La fallimentare componente dell’estrema sinistra occidentale che valuta la Cina, tra l’altro in modo simile ad altre nazioni prevalentemente socialiste, come un capitalismo di stato con varianti asiatiche, dimostra subito la sua falsa, voluta e intenzionale ignoranza rispetto ai reali processi di riproduzione del capitalismo monopolistico di stato non cogliendo in alcun modo l’essenza di quest’ultimo.[1]
Il lato fondamentale della struttura del capitalismo monopolistico di stato, dopo la sua genesi nel 1914-1933, consiste nella continua praxis dei poteri pubblici a favore della privatizzazione dei profitti e della socializzazione delle perdite del capitalismo: gli apparati statali e parastatali (banche centrali, ecc.) che favoriscono la dinamica di accumulazione dei monopoli capitalistici e, simultaneamente, li salvano dalle loro catastrofiche debacle e dai loro collassi finanziari.
Too big too fail. Troppo grandi per farli fallire, ammette la stessa stampa borghese rispetto alle principali multinazionali, ma persino questo semplice concetto rimane un arcano segreto per gli astuti finti tonti dell’estrema sinistra schierata contro la Cina Popolare: ma sono falsi ignoranti che solo fingono, per ragioni facilmente spiegabili, di non conoscer neppure l’abc dei processi reali di funzionamento del capitalismo monopolistico di stato.
Un primo caso concreto per smontare la loro “ignoranza” viene costituito dalla Germania nazista del 1933-1945, paese per il quale neanche gli gnorri dell’estremismo di sinistra possono rifiutare la definizione di capitalismo di stato: scontrandosi tuttavia immediatamente con la dura realtà del nazismo-privatizzatore, al pari della Thatcher.
«Ferrovie: nel 1930 le Deutsche Reichbahn (Ferrovie tedesche) rappresentavano l’impresa pubblica singola più grande del mondo (Macmahon e Dittmar 1939, p. 484) che riuniva la maggior parte dei servizi ferroviari operanti in Germania. Il Bilancio tedesco per l’anno fiscale 1934/35, l’ultimo pubblicato, (Pollock, 1938, p. 121), stabiliva che le azioni privilegiate, ammontanti a circa 224 milioni di marchi, dovessero essere vendute.
Acciaio e miniere: nel 1932 il governo tedesco comprò più di 120 milioni di marchi di azioni della Gelsenkirchen Bergbau (Compagnia Mineraria Gelsenkirchen, la più forte compagnia all’interno della Vereinigte Stahlwerke A.G.(Acciaierie Riunite). All’epoca il Trust delle Acciaierie Riunite era la seconda più grande società per azioni della Germania (la più grande era la Farben Industrie A.G.). Lo stato acquisì le azioni al 364% del loro valore di mercato (Wegenroth, 2000, p.115). Una serie di ragioni furono fornite per la nazionalizzazione: a) avere un controllo effettivo sul Trust delle Acciaierie Riunite [The Economist, 8 luglio 1933, 117 (4689), p.73; b) socializzare i costi derivanti dalla Grande Depressione (Neumann, 1944, p.297); c) prevenire che il capitale straniero prendesse il controllo dell’impresa (Wegenroth, 2000, p.115).
Appena dopo la presa del potere da parte del partito nazista, le Acciaierie Riunite furono riorganizzate in modo che la maggioranza azionaria del governo del 52% fu convertita in una quota inferiore al 25%, largamente insufficiente per la legislazione tedesca per dare qualche privilegio al governo nel controllo della compagnia. Fritz Thissen che era a capo del trust, era stato uno dei soli due grandi industriali a dare sostegno al partito nazista prima che arrivasse al potere. (Barkai, 1990, p.10). Nel 1936 il governo vendette la sua parte di azioni, ammontanti a circa 100 milioni di marchi alla Associazione delle Acciaierie Riunite.
La compagnia Vereinigte Oberschlesische Hüttenwerke A.G. aveva il controllo di tutta la produzione di metallo nell’industria del carbone e dell’acciaio dell’Alta Slesia. La Seehandlung (Banca prussiana di stato) possedeva il 45% di questa azienda. Le azioni rimanenti erano detenute dalla Castellengo-Abwehr, una delle maggiori miniere di carbone dell’Alta Slesia. Il capitale della Castellengo era in possesso della Ballestrem. A metà del 1937 furono vendute alla Castellengo azioni dello stato per 6,75 milioni di marchi.
Banche: prima del crash del 1929, il settore pubblico deteneva almeno il 40% dell’ammontare totale degli assetti bancari (Stolper 1940, p.207) e una delle 5 grandi banche commerciali, la Reichs-KreditGesellschaft era di proprietà pubblica. Lo stato era coinvolto nella riorganizzazione del settore dopo il crash bancario del 1931 con un investimento di circa 500 milioni marchi (Ellis, 1940, p.22) e la maggior parte delle grandi banche caddero sotto il controllo statale. Stime fatte nel 1934 dal Comitato di inchiesta Bancario di Hjalmar Schacht presidente della Reichsbank e ministro dell’Economia, stabilirono che circa il 70% di tutte le banche tedesche fossero sotto il controllo dello stato (Sweezy, 1941, p. 31). Attraverso la Reich o la Golddiskontbank, il governo possedeva quote azionarie significative nelle più grandi banche10: 38,5% della Deutsche Bank und Disconto-Gesellschaft (d’ora in poi Deutsche Bank),71% della Commerz-und Privatbank (d’ora in poi Commertz-Bank) e il 97% del capitale della Dresdner-Bank.
