento e di spiegazione degli errori e delle illusioni, che si traducevano nell’appoggio al governo provvisorio, lo smascheramento delle menzogne mensceviche, però, non furono compiti facili. La forza che si contrapponeva ai comunisti non era quella della tirannide zarista invisa al popolo ma un nemico molto più subdolo poiché agiva da sinistra. La rivoluzione del febbraio 1917 aveva portato al potere la borghesia e messo alla guida dei Soviet i socialisti conciliatori col potere borghese che si ergevano a difensori della rivoluzione, prodighi di promesse non contrapponevano alle parole di pace e libertà dei bolscevichi appelli in favore della guerra e dei privilegi. Anzi i loro proclami erano ancor più carichi di promesse sull’avvenire rivoluzionario proprio perché nella pratica politica essi non avrebbero potuto garantirle. Per vedere come avvenne la demolizione di questa illusioni affrontiamo a modo di esempio esplicativo la dialettica politica che si sviluppò dopo la rivoluzione di febbraio sulla questione della guerra.

La guerra imperialista

A sole due settimane dalla rivoluzione di febbraio, il 14 marzo il Comitato Esecutivo presentò al soviet di Pietrogrado un manifesto “ai popoli del mondo intero” redatto da Sukhanov esponente menscevico. Il manifesto esprimeva la volontà di una pace democratica senza riparazioni e senza annessioni. Vi si poteva leggere che «È venuto il momento per i popoli di prendere in mano la soluzione della guerra o della pace», si esortavano gli operai tedeschi e austro-ungarici: «Rinunciate a servire da strumento di conquista e di violenza nelle mani del re, dei proprietari e dei banchieri.» Queste erano le parole ingannevoli di coloro i quali appoggiando il governo provvisorio prima e guidando i governi di conciliazione dopo, nei fatti, proseguivano la guerra imperialista. Menscevichi e socialisti-rivoluzionari appoggiarono sempre la guerra tuonando contro di essa, chiedendo la pace, democratica e senza annessioni. Pure quando guidarono l’offensiva al fronte lo giustificarono definendola la via più veloce per arrivare alla pace.

Lenin si scagliò contro la risoluzione del 14 marzo e biasimò duramente i bolscevichi che non fecero lo stesso. In un contesto del genere la parola d’ordine della pace non poteva essere sufficiente e i bolscevichi nella loro paziente opera di critica diedero sostanza rivoluzionaria alla questione. Non superarono i menscevichi in demagogia anzi, Lenin schernendo i propri avversari rilevava che

«Non si può mettere fine alla guerra a proprio arbitrio. Non si può mettere fine alla guerra con una decisione unilaterale. […] Non si può mettere fine alla guerra mediante un’intesa tra i socialisti dei diversi paesi, mediante l’intervento dei proletari di tutti i paesi. Tutte le frasi di questo genere di cui abbondano i giornali difesisti (così erano chiamati i socialisti che giustificavano la guerra in nome della difesa della rivoluzione ndr) […] non sono altro che pii desideri di piccoli-borghesi.»[2]

Frasi vuote di tal genere e vani proclami erano ripudiati da Lenin e dai bolscevichi impegnati in un lavoro di spiegazione del carattere imperialista della guerra in corso, del suo legame con lo sviluppo economico e dunque con il potere e gli interessi del grande capitale.

«Niente è più dannoso di queste frasi sulla manifestazione della volontà di pace dei popoli.» sosteneva Lenin «La guerra non è nata dalla cattiva volontà dei predoni capitalisti, benché si faccia senza dubbio soltanto nel loro interesse e arricchisca soltanto loro. La guerra è nata dallo sviluppo semisecolare del capitale mondiale, dall’infinita molteplicità dei suoi addentellati e legami. Non si può uscire dalla guerra imperialistica, non si può ottenere una pace democratica, che non sia una pace di sopraffazione, senza rovesciare il potere del capitale, senza far passare il potere statale nelle mani di un’altra classe, nelle mani del proletariato.» [3]

Sulla Pravda gli operai potevano leggere:

[4]«Solo dopo il passaggio del potere alle classi oppresse, la Russia potrebbe rivolgersi alle classi oppresse degli altri paesi, non con vane parole, non con appelli astratti, ma indicando il proprio esempio e proponendo immediatamente, con precisione, le chiare condizioni di una pace generale. Compagni operai e lavoratori di tutti i paesi! – si direbbe in questa proposta di pace immediata. Basta col sangue. La pace è possibile. Una pace giusta è una pace senza annessioni, senza conquiste.»

