Giorgiana Masi: una ferita ancora aperta

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Giorgiana Masi: una ferita ancora aperta

Fin dal secondo dopoguerra, la storia della nostra Repubblica è stata segnata da oscuri episodi che hanno attaccato gli spazi di democrazia.

Il movimento operaio del nostro Paese, infatti, seppure glorioso artefice del progresso sociale e civile di cui oggi godiamo, ha trovato sempre un acerrimo nemico in forze reazionarie, occulte o palesi, che hanno avuto tanta parte nel governo del Paese.

La nostra lunga memoria non ci fa dimenticare le molte vergogne che sino ad oggi abbiamo subito, che la fraudolenta mistificazione con cui la borghesia ricopre con una patina retorica, e ci spinge a non scordare pagine assai dolorose: dalla strage di Portella della Ginestra, all’attentato di Piazza Fontana, alla bomba sull’Italicus, all’omicidio dell’anarchico Pinelli, alla strage della stazione di Bologna, al G8 di Genova e molto altro ancora.

È certamente a noi noto che il potere, da settant’anni a questa parte – periodo in cui la borghesia italiana ha avuto solo un rispetto del tutto formale delle sue stesse istituzioni! – non sia stato affatto esercitato nelle aule parlamentari; ma piuttosto da parte di certe poco nobili conventicole, al riparo di cupi caminetti, dietro le più sordide quinte, e dovunque si potessero ordire oscure trame antiproletarie.

Ancora oggi, ad esempio, dato che il potere non persegue mai se stesso, ci troviamo ad annaspare nelle inquietanti sabbie mobili della strategia della tensione, delle stragi di Stato, dei morti senza giustizia, delle sinistre trattative con la mafia, senza che nessuno abbia mai potuto vederci chiaro fino in fondo, nella profonda consapevolezza che quello in cui viviamo sia tutt’altro che un regime libero e democratico.

Tra i molti misfatti compiuti in nome della democrazia, oggi ricordiamo la morte di Giorgiana Masi, la studentessa uccisa a Roma il 12 maggio del 1977, durante un sit-in dei Radicali a piazza Navona, indetto per raccogliere firme contro i referendum abrogativi, e a cui parteciparono anche gruppi della sinistra extraparlamentare e dell’Autonomia Operaia.

I fatti sono purtroppo arcinoti. Già prima del 12 maggio, il ministro dell’Interno, l’On. Francesco Cossiga pose di fatto Roma sotto il coprifuoco, vietando qualsiasi manifestazione politica. Cossiga giustificò tale atto vile e scellerato, con l’evitare che si ripetesse quanto accaduto, sempre a Roma, il 21 aprile, quando alcuni manifestanti di Autonomia Operaia furono coinvolti in una sparatoria con le forze dell’ordine.

Si trattò di un evidente tentativo di provocare il movimento operaio e di dare adito a quella strategia della tensione cui spesso le istituzioni ricorsero in quegli anni. Tra i manifestanti di piazza Navona, vi erano infatti molti agenti infiltrati, col chiaro compito di provocare disordini e di essere pronti a tutto.

Alle 19:00 circa, mentre i manifestanti cominciavano a defluire pacificamente verso Trastevere, qualcuno tra i 5.000 agenti presenti avrebbe cominciato a sparare sulla folla da Ponte Garibaldi, e Giorgina fu colpita da un proiettile vagante, morendo pochi minuti dopo.

Ovviamente nessuno ha mai pagato per questo brutale assassinio, ma noi, nonostante ciò, sappiamo bene a chi ne andrebbe attribuita almeno la responsabilità morale.

In un’intervista al Quotidiano Nazionale del 24 ottobre del 2008[1], sempre Cossiga, riferendosi alle proteste dell’Onda studentesca contro le riforme dell’allora Ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini, consigliava l’uso di agenti provocatori, e lasciava intendere di averlo già fatto molte volte in passato:

«Ritirare le forze di polizia dalle strade e dalle università, infiltrare il movimento con agenti provocatori pronti a tutto, e lasciare che per una decina di giorni i manifestanti devastino i negozi, diano fuoco alle macchine e mettano a ferro e fuoco le città. Dopo di che, forti del consenso popolare, il suono delle sirene delle ambulanze dovrà sovrastare quello delle auto di polizia e carabinieri. Nel senso che le forze dell’ordine non dovrebbero avere pietà e mandarli tutti in ospedale. Non arrestarli, che tanto poi i magistrati li rimetterebbero subito in libertà, ma picchiarli e picchiare a sangue anche quei docenti che li fomentano. Soprattutto i docenti. Non dico quelli anziani, certo, ma le maestre ragazzine sì».

Tornando ai fatti di piazza Navona,  accenniamo con pudore all’orribile tentativo di incolpare Gianfranco Papini, fidanzato della ragazza, il quale, secondo il picconatore, l’avrebbe colpita per errore durante il conflitto a fuoco con la polizia[2].

Ognuno giudichi secondo la propria coscienza – tanto più che, a distanza di così tanti anni, ci pare cosa impossibile che la verità venga a galla – ma, per inquadrare questo fatto in una logica storico-politica, concludiamo con quanto Engels diceva dello Stato borghese e delle sue istituzioni:

«Lo Stato, poiché è nato dal bisogno di tenere a freno gli antagonismi di classe, ma contemporaneamente è nato in mezzo al conflitto di queste classi, è per regola lo Stato della classe più potente, economicamente dominante, che, per mezzo suo, diventa anche politicamente dominante e così acquista un nuovo strumento per tener sottomessa e per sfruttare la classe oppressa[3]».

[1] http://temi.repubblica.it/micromega-online/francesco-cossiga-%C2%ABvoglio-sentire-il-suono-delle-ambulanze%C2%BB/

[2]    Renato Farina, Cossiga mi ha detto: Il testamento politico di un protagonista della storia italiana del Novecento, Marsilio, 2011 (Wikipedia).

[3]    F. Engels, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, Editori Riuniti, 1976, p. 202.

1 Comment

  1. Enrico ha detto:

    Ottimo articolo, studiare il passato per comprendere il presente.

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