La Commerz-Bank venni ri-privatizzata mediante alcune vendite di quote azionarie nel 1936-37. Queste azioni ammontavano a 57 milioni di marchi e la più grande singola transazione fu la vendita di azioni per 22 milioni di marchi dell’ottobre 1936. La Deutsche Bank venne ri-privatizzata con una serie di operazioni negli anni dal 1935 al 1937. L’operazione più grande riguardante quest’ultima fu il riacquisto nel marzo del 1937 delle azioni ancora possedute dalla Golddiskontbank. Queste azioni ammontavano a 35 milioni di marchi e la Deutsche Bank le piazzò fra i suoi clienti. In totale la riprivatizzazione delle azioni della Deutsche Bank venne ad ammontare a 50 milioni di marchi. Infine anche la Dresdener Bank fu riprivatizzata in diverse vendite azionarie nel 1936-37. Queste azioni ammontavano a 141 milioni di marchi e la vendita singola più grande fu di 120 milioni di marchi nel settembre del 1937.
Cantieri navali: Nel marzo 1936, un gruppo di mercanti di Brema acquistò uno stock azionario della Deutsche Schiff-und Machinenbau A.G. Bremen “Deschimag” (German Shipbuilding and Engineering Co.). La vendita ammontava a 3,6 milioni di marchi.
Linee di navigazione: nel settembre 1936 le quote azionarie detenute dallo stato della HamburgSüdAmerika vennero cedute a un sindacato di Amburgo. La vendita azionaria ammontava a 8,2 milioni di marchi. A metà del 1937, la compagnia di proprietà pubblica Norddeutscher Lloyd (North German Lloyd, facente parte della holding pubblica VIAG, vendette le sue azioni rimanenti della Hansa Dampf a un consorzio costituito dalla Deutsche Bank & Berliner Handels-Gesellschaft. La vendita ammontava a 5 milioni di marchi.
Aziende locali fornitrici di servizi: il governo nazista impose svariati tipi di limitazioni ed ostacoli alle imprese pubbliche municipalizzate. Fin dal 1935 le imprese municipalizzate furono soggette alla tassazione (Sweezy, 1941, p. 32). I requisiti amministrativi e finanziari divennero via via più stringenti (Marx, 1937, p. 142; Pollock, 1938, p. 145). La privatizzazione delle imprese pubblichi locali divenne imponente a partire dal 1935 (Sweezy 1940, 394). I dati presentati da Sweezy (1941, p. 33) sui ricavi provenienti dalle imprese municipalizzate che ammontavano a 481 milioni di marchi nel 1933, mostrano che nel 1935 erano saliti a 494 milioni. Nel 1935 tuttavia le entrate decrebbero a 456 milioni; il declino continuò anche nel 1936 a 360 milioni. La diminuzione delle entrate avvenne in una fase di crescita dell’economia. Quindi deve essere stata il risultato di una riduzione nell’ammontare e nel numero delle imprese municipalizzate nell’affare della fornitura di servizi in conseguenza della privatizzazione Sweezy, 1941, p. 33).»[2]
Un altro esempio è rappresentato dalla Corea del sud, per la quale risulta impossibile persino agli gnorri dell’ultrasinistra negare di inserirla nella categoria del capitalismo di stato.
«Il tasso di suicidi in Corea del Sud è uno dei più alti al mondo, un problema soprattutto tra gli anziani, quasi la metà dei quali vive al di sotto della soglia di povertà. I giovani hanno i loro problemi, tra cui la coscrizione militare, l’intensificarsi della pressione accademica e l’incredibile disoccupazione (a partire dal 2020, il tasso di disoccupazione giovanile era del 22%). I giovani coreani hanno coniato un termine per questa società fatta di forte stress e opportunità limitate: «L’inferno Joseon», in riferimento alla dinastia rigidamente gerarchica Joseon che la Corea moderna avrebbe dovuto lasciarsi alle spalle.
Mentre milioni di coreani comuni lottano per sopravvivere, le élite del paese mantengono il pugno di ferro sull’economia. L’economia coreana opera sulla base dei chaebol, conglomerati aziendali in mano a poche famiglie ricche e potenti. Un tempo elogiati per aver sollevato la nazione dalla povertà, i chaebol ora agiscono come l’epitome del capitalismo monopolistico in Corea del Sud, pieno di corruzione ma immune dalle conseguenze. Il più grande chaebol del paese include Samsung, il cui Ceo Lee Jae-yong è stato scarcerato nell’agosto 2021 dopo aver scontato solo metà della sua condanna a due anni per corruzione e appropriazione indebita. Per giustificarne la scarcerazione, il governo sudcoreano ha menzionato l’importanza di Lee per l’economia del paese.
