La notte di aprile 1912 in cui il “Titanic” colò a picco, morirono 703 passeggeri. Pochi di loro viaggiavano in prima classe, molti in seconda e la maggior parte in terza classe. Se la morte è un destino comune a tutti gli esseri umani, questa vicenda ci dice che, molto spesso è collegato alla classe a cui si appartiene. Sicuramente oggi le differenze di vita tra i diversi ceti sociali si è attenuata rispetto ai secoli scorsi ma l’epoca contemporanea è gravata dalla mortalità per malattie non trasmissibili che colpisce, in modo non omogeneo, ma con sostanziali differenze tra generi, tra le classi di reddito e tra i diversi livelli di scolarità.
Nel 2015 il 90% dei 36 milioni di decessi per malattie non trasmissibili, si è verificato nei paesi a basso reddito. Basti pensare che tra le prime 10 cause di morte nei paesi a basso reddito troviamo: la diarrea, la tubercolosi, la malaria, complicazioni nella nascita pretermine ed asfissia e trauma alla nascita. Di contro, nei paesi ad alto reddito, troviamo sempre tra le prime cause di morte: cardiopatia ischemica, ictus, Alzheimer, diabete, tumori del colon-retto e della mammella.
Possiamo parlare di “disuguaglianze”, cioè differenze che non corrispondono alla variabilità dei fenomeni biologici, ma che sono dovute a mancata equità sociale a carico dell’individuo, della famiglia, al gruppo etnico o all’area geografica.
L’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) ha definito i “determinanti sociali della salute” quelle condizioni in cui la gente nasce, cresce, vive, lavora ed invecchia. Queste condizioni influenzano le possibilità dell’individuo di essere sano, il rischio di ammalarsi e l’aspettativa di vita.
Le disuguaglianze sociali della salute, sono il risultato dell’ingiusta ed evitabile variabilità di tali determinanti nei vari gruppi sociali.
In riferimento alle differenze di genere, secondo alcuni studi, le donne avrebbero un vantaggio di salute di tipo biologico che, spesso, viene annullato dallo svantaggio derivante dal loro parziale accesso a beni e opportunità. In questo caso, si parla di “paradosso di genere”, per cui le donne hanno una maggiore longevità ma, allo stesso tempo, hanno una maggiore incidenza di patologie con esiti invalidanti. Si è notato come lo svantaggio di salute sia più accentuato tra le donne del Sud così come le donne lavoratrici hanno un rischio maggiore di infarto che cresce all’aumentare del numero di figli a carico e specie se sono maschi (infatti rappresentano un carico aggiuntivo in quanto danno minore aiuto in ambito domestico).
In questi anni è stata rivolta sempre maggiore attenzione al tema dell’equità nella salute attraverso lo sviluppo di azioni in grado di promuovere interventi di riduzione delle disuguaglianze e proposte per tutelare i gruppi più vulnerabili. È necessaria una maggiore diffusione della cultura dell’equità nella salute promuovendo una maggiore sensibilità al problema e chiedendo un contributo di partecipazione attiva al processo. Un esempio è quello di promuovere iniziative e momenti di confronto. A questo riguardo un punto importante deve essere quella di rendere la salute più uguale e promuovere e sostenere politiche e azioni di equità nella salute. Questo documento si focalizza pertanto sullo sviluppo di raccomandazioni volte a supportare azioni e buone pratiche per la riduzione delle disuguaglianze nella salute.
Dobbiamo mettere in campo interventi, strategie e buone pratiche che, dovranno essere in grado di ridurre le disuguaglianze di salute considerando il contesto in cui sono state applicate. Ampliare la conoscenza sui meccanismi di azione dei determinanti sociali di salute e sui metodi per contrastare le disuguaglianze ricercando soluzioni idonee sul tema dell’equità. È necessario pertanto condividere informazioni, esperienze, interventi e buone pratiche a vari livelli per indurre un cambiamento generalizzato. Rafforzare la collaborazione mediante un ruolo di partecipazione attiva; condividere esperienze con i compagni e approfondire la raccolta di informazioni sugli aspetti sociali; un modo attraverso il quale si possono influenzare i determinanti sociali di salute è cooperare all’interno della propria comunità locale costruendo elementi di coesione. Occorre puntare la nostra attenzione anche nelle situazioni più vulnerabili quali per esempio i migranti stranieri creando reti e gruppi multidisciplinari che comprendano gli altri settori (per esempio istruzione, protezione sociale) per il potenziamento degli individui e delle comunità e partecipare alla creazione di politiche pubbliche multisettore. Dobbiamo rispondere in modo efficace ai bisogni dei gruppi evitando pregiudizi e preconcetti tenendo conto delle differenze di cultura dell’immigrato.
