di Marco Piccinelli
La storia dell’ILVA, e in particolar modo dello stabilimento tarantino, è una di quelle che vengono approfondite solo parzialmente e solo in determinate occasioni dalla carta stampata o dai media televisivi. Non c’è, infatti, una conoscenza globale di quel che rappresenta, davvero, il problema-ILVA da parte della maggioranza degli italiani, né si conoscono i termini della questione, del ricatto, per meglio dire, a cui sono sottoposti migliaia di lavoratori.
Per non parlare delle questioni ambientali connesse all’acciaieria. Gli attivisti di Peacelink Taranto, a tal proposito, in una lettera alla Commissione Europea, hanno riportato il proprio studio epidemiologico per aggiornare le istituzioni dell’UE sulle conseguenze dell’inquinamento legato alla cokeria: «[…] Il naftalene, fra gli IPA cancerogeni, è la principale emissione in massa della cokeria. Esso è classificato dallo IARC, l’Agenzia Internazionale Ricerca sul Cancro, fra le sostanze appartenenti al gruppo 2B, ossia fra i cancerogeni possibili. I bambini esposti al naftalene hanno mostrato segni di danno cromosomico, come riportato dalla letteratura scientifica […] L’esposizione alle polveri industriali è responsabile di un +4% di mortalità e di un incremento specifico della mortalità per tumore polmonare del +5%. Inoltre, alle polveri industriali è associato un incremento del +10% per infarto del miocardio, il che significa che tali polveri producono non solo un impatto a lungo termine (tumore polmonare) ma anche un impatto immediato in quanto gli infarti avvengono, come dimostra lo studio in oggetto, negli stessi giorni in cui si verificano incrementi di polveri sottili provenienti dall’area industriale».
Abbiamo intervistato, dunque, Antonio Ferrari, Segretario Nazionale dell’FMLU-CUB affinché spiegasse, dal principio, la vicenda legata all’ILVA di Taranto e come si è arrivati al punto in cui si è ora, in cui il passaggio di proprietà è stato annunciato ma «ancora non si conosce nel dettaglio il Piano industriale, né come si intende procedere».
Cosa sta succedendo all’ILVA e perché sono importanti le vicende ad essa collegate sotto tutti i punti di vista, da quello umano a quello lavorativo, da quello ambientale a quello sindacale?
«La situazione dell’Ilva di Taranto è molto particolare: rappresenta l’avanguardia dello sfruttamento da parte della grande fabbrica di cui in Italia poco se ne parla ma che manifesta pragmaticamente il “fin dove si può arrivare”. L’Ilva rappresenta un complesso industriale in cui, lo dico per far capire la realtà, erano impiegati quasi 11.000 dipendenti, ora ce ne sono quasi 10.000, dato che nel corso di qualche anno sono diminuiti. Solo nel 2016, fra Contratti di Solidarietà, Cassa integrazione, mobilità per 500 lavoratori, il numero di occupati è sceso già prima che si presentassero le cordate.
Fin dai tempi di Riva, ma anche quando l’azienda era statale, l’Ilva s’è caratterizzata per essere come una realtà in cui il lavoro ha rappresentato, e rappresenta tuttora, il ricatto costante per chi è occupato: stiamo parlando di una situazione in cui diecimila lavoratori, in ogni caso, devono scegliere fra il lavoro e la propria salute, dato che si trovano a produrre all’interno di uno stabilimento che ancora oggi viene definito pieno di siti altamente inquinanti, fuori da qualsiasi regola.
Si sa che la magistratura aveva bloccato diversi siti inquinanti a causa della presenza di sostanze tossiche di una certa gravità. Non esiste un’altra realtà, in Italia, per cui il lavoratore è così fortemente ricattato per il lavoro che fa: in una città dove non ci sono così grandi possibilità lavorative, l’Ilva rappresenta il luogo in cui diventa paradigmatica la frase “o lavori così, o niente”; così come è sotto ricatto anche per questioni esterne, come quelle elettorali.
Quindi si arriva al punto in cui lavori e ti ammali. E non lo diciamo noi, lo dicono anche delle importanti agenzie che hanno monitorato la situazione, testimoniando la terrificante cifra di 11.157 morti in 7 anni… È assurdo, in primis perché riguarda i lavoratori, ma anche l’ambiente circostante».