L’estrema disuguaglianza della Corea è il tema centrale di Squid Game. Nella serie, un gruppo di concorrenti pieni di debiti compete in una varietà di giochi per bambini, da Red Light, Green Light ai tradizionali ppopgi coreani, per 38 miliardi di Krw (Korean Republic Won, circa 38 milioni di dollari). C’è solo un problema: in ogni partita si gioca fino alla morte. I giocatori che falliscono vengono uccisi sul posto, il rischio di eliminazione aumenta a ogni round. Ogni volta che un giocatore viene ucciso, il montepremi cresce, rappresentato graficamente in un gigantesco salvadanaio levitante dentro al dormitorio dei giocatori.»[3]
Dalla Corea del sud torniamo in Europa, sempre per cercare di fornire un minimo di istruzione agli utili idioti di estrema sinistra del capitalismo reale.
«In questa situazione, sono allignate zone fiscalmente protette (paesi con sistemi fiscali “leggeri”, senza grande spesa pubblica, che attraggono capitali e non solo). Uno dei maggiori è il Lussemburgo, ma in questi giorni è entrata nel mirino l’Olanda, con le sue posizioni anti-solidali rispetto allo stanziamento di risorse massicce per sostenere quei paesi maggiormente colpiti e che devono essere sostenuti dall’UE per evitare il collasso, a cui è stata contestata la sua politica “concorrenzialmente sleale” sul piano fiscale: infatti, con livelli minimi di tassazione e la burocrazia ridotta al minimo, l’Olanda attrae capitali sul libero mercato finanziario a vantaggio dei suoi istituti bancari, ma anche aziende che trasferiscono la propria sede da altri paesi, non tanto per la produzione, quanto per i vantaggi fiscali. All’interno dell’UE, insomma, l’Olanda esercita una concorrenza fiscale spietata; questa politica spregiudicata, basata su un Welfare State di impronta liberal più che socialdemocratica, diretta ad una popolazione numericamente ristretta che gode di salvaguardie sociali notevoli, poggia sul presupposto originario di una struttura economico-commerciale ben organizzata e ramificata, che attrae ricchezza costantemente. Nonostante le politiche fiscali olandesi colpiscano anche la Germania (partner commerciale più importante dei Paesi Bassi con un fatturato di esportazione di quasi 80 mld di euro nel 2018), quest’ultima tollera il drenaggio fiscale (circa 20 mld annui) conseguente allo spostamento delle sedi fiscali di aziende tedesche in Olanda, per mantenere un rapporto commerciale comunque fortemente in attivo e una salda alleanza politica che consente di mantenere a suo favore i rapporti di forza tra gli Stati membri all’interno dell’Unione.
La Commissione Europea, che ultimamente ha iniziato ad analizzare le politiche fiscali dei paesi dell’UE, ha rilevato una concorrenza sleale da parte di alcuni stati, definiti come “fiscalmente aggressivi”, come Olanda, Cipro, Malta, Ungheria, Lussemburgo e Irlanda (a cui si aggiunge la Svizzera, formalmente fuori dall’UE, ma uno dei nodi di questo sistema). Questi paesi offrono agevolazioni burocratiche e fiscali a multinazionali per attrarre le sedi legali: una tale procedura nasconde una politica cripto-imperialista, di stampo liberista, che approfitta dello spazio comune del mercato europeo per saccheggiare innanzitutto i paesi vicini. Paesi solidi come la Germania e la Francia preferiscono chiudere un occhio, per mantenere il notevole livello di affari, mentre paesi come l’Italia, la Spagna, il Portogallo o la Grecia subiscono pesantissimi danni in termini economici, ma anche commerciali, da queste politiche fiscali sleali, proprie di un capitalismo putrescente che fa profitti, oltre alla speculazione finanziaria, alleggerendo il peso fiscale.
Rimettere in discussione i trattati europei per rovesciare i principi liberisti a fondamento dell’UE è un obiettivo necessario per aprire una nuova prospettiva storico-sociale.
I soldi, si sa, non puzzano: per ottenere un accesso al credito, a finanziamenti da parte dello Stato, agevolazioni fiscali o quant’altro qualunque azienda è disposta a tutto, o quasi: sicuramente, per ottenere aiuti, sostegno, tagli alle tasse, è disponibile a restituire in cambio solo briciole quando invece neppure quelle. Così dopo aver per decenni scaricato sul sistema italiano le perdite (cassa integrazione, tagli occupazionali, prepensionamenti, pensioni d’invalidità ecc.) la FIAT del poco compianto (su questo piano) Marchionne ha abbandonato il Belpaese per volarsene in Olanda e da lì avviare una serie di operazioni spregiudicate per allargare l’impianto industriale e trovare una collocazione sul mercato mondiale con Chrisler e (forse) PSA/Peugeot. In questo modo, l’ex FIAT ora FCA ha di fatto sottratto miliardi al fisco italiano, concorrendo alla distruzione dello Stato sociale (tra cui quello del Sistema Sanitario Nazionale pubblico) devastato da tagli imposti per inseguire un pareggio di bilancio impossibile in un libero mercato selvaggio. Tutto legale, per carità: a dimostrazione che la legge della classe dominante, dei padroni, è priva di qualunque giustizia sociale, di visione etica della società, come invece qualche anima bella del “capitalismo dolce”, compatibile o etico, vorrebbe presentare come realizzabile; il capitalismo, per sua natura, è predatore e selvaggio e gli unici argini (parziali e provvisori, senza la transizione a un sistema socialista, in cui la proprietà privata è collettivizzata) possibili sono conquistati dalle lotte delle classi lavoratrici, non da riforme o “concessioni” padronali.»[4]
Ripassando per l’Asia, nessun dubita inoltre che l’attuale formazione economico-sociale del Giappone rientri a pieno titolo nel concetto teorico di capitalismo di stato: il capitalismo di stato nipponico vede, oltre alla partecipazione diretta delle banche alla proprietà delle grandi imprese private, denominate keiretsu, e alle compartecipazioni azionarie incrociate tra le diverse filiali di uno stesso monopolio privato, anche un forte intervento statale, in caso di crisi produttive globali.