Sempre in tema sanitario porre alla vostra attenzione altri temi che reputo utili per la discussione:
Il primo punto riguarda la corruzione in sanità, tutti lo sanno che c’è ma si fa finta che non ci sia e se ne parla poco. Alcuni hanno coniato la metafora dell’“elefante nella stanza”.
La sua estensione e profondità del fenomeno corruttivo è talmente diffuso in ambito globale che si pensa che, a fronte di una spesa sanitaria globale di circa 7,35 trilioni di dollari l’anno (1 trilione=1000 miliardi), 450/500 miliardi vanno a finire in corruzione. La stessa cifra finanzierebbe l’accesso ai servizi essenziali di tutti i cittadini del pianeta che ne sono privi. Le forme di corruzione vanno dai fenomeni di micro corruzione (farmaci, piccole attrezzature) alla macro corruzione con il coinvolgimento di politici, amministratori, case farmaceutiche, professionisti e concessionari di servizi che si dividono i fondi destinati. Oltre alle tangenti sugli acquisti (per questo la centrale unica di costo), appalti truccati e falsificazioni di ricerche mediche, ci sono i fenomeni di conflitto d’interessi e, tra questi, quello più tristemente famoso, è il comparaggio, la condizione cioè per cui un giudizio professionale concernente un interesse primario (la salute del paziente) è influenzato da un interesse secondario (carriera, profitto economico, prestigio personale). Solo in questo modo possono spiegarsi quei fenomeni illegali che vanno dalla maggiore prescrizione di farmaci oppioidi negli USA, alla truffa inglese secondo la quale la vaccinazione antimorbillosa era responsabile dell’insorgenza dell’autismo, senza parlare degli oltre 6 milioni di tagli cesarei non necessari o la prescrizione impropria di antibiotici con la conseguente resistenza farmacologica.
Su questo fenomeno è arrivato il momento di vigilare, in altre parole, di guardare l’elefante negli occhi.
Il secondo punto riguarda le morti sul lavoro.
Negli ultimi 120 anni sono morti per infortunio sul lavoro circa 13.000 lavoratori compresi i morti sulle strade “in itinere”; dall’inizio di quest’anno i morti sono circa 1200 e la categoria maggiormente rappresentativa sono gli agricoltori (sono oltre un centinaio i soli morti schiacciati dai trattori) 36,5%, a seguire il comparto dell’edilizia (specie per cadute dall’alto) con il 16,5% e quello degli autotrasportatori 10% e i lavoratori dell’industria cica il 9%. Ora abbiamo, purtroppo, un dato nuovo e drammaticamente attuale, parlo del 32,4% di morti per infortuni Covid medici (50% di base), infermieri, sanitari, farmacisti, forze dell’ordine compresi i VVFF, fino alle cassiere.
Mentre il 13% di morti sono stranieri, le donne muoiono maggiormente in “itinere” e questo è dovuto alla stanchezza per il doppio impegno casa/lavoro. Oltre il 30% dei deceduti aveva più di 60 anni e questo dato è strettamente correlato con la Legge Fornero. Allo stesso modo si deve al Jobs act l’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori e il conseguente aumento di morti, ne è la prova il numero di morti che lavora in aziende che non hanno la copertura dell’articolo18, del responsabile della sicurezza, di rappresentanza sindacale.
Mentre si parla di “detassare il detassabile”, di aiuti alle imprese, di finanziamenti pubblici ai privati, della necessità di un lavoro sempre più precario di lavoro si continua a morire!
Nessuno parla di diritto costituzionale di lavorare meglio, tutti ed in sicurezza, magari si assiste a qualche frase di circostanza per mantenere la coscienza a posto.
Del resto parlare di questo argomento non interessa che a pochi e non porta voti né ricavi.
E poi quando mai potrà valere la vita e la salute di chi lavora visto che la sicurezza viene considerata un costo! Un saluto ai lavoratori dell’ILVA di Taranto, che aspettano ancora la costruzione di proposte di lavoro rispettose della dignità umana uscendo da quella morsa di ricatto occupazionale, quello dello scambio tra lavoro e salute.
