*di Graziano Gullotta
Lo scorso venerdì, 23 giugno 2017, nella cornice del teatro Valli di Reggio Emilia si è svolta l’assemblea generale di Federmeccanica, la federazione italiana degli industriali del settore metalmeccanico, che con i suoi 800 mila occupati in oltre 16 mila imprese rappresenta la più grande associazione industriale italiana.
Alla presenza del Ministro dello Sviluppo Economico Carlo Calenda e del presidente di Confindustria Vincenzo Boccia, l’assemblea ha eletto il nuovo presidente di Federmeccanica, il torinese Alberto Dal Poz, che va a prendere il posto del reggiano Fabio Storchi che ha guidato gli industriali metalmeccanici negli ultimi 4 anni e ha lasciato la presidenza tra gli applausi della platea.
Ma non è stato l’unico a ricevere applausi. Con un sottofondo di battiti di mano sono stati accolti, per la prima volta nella storia dell’organizzazione padronale, i tre segretari delle corrispondenti organizzazioni sindacali di categoria: Maurizio Landini per la FIOM, Marco Bentivogli della FIM e Rocco Palombella segretario dei meccanici della UILM.
Il tema su cui si è sviluppata la discussione è stata la celebrazione dell’inizio di una nuova era nei rapporti tra industriali e sindacati, con la definizione del progetto “Industria 4.0” e il nuovo contratto nazionale di categoria approvato lo scorso novembre. Secondo il neoeletto presidente Dal Poz «non celebriamo solo il nuovo contratto nazionale di lavoro, ma i significati che porta con sé: il primo di questi è il superamento dell’idea di conflitto sociale che ha segnato l’intero Novecento.»
In effetti si sta verificando un ulteriore salto di fase nello sviluppo delle relazioni tra industriali e sindacati, tra padroni e operai, che corrisponde all’arretratezza dei rapporti di forza nella lotta di classe oggi.
Il nuovo contratto nazionale dei metalmeccanici firmato a novembre 2016, l’accordo sulla rappresentanza sindacale del 10 gennaio 2014, l’attacco governativo e padronale al diritto allo sciopero, sono tasselli che hanno inciso profondamente sulle relazioni industriali nel nostro Paese. Tanto che oggi i sindacati confederali CGIL-CISL-UIL dopo aver abbandonato la lotta e aver perfino svuotato di senso la “concertazione”, dopo aver ridotto i sindacati a centri di assistenza fiscale e aver disarmato i lavoratori all’interno delle fabbriche, compiono un nuovo passo verso il collaborazionismo e oltre.
Campeggia un titolo sullo sfondo del palco dal quale parlano i tre segretari dei metalmeccanici confederali insieme al direttore generale di Federmeccanica Stefano Franchi: “FARE INSIEME”, un titolo che non lascia spazio a fraintendimenti, visti anche gli sviluppi degli ultimi anni, con l’abbandono totale di ogni prospettiva di lotta, di sciopero, di mobilitazione reale degli iscritti e dei lavoratori in genere. I tre confederali, dopo anni di divisioni, si ritrovano uniti e soddisfatti in un viaggio senza soluzione di continuità verso il corporativismo.
Le parole di Storchi sono chiare: «Si tratta di condividere i rischi, condividere i risultati e creare valore in maniera condivisa, procedendo per una via italiana alla partecipazione». Lo segue Boccia: «Dietro a questo contratto c’è un’idea di Paese e di industria basata non sullo scontro ma sulla condivisione e sul senso di comunità, con un unico scambio tra azienda e lavoratore, quello tra salario e produttività. Perché non potendo agire sulla leva della svalutazione la produttività è l’unico strumento per restare competitivi.»
Con l’unità monetaria non si può svalutare l’euro, quindi la soluzione di lorsignori è svalutare i salari degli operai.
Altrettanto soddisfatto Maurizio Landini, che rivendica con orgoglio di aver firmato un contratto «senza avere un modello contrattuale di riferimento» e orgoglioso dell’80% al referendum confermativo sull’accordo, sfida «qualunque altra organizzazione ad ottenere un risultato simile».
Gli operai si accorgeranno presto della portata di un “risultato simile”. Un contratto nazionale nefasto che lega strettamente gli incrementi salariali alla produttività, quindi all’aumento dei ritmi e dello sfruttamento e, inevitabilmente, ad un incremento considerevole dei rischi per l’incolumità fisica di una classe che già conta vittime quotidianamente; un contratto che introduce il cosiddetto welfare aziendale, una parte di retribuzione non monetaria che porta ad una illusione del mantenimento della propria condizione mentre nasconde un taglio dei servizi pubblici corrispondenti, una volta gratuiti (sanità innanzitutto) e un impoverimento generale per stipendi già troppo bassi, oltre ad avere conseguenze drammatiche per il livello di pensionamento futuro.
È evidente quello che sta accadendo: grazie alla complicità delle organizzazioni sindacali maggioritarie si sta costruendo un’impalcatura destinata a durare anni, al fine di scaricare sulle spalle dei lavoratori i costi della crisi e quelli della ripresa economica. Disoccupazione, precarietà contrattuale, incremento dei ritmi di produzione e aumento correlato dei rischi per la sicurezza, aumento dell’età di pensionamento, azzeramento degli spazi di protesta dentro e fuori la fabbrica.
Tutti gli attori protagonisti hanno espresso soddisfazione su questo percorso intrapreso: per Confindustria, Governo e i tre sindacati confederali il modello di relazioni in costruzione rappresenta una strada da percorrere e da proporre in tutti i livelli amministrativi.