Con l’acuirsi della guerra fredda, infatti, gli Stati Uniti consentirono al capitalismo giapponese di ricostituire i monopoli prebellici (zaibatsu) «rinominandoli keiretsu, alcuni continuazione dei vecchi zaibatsu, altri di nuova costituzione. Il keiretsu è un conglomerato a integrazione orizzontale o verticale (v. integrazione industriale) di imprese industriali, commerciali (v. per queste ultime: sogo shosha) e spesso di una banca che funge da finanziatore del gruppo. A lungo non è stato, infatti, volutamente introdotto in Giappone il principio di separatezza tra banca e industria, comune nei Paesi progrediti (solo nel 1997 è stato posto un tetto al 5% della partecipazione delle banche alle imprese industriali). La presenza di una banca costituisce la principale differenza tra il keiretsu e il chaebol coreano, che pure è stato costruito a imitazione del modello giapponese. L’evoluzione ha portato a differenti forme di keiretsu. La principale è il keiretsu finanziario, il più evoluto e di cui fanno parte le Big six, sei gruppi a integrazione orizzontale con al centro una grande banca. Tre di esse sono ex zaibatsu (Mitsui, Mitsubishi and Sumitomo) e tre (Sanwa, Fuyo and Dai-IchiKangyo) sono di nuova costituzione, avvenuta dopo la guerra. Di regola questi trust hanno una sola impresa per ogni settore di attività per avvantaggiarsi di economie di scale ed evitare la concorrenza infragruppo. Caratteristica delle Big six è il President’s club, sorta di consiglio dell’alta direzione che decide e coordina le strategie del gruppo. Una seconda forma è costituta dal keiretsu di distribuzione (distribution keiretsu) a integrazione verticale per controllare l’intero flusso di beni e servizi dalla produzione al consumatore (B2C). Solitamente sentono meno l’influenza delle banche e sono più piccoli di dimensione rispetto ai keiretsu orizzontali e sovente sono inseriti in essi, ma con autonomia gestionale. Il segreto dell’efficienza di questa struttura sta nel ricorrere a una rete di sub-fornitori che opera come un buffer nei periodi sfavorevoli del ciclo economico (nelle grandi compagnie i dipendenti hanno un diritto alla stabilità del posto a vita, mentre le piccole imprese licenziano e assumono secondo l’andamento della domanda). Una terza forma è il keiretsu manifatturiero (manufacturers keiretsu) che organizza integrandola verticalmente una piramide di fornitori e di sub-appaltatori captive (che costituiscono il buffer del gruppo per i periodi sfavorevoli) di prodotti intermedi e di produttori di beni in un’unica struttura (Toyota, Nissan, Honda-Matsushita, Hitachi, Toshiba, Sony). Esistono anche altre forme, basate anche su cartelli tutti perfettamente leciti in Giappone dove è ferma la convinzione che il keiretsu assicuri la piena occupazione e la sicurezza delle nazione e distribuisca i rischi».[5]
Nessun finto tonto dell’estrema sinistra può altresì negare alla Svizzera la patente di capitalismo monopolistico di stato: e cosa sta succedendo, nel 2023, nella verde e ridente patria di Guglielmo Tell e del Credit Suisse?
«BFI, la banca finanziaria e di investimento di Credit Suisse è all’origine dei mali che sembrano avere segnato il destino dell’istituto nato nel 1856». Non lascia spazio a dubbi il titolo di un recente articolo del quotidiano francese Les Echos su quale sia da una parte l’origine della crisi del colosso elvetico. Dall’altra il punto più delicato delle discussioni circa la sua eventuale acquisizione da parte di UBS e le garanzie che quest’ultima ha chiesto alle autorità per procedere con l’operazione.
Secondo l’analisi, per UBS era «fuori questione assorbire interamente questa divisione, dove potrebbero rimanere ancora scheletri nell’armadio». Una divisione al centro di buona parte della «inverosimile serie di scandali» che ha colpito Credit Suisse negli ultimi anni. La BFI ha «largamente contribuito alle perdite da 1,7 miliardi e 7,3 miliardi di franchi registrate dal gruppo nel 2021 e 2022». Una situazione strettamente legata alla crisi di fiducia delle ultime settimane, che ha portato moltissimi clienti a ritirare i propri risparmi. Aggravandone le difficoltà.
Cosa sarebbe successo se la banca commerciale e quella di investimento fossero state separate?
In pratica, quindi, la banca di investimento si lancia in operazioni rischiose, per non dire di peggio, e registra enormi perdite. I clienti della banca commerciale non si fidano più e tolgono i propri soldi, esasperando le difficoltà. Le cose sarebbero potute andare diversamente? Se banca di investimento e banca commerciale fossero state due entità separate, non si sarebbe evitata la situazione attuale?