Le tesi sostenute dai comunisti caricavano soldati, operai e contadini di una maggiore responsabilità: essi erano invitati ad agire e prendere il potere nelle proprie mani perché se così non fosse stato la pace democratica non sarebbe potuta arrivare. Alla passività dei proclami e della fiducia nel governo provvisorio diffusi dai socialisti conciliatori si contrapponeva la necessità di portare avanti la rivoluzione che aveva deposto Nicola II fino al punto di strappare il potere anche dalle mani della borghesia.

Ai proletari non si nascondeva nulla, si presentavano anche le possibili evoluzioni più negative:

«…se la classe rivoluzionaria della Russia, la classe operaia, prenderà il potere, dovrà proporre la pace. E, se i capitalisti tedeschi o di un altro paese respingeranno le nostre condizioni di pace, allora la classe operaia sarà tutta per la guerra.»[5]

Ma la guerra in quel caso non sarebbe più una guerra combattuta per gli interessi della borghesia, sarebbe una guerra rivoluzionaria per difendere la costruzione del primo stato socialista. E così avvenne quando dopo l’ottobre quattordici eserciti stranieri attaccarono la Russia.

«Se i capitalisti dell’Inghilterra, del Giappone, dell’America cercheranno di opporsi a questa pace, le classi oppresse della Russia e degli altri paesi non si lasceranno spaventare dalla prospettiva di una guerra rivoluzionaria contro i capitalisti.»[6] 

La posizione espressa dai bolscevichi dunque non aveva nulla di semplice. Partiva da un’analisi sul carattere della guerra, che richiedeva la comprensione degli interessi di classe per i quali la guerra era combattuta; poneva le classi popolari di fronte ad una grande sfida rappresentata dalla continuazione fino in fondo della rivoluzione e questo sarebbe potuto avvenire solo a condizione che le illusioni dei conciliatori fossero state passo, passo abbattute dalla critica paziente dei bolscevichi. Essi non illusero, anzi, mettevano le classi popolari di fronte anche all’ipotesi peggiore. Questa opera di sincerità fu premiata e, a mano a mano che le parole dei bolscevichi si realizzavano nella realtà, il loro consenso e la loro autorevolezza crebbero.

Riforme e illusioni costituzionali

Le stesse dinamiche di scontro dialettico che interessarono il tema della guerra si produssero su tutti i temi principali. Gli esponenti dei menscevichi e dei socialisti-rivoluzionari si riempivano la bocca di incredibili riforme, si impegnavano a consegnare la terra ai contadini, ad espropriare del 100% dei profitti dei capitalisti, ad istituire il controllo operaio sulla produzione e così via su questo tenore senza limite alle promesse. Legavano tutte le riforme alla “imminente” convocazione dell’assemblea costituente che veniva continuamente posticipata a causa delle pressioni dei Cadetti e della borghesia. Compito dei bolscevichi in questa fase fu ancora quello di svelare dietro le promesse tutti gli interessi di classe. Importante era dissolvere quelle che Lenin chiamava le “illusioni costituzionali”: bisognava scardinare la fiducia che le masse riponevano nelle istituzioni, nelle garanzie giuridiche rimettendo al cento della contesa i rapporti di forza tra le classi.

Un passo scritto da Lenin e pubblicato sul Raboci i soldat (giornale bolscevico) è estremamente esplicativo a riguardo.

«Fin dall’inizio della rivoluzione si erano delineati due punti di vista sull’Assemblea costituente. I socialisti-rivoluzionari e i menscevichi, profondamente imbevuti di illusioni costituzionali, consideravano la questione con la fiducia del piccolo-borghese che non vuol sentir parlare di lotta di classe: l’Assemblea costituente è annunciata, l’Assemblea costituente ci sarà e basta! I bolscevichi invece dicevano: la convocazione dell’Assemblea costituente e il suo successo saranno assicurati soltanto nella misura in cui la forza e il potere del soviet saranno consolidati. Per i menscevichi e i socialisti-rivoluzionari il centro di gravità stava nell’atto giuridico, cioè nell’annuncio, nella dichiarazione, nella promessa della convocazione dell’Assemblea costituente. Per i bolscevichi il centro di gravità stava nella lotta di classe: se i soviet trionferanno, la convocazione dell’Assemblea costituente sarà assicurata, in caso contrario non lo sarà.» [7]