Ultimo punto su cui vorrei fare una seria riflessione è una circostanza che è drammaticamente attuale. Parlo della violenza sulle donne e Covid.
Di fronte all’invisibilità del coronavirus tutti noi stiamo subendo visibilmente le sue conseguenze fisiche e psicologiche a causa dell’isolamento, del distanziamento sociale, della chiusura di scuole e attività e della vulnerabilità economica. Se il restare il più possibile in casa perché considerato un posto sicuro, un rifugio che ci tiene “fuori dal pericolo” del contagio da parte di un “mostro invisibile” che ci ha colti impreparati sembra la scelta migliore. La domanda che dobbiamo porci è se la casa possa essere davvero un posto sicuro per tutti.
Sappiamo che ambienti e situazioni molto stressanti e un diminuito accesso alle reti protettive e sociali, possono aumentare il rischio di abuso e violenza domestica di donne e bambini, le vittime più vulnerabili. L’emergenza del Covid-19 che ci incoraggia a restare in casa può, quindi, esporre drammaticamente i bambini e le donne a subire violenza da parte di un membro della famiglia che, sfruttando le restrizioni del Covid-19, eserciterà maggiore potere e controllo.
L’Organizzazione Mondiale della Salute (OMS) ci ricorda, come la violenza contro le donne resta uno dei maggiori problemi di salute pubblica globale e tenderebbe ad aumentare durante ogni tipo di emergenza, inclusa l’epidemia del Covid-19. A livello globale, una donna su 3 ha sperimentato almeno una volta violenza fisica e/o sessuale da parte del proprio partner.
Gli ultimi dati che indicano come la prevalenza della violenza sulle donne sia triplicata durante l’emergenza del Covid-19 rispetto all’anno scorso.
I bambini, d’altra parte, ormai affacciati sempre più a un mondo in continua evoluzione tecnologica, restando in casa, tenderebbero ad usare maggiormente i comuni canali comunicativi online e gli adulti, lavorando da remoto, avrebbero più possibilità di connettersi con i minori e fare uso di materiale pedo-pornografico.
Misure di sicurezza, supporto psicosociale, servizi di assistenza sono alcuni degli incentivi essenziali per salvaguardare le vittime di abuso e violenza domestica.
L’allarme è stato lanciato fin dall’inizio delle misure che obbligano a stare a casa, ma adesso i dati confermano i timori. Si prevedeva che per le donne maltrattate in famiglia la quarantena avrebbe coinciso con un aumento delle violenze: l’isolamento, la convivenza forzata e l’instabilità socio-economica in questo periodo di emergenza coronavirus sono fattori che rendono le donne e i loro figli più esposte alla violenza domestica. Ora una rilevazione mostra che rispetto allo stesso periodo dello scorso anno le richieste di aiuto sono aumentate del 74,5 per cento. Le donne che si sono rivolte ai centri antiviolenza della rete in un anno sono state 19.715, di cui 15.456 (pari al 78 per cento) erano donne “nuove”.
Altro dato che mette in allarme è il calo dei contatti con donne che non si erano mai rivolte alla rete prima: è un dato che sottolinea le difficoltà delle vittime di violenza a chiedere aiuto proprio perché sotto la continua minaccia del maltrattante.
Il problema nel problema è che in questo periodo le donne non riescono a sfuggire al controllo di chi le minaccia neanche per fare una telefonata, di sicuro non per spiegare perché si sta chiamando: le donne che hanno chiamato tramite il 1522, cioè il numero telefonico gratuito antiviolenza e stalking collegato alla rete dei Centri Antiviolenza, sono soltanto il 3,5 del totale. Per questo si pensa sia indispensabile una parola in codice, da digitare rapidamente per chiedere aiuto.
Un accordo tra i centri antiviolenza e la federazione dei farmacisti prevede che rivolgendosi al banco e dicendo solo “mascherina 1522” si riceva un volantino che pubblicizza appunto il servizio telefonico e le app della polizia. Ma un volantino può essere spesso un pericolo, se portato con sé a casa e trovato dal convivente violento.
È necessario investire risorse per gestire l’accoglienza, i centri antiviolenza e le case rifugio.
Il governo dovrebbe assolutamente cambiare strategia prima che il fenomeno diventi ingestibile. Ma disperiamo che questo, come altri governi espressione degli interessi capitalistici, possa mai avere voglia di fare di ciò.