Ne abbiamo parlato innumerevoli volte. Dopo la crisi del 2008, la Commissione europea incaricò una commissione di esperti di studiare quali regolamentazioni fosse necessario adottare per evitare il ripetersi di un disastro paragonabile a quello scatenato con la bolla dei subprime. Nel rapporto della Commissione Liikanen, dal nome del governatore della Banca Centrale della Finlandia che la presiedeva, al primo posto tra le riforme da intraprendere figurava la separazione tra banche commerciali e di investimento.
Non è una proposta nuova: il Glass Steagall Act.
Non è certo una proposta nuova o mai applicata prima. Uno dei peggiori impatti della crisi del 1929 derivò dal fatto che le banche giocavano in Borsa con i risparmi depositati dai clienti sui conti correnti. Quando scoppiò la crisi, si scoprì che tali risparmi si erano volatilizzati. Pochi anni dopo venne approvato Il Glass Steagall Act, una normativa che separava le banche commerciali da quelle di investimento. Le prime sono le banche che utilizziamo quotidianamente, e alle quali venne proibito di realizzare operazioni rischiose sui mercati. Chi voleva farlo, come le banche di investimento, non poteva aprire conti correnti.
Tale normativa venne indebolita e poi abrogata tra gli anni ‘80 e ‘90, sulla spinta della deregolamentazione neoliberista. Dando così vita ai conglomerati too big to fail, ovvero troppo grandi per fallire senza minacciare l’intero sistema economico. Una situazione che di fatto permetteva a questi istituti di ricattare i governi in caso di crisi. Costringendo le autorità a mettere in campo enormi piani di salvataggio. Anche senza arrivare a crisi conclamate, chi apre un conto corrente si assume inconsapevolmente i rischi legati alle operazioni di investimento, ma non partecipa agli eventuali profitti.
«Una delle più feroci azioni di lobby intraprese dall’industria bancaria»
Per anni le reti della società civile hanno chiesto a gran voce che tale misura fosse reintrodotta. Una richiesta che dopo il 2008 e la peggiore crisi finanziaria della storia recente sembrava avere preso piede. Come detto gli esperti nominati dalla stessa Commissione europea l’hanno messa al primo posto tra le misure da introdurre per regolamentare la finanza.
A seguito del rapporto Liikanen partono in Europa anni di studi, discussioni, proposte, per arrivare a un clamoroso nulla di fatto. Nel 2017 la proposta viene abbandonata. Il Financial Times, che difficilmente si può accusare di essere nemico dei mercati finanziari, scrisse apertamente che «Bruxelles ha riconosciuto la sconfitta» dopo «una delle più feroci azioni di lobby intraprese dall’industria bancaria».
A pochi anni di distanza, eccoci di nuovo qui. Tutti a stracciarsi le vesti per la crisi di Credit Suisse, le autorità per l’ennesima volta pronte a mettere delle toppe miliardarie per salvare il salvabile, dichiarazioni a raffica sul fatto che il sistema è sano e non esiste rischio di contagio.
Occorre fermare il casinò della finanza.
Il sistema non è sano. È un gigantesco casinò fondato sul principio di privatizzare i profitti e socializzare le perdite. Che spinge manager e dirigenti a un vergognoso azzardo morale: se vinco mi tengo il malloppo, se perdo posso ricattare gli Stati e ripartire come se nulla fosse successo.»[6]
Focalizzando l’attenzione sugli Stati Uniti in questa panoramica planetaria, l’inizio del 2020 «ha mostrato una vera e propria orgia di aiuti statali e parastatali (quali le banche centrali degli USA, dell’Europa e del Giappone) a favore delle grandi imprese private, dei “too big to fail” delle metropoli imperialistiche, demolendo e ridicolizzando – come durante la gravissima crisi economica e finanziaria del 2007-2009 – per l’ennesima volta la logora favoletta relativa alle presunte virtù taumaturgiche del libero mercato e della sua presunta “mano invisibile”. Molto visibile e concreta, viceversa, si è rilevata la “mano” e la pratica politico-economica dell’amministrazione Trump, a favore della finanza e dei grandi trust statunitensi.
Secondo Fabio Scacciavillani, professore di economia e commercio alla Luiss di Roma, il ruolo della banca centrale negli USA è di «garantire i profitti della Borsa», piuttosto che di «assicurare la stabilità dei prezzi».