I bolscevichi spiegavano ancora una volta pazientemente alle masse che

«Se non vi sarà una nuova rivoluzione in Russia, se non si abbatterà il potere della borghesia controrivoluzionaria (e dei cadetti innanzi tutto) e se il popolo non toglierà la fiducia ai partiti socialista-rivoluzionario e menscevico, partiti dell’intesa con la borghesia, l’Assemblea costituente, o non sarà convocata o sarà una fabbrica di chiacchiere».[8]

Il corso degli eventi diede ragione ai bolscevichi, la convocazione fu rimandata fino a che l’aumento della repressione controrivoluzionaria non pose la questione sotto tutta un’altra luce.

Alle promesse dei socialisti conciliatori, i comunisti russi risposero svelando queste illusioni. Le riforme tanto attese non potevano arrivare dal governo di conciliazione, non sarebbero arrivate dall’Assemblea costituente.

«Per quanto sinceri possano essere i singoli socialisti-rivoluzionari e menscevichi, le loro idee politiche fondamentali – secondo le quali senza dittatura del proletariato e senza vittoria del socialismo si potrebbe uscire dalla guerra imperialistica con una pace senza annessioni e senza indennità, e si potrebbe dare la terra al popolo senza indennizzo e istituire il controllo sulla produzione nell’interesse del popolo – queste idee politiche ( e naturalmente economiche) fondamentali dei socialisti-rivoluzionari e dei menscevichi rappresentano obiettivamente un inganno delle masse ad opera della borghesia.» [9]

Solo l’effettiva presa del potere da parte del proletariato, il cambiamento dei rapporti di forza, lo sviluppo della lotta di classe avrebbe potuto dare il via alle riforme.

Al giorno d’oggi queste riflessioni sono assolutamente attuali e le “illusioni costituzionali” sono ancora estremamente diffuse. Le forze politiche che oggi pongono l’obiettivo di attuare delle riforme nell’ambito del panorama costituzionale come orizzonte ultimo, che si appellano alle garanzie costituzionali chiedendo l’attuazione completa dei dettami costituzionali soffrono dello stesso annebbiamento di prospettiva contro cui tuonava Lenin poiché non tengono conto dello scontro tra le classi e dei rapporti di forza esistenti.

Correggere le masse

La propaganda bolscevica come abbiamo visto fu paziente, si scontrò contro un nemico che si mascherava da socialista, che usava parole di pace e libertà e proprio per questo motivo il suo inganno fu più efficace. Le masse popolari dopo la rivoluzione di febbraio riposero nel governo provvisorio e nei partiti piccolo borghesi la propria fiducia ma, in un periodo rivoluzionario con l’esperienza che deriva dalla pratica di ogni giorno le masse, acquistano coscienza con incredibile velocità. La vita portava naturalmente le masse sulle posizioni bolsceviche e smascherava le menzogne dei partiti conciliatori, le classi popolari si ritrovarono in pochi mesi a percorrere la via tracciata dai bolscevichi che non abiurarono mai al proprio ruolo di avanguardia, neppure quando fu necessario contenere la rabbia popolare.

Oggi la condizione di minorità del movimento comunista rischia di appiattire le rivendicazioni e la pratica dei comunisti su posizioni di codismo fino al punto di sostenere che “dobbiamo dire ciò che il popolo vuole”. La condizione odierna d’arretratezza è colpa anche di chi ha abdicato al proprio ruolo d’avanguardia assumendo posizioni riformiste, mischiandosi in ampie coalizioni elettorali alla ricerca di un più ampio consenso seguendo la logica che di fronte ad una condizione arretrata suggerisce “compagni arretriamo”. La storia della rivoluzione d’ottobre ci insegna l’esatto contrario. Persino in una situazione rivoluzionaria, quando le masse spingevano verso sinistra, i bolscevichi tennero fede al proprio compito.