Il quartiere Tamburi ne è un esempio.
«Quartiere Tamburi è a ridosso dello stabilimento e la situazione, diciamo, non è delle migliori, per usare un eufemismo. Mi sono recato, personalmente, sia nel quartiere che nelle case di Tamburi ed è addirittura il Sindaco che promuove iniziative, di dubbia sostanza diciamo, con delibere ad hoc, per far sì che non ci sia troppo inquinamento nelle case dei tarantini del quartiere Tamburi, li chiamano ‘wind days’: ossia i giorni di vento dall’area industriale in cui la salute delle fasce della popolazione più fragile è in pericolo, come si evince dalle indicazioni precauzionali della ASL che invita ad aprire le finestre nelle ore di minore inquinamento, ovvero tra le ore 12 e le ore 18 e a non stare in strada.
La situazione non è accettabile continua a non essere accettabile dal punto di vista sanitario, prova ne è la grande quantità di donne in cui si riscontrano sempre più tracce di naftalene nelle urine, studi confermano (con riscontri scientifici evidenti) malformazioni fin dalla nascita. Dopodiché, in una circostanza di questo genere, ha sempre vinto il modo di porsi, anche sul piano sindacale e politico della dicotomia lavoratore/cittadino: da un lato il lavoratore dentro la fabbrica, ricattato perché ci tiene al suo posto di lavoro, e dall’altro i cittadini che magari vorrebbero che l’acciaieria chiudesse, dato che giorno per giorno si monitora che sempre più persone si ammalano a causa dell’acciaieria. In un contesto del genere il Sistema Sanitario non garantisce neanche le minime prestazioni specifiche. Dico questo perché, si determina che il complesso della produzione dell’acciaio (molti lì lo chiamano il mostro d’acciaio) sia marcato da quello che si chiama, all’interno dell’ILVA buoni rapporti sindacali, facendo in modo che non si interrompa la produzione, nonostante i 6000 licenziamenti annunciati nel complesso (compreso Genova), nonostante si sia poi scesi di qualche unità».
Un’uniformità fra determinate sigle sindacali e gestione dell’azienda?
«Sì, all’interno dell’Ilva ci sono CGIL, CISL, UIL e USB. In qualche incontro che ho avuto, dati i presidi che avevamo realizzato davanti la fabbrica come FMLU CUB, a seguito dell’elezione del’RSU, ci è stato detto che all’interno della fabbrica le cose sono state sempre co-gestite in maniera tranquilla e questo ha fatto sì che tutto quello che è avvenuto (i dieci decreti, il Cds, Contratti di Solidarietà per anni, Cassa integrazione, Mobilità etc) in tale modalità è stato fatto senza far uscire troppo le ‘cose’ interne dell’azienda. C’erano situazioni di lavoratori, di cittadini, che denunciavano determinati fatti, tuttavia non s’è mai agito più di tanto. Nel 2012 ci fu un “assalto” ai confederali da parte dei lavoratori che non approvavano come venivano gestite determinate cose, ma poi è stato tutto riportato nella normalità.
Si arriva, poi, al momento in cui i commissari stavano trattando per la cessione dell’enorme complesso in questione, senza neanche predisporre le bonifiche, che comunque erano state determinate e stabilite come necessarie, ma continuando di fatto a far sì che si lavorasse in un ambiente insalubre (in alcuni siti permangono ancora 3.800 tonnellate di amianto) in cui alcuni cicli produttivi continuano ad andare avanti nonostante l’evidente nocività di alcuni siti».
Come si arriva alla situazione attuale?
«Nel 2016 si arriva ai Contratti di Solidarietà. Rimanevano in piedi due cordate e conseguenti rinvii sulla svendita dell’Ilva, sulla messa in sicurezza di determinati impianti. In ottobre le organizzazioni Sindacali presenti nell’RSU (c’eravamo anche noi come FMLU CUB) vogliono andare al rinnovo delle stesse, in primis l’USB. Il rinnovo è stato chiesto nel momento in cui si prospettavano esuberi da parte di determinate cordate, non si conoscevano ancora ma si percepivano e si prospettavano come certi. Queste cose, noi come FMLU, le cominciavamo a denunciare davanti ai cancelli, in modo da condannare questi annunci, ancora molto velati, di esuberi e di mancate bonifiche di determinati siti. Succede che si va al rinnovo della RSU col nuovo sistema, quello del ’10 gennaio’».