Scrivendo il 15 aprile segnala l’immissione nei mercati di circa 1,6 trilioni di dollari fino a quella data, una cifra destinata a raggiungere e probabilmente superare i 2 trilioni. La parte più furba della borghesia ne ha approfittato per inserire una serie di obbligazioni spazzatura per alleviare i propri conti. In pratica la Fed partecipa al salvataggio delle aziende in crisi con denaro pubblico. Quanto era stato preconizzato in maniera celata qualche settimana prima, candidamente perfino in un sito come Wallstreet.it («l’impressione è che è più probabile che, messi alle strette dalla situazione di breve, politici e banchieri centrali facciano troppo, piuttosto che troppo poco»), diventa così realtà empirica. Altro che impedire che le piccole aziende chiudano… Si è parlato del «più grande bailout della storia». Per Scacciavillani «è il vecchio schema di privatizzazione dei profitti e socializzazione delle perdite», di cui approfittano in particolar modo le compagnie petrolifere, già favorite da una «politica monetaria dissennata» tesa a garantire «l’indipendenza energetica americana».[7]
Nel calderone dei regali di Stato non potevano infatti non rientrare le big companies del petrolio. Ha aperto le danze la richiesta pubblica fatta alla CNN da Mike Sommers, CEO della più grande lobby americana del settore, la American Petroleum Institute. Sommers ha auspicato che anche le industrie dell’Oil & Gas «abbiano accesso alla liquidità di cui hanno bisogno per sopravvivere alla crisi». Trump non si è tirato indietro, terrorizzato dai dati che parlano di 533 compagnie che rischiano di fallire di qui ad un anno. Il Segretario dell’Energia Dan Brouillette e il collega del Tesoro Steven Mnuchin erano in realtà già al lavoro da tempo sul progetto di includere le lobby del petrolio nel programma di prestiti CARES, valutando ulteriori supporti futuri.[8]
Per quanto notevoli in riferimento ai numeri europei, si perdono come gocce nel mare i 19 miliardi di dollari annunciati in aiuto al settore agricolo, che a inizio maggio aveva già perso un valore di 5 miliardi di dollari per frutta e verdura fresca invenduta.[9] Essi appaiono una misura ad hoc per prevenire il malcontento delle campagne, per quanto si possa immaginare che i maggiori beneficiari saranno le “multinazionali del cibo”.
Ad essere “salvati” sono anche i colossi dei trasporti aerei, evidentemente strategici per ragioni militari. Il segretario di Stato Steven Mnuchin riesce perfino a ringraziare i «dieci colossi americani» che hanno accettato denaro pubblico. Alle multinazionali vengono posti vincoli sociali propedeutici a mantenere «l’importanza strategica dell’industria aerea»: «i fondi a disposizione devono essere usati per pagare i dipendenti e alle compagnie che li accettano è vietato effettuare forti tagli dell’occupazione o dei salari fino a settembre. American Airlines dovrebbe ricevere 5,8 miliardi di dollari mentre la SouthWest 3,2 miliardi».[10] Il complesso di aiuti per il settore ammonterebbe per ora a circa 25 miliardi di dollari, il 30% dei quali sotto forma di prestiti a tasso agevolato, il che lascia pensare che la quota maggiore consista di sussidi a fondo perduto, nonostante il Sole 24 Ore paventi la possibilità di una partecipazione del governo nel capitale attraverso la vendita obbligata di pacchetti azionari, a titolo di “garanzia”.[11]»[12]
La sinistra antagonista occidentale che detesta l’attuale modello socioproduttivo e politico-sociale cinese mostra e rivela infine la sua finta ignoranza non tenendo in alcun conto, nelle sue analisi, il complesso militar-industriale statunitense analizzato persino dal presidente americano Donald Dwight D. Eisenhower nel 1961, portando alla luce lo stretto intreccio e connessione ormai creatosi da decenni tra appalti pubblici del Pentagono e profitti privati immessi dalle multinazionali del settore a partire da McDonnel Douglas, Lockeed Martin, Boeing e Raytheon.
Si tratta di una continua orgia di accumulazione privata tramite e grazie ai soldi pubblici, baccanale che continua anche nel 2023 e in una spirale crescente.
«Un nuovo record viene stabilito negli Stati Uniti per quanto riguarda la spesa militare per il prossimo anno. Infatti il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha firmato il National Defense Autorización Act, che stabilisce il bilancio della difesa per il prossimo anno fiscale: un totale di 858 miliardi di dollari per i programmi di difesa del Pentagono e di altri dipartimenti, come il programma nucleare supervisionato dal Dipartimento dell’Energia sono stati stanziati per il prossimo anno.
Questa somma, che rappresenta un aumento del 10% rispetto all’anno precedente, diventa così la più grande cifra per spese militari mai stanziata nella storia degli Stati Uniti, superando gli 813 miliardi del bilancio richiesto da Biden per affrontare l’effetto dell’inflazione.
La legge è stata approvata questo mese dal Senato – con 83 voti a favore e 11 contrari – e dal Congresso, dove è stata sostenuta da 350 deputati contro 80.
Ogni commento credo sia superfluo, ma ricordate che lo Zio Sam lotta per la libertà dei popoli per garantirci la pace mondiale … sono o no loro gli eletti da Dio sull’alto della montagna per guidare gli altri popoli del mondo.»[13]
Anche Ruchir Sharma, presidente del Rockefeller Institute, sia e accorto lucidamente dell’importanza dei salvataggi statali periodici di grandi banche e imprese private statunitensi durante gli ultimi quattro decenni notando che” sebbene i primi anni ’80 siano visti come un momento cruciale di un più massiccio ritiro del governo, in realtà quest’era è stata contrassegnata dall’ascesa della cultura del salvataggio, come dimostra la crisi della Continental Illinois, la prima banca statunitense ritenuta troppo grande per fallire”. Che fu salvata da un intervento statale, ricorda.
“[…] Il primo salvataggio preventivo è arrivato alla fine degli anni ’90, quando la Fed è intervenuta a sostegno di un hedge fund molto legato ai mercati esteri, per evitare la minaccia di una crisi finanziaria sistemica”.