Ciò avvenne nelle giornate di luglio quando gli operai e i soldati di Pietrogrado spalleggiati dai marinai di Kronstadt si riversarono armati nelle strade della capitale. I bolscevichi si rendevano conto che i tempi non erano ancora maturi per la lotta decisiva, gli operai di Pietrogrado si erano spinti troppo avanti. Una rivolta armata avrebbe scatenato la repressione della borghesia che avrebbe schiacciato facilmente la rivoluzione che non aveva ancora il pieno appoggio delle zone rurali. Non potendo fermare la manifestazione i bolscevichi se ne posero alla testa per assicurarsi che questa non degenerasse in guerra civile. Il corteo sfilò lungo le strade di Pietrogrado, i soldati intrapresero alcune scaramucce ma la folla raggiunse il palazzo Tauride, sede del soviet e del governo di coalizione, senza ingaggiare uno scontro aperto. I manifestanti pretendevano che il soviet estromettesse il governo e prendesse per sé tutto il potere. Menscevichi e socialisti-rivoluzionari che avevano la maggioranza nel soviet, però, non avevano intenzione di dar seguito a queste richieste e fu necessario l’intervento di Trotskij per impedire che la folla linciasse Cernov, uno tra i massimi esponenti dei socialisti-rivoluzionari e ministro del governo di coalizione, che era uscito dal palazzo per spiegare le proprie ragioni. L’intervento dei bolscevichi riportò la calma e permise alle forze rivoluzionarie di rafforzarsi, di estendere il proprio consenso, alle condizioni generali di maturare fino al momento esatto in cui il comitato centrale del partito bolscevico votò per l’insurrezione.

I bolscevichi evitarono la guerra civile a luglio perché avrebbe rappresentato un’avventura, sarebbe stata prematura e avrebbe condotto alla sconfitta. Essi esercitarono il proprio ruolo d’avanguardia nell’indirizzare le masse, svelando apertamente e senza bugie, senza timore di non essere compresi gli interessi di classe che si celavano dietro le parole dei loro avversari politici. Non si misero mai alla coda delle masse ma ne espressero sempre gli intimi interessi, anche quando questi erano annebbiati dalle menzogne dei conciliatori. Non si lanciarono in avventure neppure quando la richiesta proveniva da una parte delle classi popolari stesse. Tutto questo contribuì in maniera determinante alla vittoria dei bolscevichi e permise che la controrivoluzione non avesse la meglio.

Oggi le condizioni in cui operiamo sono mutate ma sarebbe un errore non seguire le tracce di chi ci ha preceduto. Tante tematiche di oggi hanno similitudini con quanto analizzato fino ad ora.

I comunisti devono interrogarsi su come riacquisire il proprio ruolo d’avanguardia, svelando lo scontro di classe in atto, indicando il vero nemico senza cercare di rincorrere le masse ma rappresentandone i veri interessi. Senza alimentare “illusioni costituzionali” dobbiamo andare fino in fondo con le nostre parole d’ordine.

Non basta dunque dichiararsi contrari all’Europa dei trattati senza svelarne il carattere di classe e l’impossibilità di un’uscita progressiva da essa senza un cambiamento di sistema, senza strappare il potere alla borghesia. Non basta dire che la costituzione va applicata senza spiegare che la norma giuridica è lettera morta senza la forza materiale dei lavoratori e che nessuno di quei diritti potrà essere conquistato senza rompere con il potere dei monopoli.

Queste sono solo alcune delle sfide “comunicative” che ci sono poste di fronte e dovremo affrontarle senza cercare scorciatoie ma facendo tesoro di quell’esperienza che centouno anni fa sconvolse veramente il mondo.

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[1] V. Lenin “Sui compiti del proletariato nella rivoluzione attuale (Tesi d’Aprile)”. Scritto il 4 e 5 (17 e 18) aprile 1917 Pubblicato il 7 (20) aprile 1917 nella Pravda n° 26

[2] V. Lenin “I compiti del proletariato nella nostra rivoluzione” Opere complete XXIV, Editori Riuniti, 1967, Roma.

[3] V. I. LENIN “Esiste una via verso una pace giusta?” Opere complete XXV – Editori Riuniti, 1967, Roma.

[4] Ibidem

[5] V. I. LENIN “La guerra e la rivoluzione”, Conferenza tenuta da Lenin a Pietrogrado nel maggio 1917. Opere complete XXIV, Editori Riuniti, 1967, Roma

[6] “Esiste una via verso una pace giusta?”, Op. cit.

[7] V. Lenin, “Illusioni costituzionali”, Opere complete XXV, Editori Riuniti, 1967, Roma

[8] Ibidem

[9] Ibidem

 

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