“Questi salvataggi impallidiscono a fronte di quelli del 2008 e 2020, quando la Fed e il Tesoro hanno infranto i record precedenti per migliaia di miliardi di dollari, creati o concessi in prestiti e salvataggi in favore di migliaia di società finanziarie e altri settori, in patria e all’estero”.
“[…] I rischi non sono solo morali o speculativi, come molti insistono: sono pratici e presenti. I salvataggi hanno portato a una massiccia destinazione errata del capitale e a un aumento del numero di aziende zombi, che contribuiscono notevolmente all’indebolimento del dinamismo e della produttività delle imprese”.
“[…] Invece di ridare energia all’economia, la cultura massimalista del salvataggio sta gonfiando e quindi destabilizzando il sistema finanziario globale. Man mano che la fragilità cresce, ogni nuovo salvataggio rafforza le possibilità di una successiva crisi”.[14]
La variegata rete di strutture pubbliche tese alla privatizzazione dei profitti e alla socializzazione delle perdite opera anche nel settore energetico occidentale, dominato da multinazionali in larga parte di proprietà di azionisti privati.
Le cinque maggiori compagnie dell’oil&gas hanno accumulato la cifra record di 200 miliardi di profitti nel 2022 e non intendono reinvestirla per la transizione alle rinnovabili
Mentre in Ucraina imperversa la guerra, la crisi climatica si aggrava ogni giorno che passa e i cittadini di tutto il mondo faticano a pagare le bollette, i colossi dell’oil&gas collezionano profitti stratosferici. Exxon Mobil ha stabilito il record storico di tutta l’industria fossile occidentale, con 56 miliardi di dollari nel 2022 (più del doppio dell’anno precedente). Poi, in ordine decrescente, Shell 39,9 miliardi, Chevron 36,5 miliardi, TotalEnergies 34 miliardi, British Petroleum 28 miliardi. Anche l’italiana Eni ha raddoppiato i suoi profitti nel 2022, raggiungendo 20,4 miliardi di euro. Non risulta che questi introiti verranno impiegati per promuovere la transizione energetica alle rinnovabili, visto che il 79% degli investimenti tecnici del cane a sei zampe riguarda solo il comparto “exploration & production”, ovvero l’esplorazione e lo sfruttamento di giacimenti fossili in tutto il mondo.
“La gran parte di questi profitti andrà in forma di dividendi e riacquisto di azioni proprie a vantaggio degli azionisti, per il 70% privati”, denunciano Recommon e Greenpeace, che definiscono la situazione “doppiamente oltraggiosa”, in quanto oltre ad incamerare utili astronomici, Eni “continua a destinare gran parte dei propri investimenti a quelle stesse fonti fossili che hanno causato e alimentano la crisi climatica”.
Anche il presidente degli USA Joe Biden, durante il suo discorso sulla Stato dell’Unione a inizio febbraio, ha definito “oltraggiosi” i super profitti dei cinque maggiori colossi del fossile, che hanno raggiunto i 200 miliardi di dollari nel 2022. E gli investimenti per la transizione energetica possono ancora aspettare: anche Exxon Mobil, Chevron, BP, Shell e TotalEnergies hanno già confermato che la maggior parte degli utili sarà destinata a riacquisti di azioni e dividendi.
Come sottolinea il Guardian, “i 200 miliardi di dollari di profitti equivalgono a circa cinque volte il budget annuale degli Stati Uniti per gli aiuti all’estero, o a circa il doppio di quanto i Paesi di tutto il mondo hanno stanziato per l’assistenza militare e umanitaria all’Ucraina l’anno scorso”.
Eppure basterebbe poco perché i colossi energetici cominciassero almeno a fare la propria parte per ridurre le emissioni. Secondo il Global Methane Tracker 2023, ci vorrebbe meno del 3% dei profitti maturati l’anno scorso per realizzare gli investimenti tecnologici e infrastrutturali necessari a ottenere una riduzione del 75% delle perdite di metano che quest’industria provoca lungo la filiera.
Di fronte alle cifre da capogiro, il tentativo incespicante dei governi di tutto il mondo di tassare gli extraprofitti delle fossili – dall’Italia, alla Gran Bretagna, alla Spagna e la Germania – si scontra con il rifiuto dei colossi energetici, che tacciano queste imposte di incostituzionalità. In Italia a seguito della tassa una tantum introdotta dal governo Draghi del marzo del 2022, ci si aspettava di raccogliere 10,5 miliardi, ma alla fine lo Stato ne ha incassati poco più di uno perché molte aziende si sono rifiutate di pagare.
Da un anno ormai la battaglia dei giganti fossili contro le tasse sui loro mega utili continua nei tribunali di tutta Europa. Di recente, la compagnia spagnola Repsol ha annunciato che aprirà un contenzioso contro il governo Sanchez per l’imposta introdotta in via temporanea per banche e aziende energetiche, chiedendo alla Corte Suprema di Madrid di annullarla perché violerebbe le leggi sulla concorrenza dell’UE. Ma è solo l’ultima di una serie, che ha visto ad esempio l’anno scorso muoversi il gigante ExxonMobil, facendo causa all’Unione Europea per la nuova tassazione imposta da Bruxelles alle aziende energetiche sul 33% degli utili (qualora superino di almeno il 20% quelli medi del periodo 2018-2021).
Aziende fossili multinazionali e plurimiliardarie fanno causa agli Stati, mentre quegli stessi Stati continuano a sussidiare i loro prodotti. Perché sì, in tutto questo, nel mondo sta proseguendo senza sosta la spesa dei governi in sussidi alle fonti fossili: l’IEA ha stimato che sono stati stanziati mille miliardi di dollari di sussidi ai combustibili fossili, il doppio rispetto al 2021.
Questi sussidi riguardano soprattutto i Paesi emergenti, ma anche gli Stati europei sono stati costretti a introdurre misure contro i rincari, sostenendo indirettamente l’acquisto di combustibili fossili. In totale, oltre ai mille miliardi di euro di sussidi, ci sono altri 500 miliardi di dollari che i governi di tutto il mondo, soprattutto le economie avanzate, hanno stanziato per calmierare i costi delle bollette, di cui 350 in UE. Tra questi provvedimenti ci sono stati le riduzioni di tasse e imposte (come l’iva ridotta sul gas o i tagli alle accise sui carburanti) e sostegni alle imprese energivore. Senza contare che sembra sempre essere valida la regola di privatizzazione degli utili e socializzazione delle perdite, come ha dimostrato anche la recente nazionalizzazione di EDF alla fine del 2022 in Francia, il principale operatore energetico d’oltralpe, in grosse difficoltà a causa degli interventi di manutenzione e restauro dei reattori nucleari.
Insomma, il quadro non è roseo, ma per fortuna c’è almeno un fatto accertato: le rinnovabili stanno correndo in tutto il mondo, facendo la loro parte nella lotta al cambiamento climatico. Nel 2022 la produzione europea di elettricità da rinnovabili ha superato quella da gas per la prima volta e un recente report IEA ha mostrato che le emissioni globali di CO2 legate all’energia sono aumentate di meno dell’1% nel 2022 – meno di quanto si temeva inizialmente: questo solo grazie alla crescita galoppante di solare e eolico, sommata agli interventi di efficienza energetica.[15]
I furbetti della sinistra “antagonista” di matrice anticinese riescono persino a simulare inconsapevolezza e analfabetismo riguardo alle lezioni del conservatore repubblicano D. Eisenhower pur di salvare i loro feroci, permanenti e ininterrotti attacchi contro la Cina prevalentemente socialista e il suo nucleo dirigente, il partito comunista cinese: alla cui direzione si trova un marxista convinto ed entusiasta come Xi Jinping, “fatto testardo” (Lenin) ed elemento indiscutibile riconosciuto anche dall’ex-premier australiano Kevin Rudd, in un suo recente articolo intitolato in modo significativo “Il ritorno della Cina Rossa”. [16]
Note :
[1] D. Burgio, M. Leoni e R. Sidoli, “Xi. Il pensiero di Xi Jinping come marxismo del XXI secolo”, ed. Lantidiplomatico
[2] Controcorrente: la privatizzazione nazista nella Germania degli anni ‘30”, in
psicologiadellemassedelfascismo.files.wordpress.com
[3] C. Clarck, “Squid Game è il capitalismo”, 18 ottobre 2021, in jacobinitalia.it
[4] G. Bruno, “Pubblicizzare i profitti e non le perdite nell’UE: il caso Fca/Fiat”, 24/05/2020, in lacittafutura.it
[5] “Keiretsu”, in bankpedia.org
[6] A. Baranes, “Credit Suisse e la separazione tra banca commerciale e d’affari. Chi l’avrebbe mai detto?”, 24.03.2023, in valori.it
[7] F. Scacciavillani, La Fed fa Indigestione di Obbligazioni Spazzatura, Immoderati.it, 15 aprile 2020.
[8] M. Orloles, Tutti i piani allo studio di Trump per non far affondare l’industria Usa del petrolio, Startmag.it, 22 aprile 2020.
[9] Redazione Agricolae.it, USA, filiera in crisi. Agricoltori gettano latte, frutta e verdura, soppressi suini e polli. Trump: pronti aiuti per 19 mld, Agricolae.it, 4 maggio 2020.
[10] Redazione La Stampa, Coronavirus, così Trump salva le principali compagnie aeree americane, La Stampa (web), 15 aprile 2020.
[11] Redazione Lagenziadiviaggi.it, Usa, il super fondo di Trump salva 10 compagnie aeree, Lagenziadiviaggi.it, 16 aprile 2020.
[12] A. Pascale e R. Sidoli, “Politica-struttura e socializzazione delle perdite”, in sinistrainrete.it
[13] A. Puccio, “Biden ha aumentato del 10 per cento le spese per gli armamenti. L’amministrazione USA è succube del complesso militare-industriale”, 30/12/2022, in farodiroma.it
[14] “Rockefeller International lancia l’allarme: a rischio il capitalismo”, 2 aprile 2023, in lantidiplomatico.it
[15] “Gli utili stratosferici delle aziende fossili e la transazione ancora rimandata, 15 marzo 2023 ,in Enostra.it
[16] K. Rudd, “The return of Red China”, 9 novembre 2022, in foreignaffairs.com
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