Il famoso (e famigerato) accordo del 10 gennaio.
«Firmato anche dall’USB. Ed è stata proprio l’USB la prima organizzazione ad indire l’RSU col nuovo sistema scaturito dall’accordo del 10 gennaio. Mentre noi denunciavamo davanti ai cancelli che stavano per arrivare esuberi e condizioni molto peggiori dal punto di vista lavorativo; volantinavamo per far capire che ci sarebbe dovuta essere una lotta dura, loro dovevano preparare un terreno perché chi sarebbe stato all’interno dell’RSU avrebbe potuto gestire tutto quello che si prospettava che sarebbe accaduto.
Noi, infatti, non abbiamo firmato l’accordo del 10 gennaio. Non l’abbiamo fatto nonostante il responsabile nazionale delle relazioni sindacali ci abbia convocato subito a seguito delle nostre azioni fuori dalla fabbrica cercando di convincerci a firmare, dato che denunciavamo il metodo antidemocratico con cui venivano votate le RSU da parte dei lavoratori. L’obiettivo del convocarci sarebbe stato il naturale proseguimento della normalizzazione dei buoni rapporti sindacali che esponevo prima».
Quali azioni avete intrapreso, dunque?
«Abbiamo organizzato, invece, le votazioni fuori dai cancelli, con la partecipazione di migliaia di lavoratori: gli abbiamo spiegato la situazione dell’elezione dell’RSU, fatta ad hoc per gestire la situazione di transizione della cordata, cosicché la nuova proprietà possa avere una pletora di sindacati addomesticati che non possono contrastare le decisioni dell’azienda, quali che siano, eleggendo i nostri rappresentanti al di fuori. Nonostante questo l’Ilva non ci ha riconosciuto e comunque non ci avrebbe fatto entrare, dato che chi doveva gestire quella fase di transizione erano i sindacati che avevano sottoscritto l’accordo del 10 gennaio».
L’azienda si sceglie gli interlocutori, insomma.
«Precisamente. Ho detto tutto questo perché è centrale per la comprensione del problema-ILVA. Da ottobre 2016, in cui sono state votate le RSU (contestualmente ci siamo attivati per le RSA) e da novembre successivamente, è cominciato un susseguirsi di notizie sulle cordate finché si arriva ai primi del 2017. A febbraio viene firmata una cassa integrazione da Cgil, Cisl e Uil dove si stabiliva che ci sarebbero stati più di 3.000 esuberi, la chiusura di alcune aree (come è stato per il tubificio) e a seguito di questo sarebbe poi arrivata la cordata. Strada spianata alle nuove cordate, con tanto di tappeto rosso, per nuovi esuberi.
Subito dopo l’accordo per i contratti di solidarietà, poi, si diceva che non ci sarebbero stati esuberi mentre, tuttavia, il giorno prima della scadenza dei contratti hanno firmato la cassa integrazione (se non sbaglio il 28 febbraio) per 3.200 lavoratori, così da permettere che in gran parte dei reparti si lavori una settimana su cinque. Questo era uno dei tanti terreni su cui i sindacati interni hanno preparato assieme alla direzione per quel che subito dopo sarebbe arrivato, ovvero, la cordata vincente Arcelor Mittal-Marcegaglia (Am Investco).
Nel frattempo abbiamo continuato le nostre azioni davanti ai cancelli, tra volantinaggi e assemblee, ma s’è fatto in modo di eliminare un’organizzazione sindacale che non è accondiscendente, assieme ai più».
Poi arrivano cordata e licenziamenti annunciati, corretto?
«Sì, esatto. Iniziano a circolare i primi numeri: inizialmente si dovevano mantenere 8.500 unità con una produzione di 9,5 milioni di tonnellate di acciaio. Tuttavia le organizzazioni sindacali hanno, falsamente, alzato la voce dicendo che non avrebbero accettato licenziamenti (s’era parlato di più di 5.000 licenziamenti tutti su Taranto), ma in seconda istanza si prevedono 4.200 licenziamenti.
Ora, considerando che 3.200 sono in Cassa integrazione (e per 200 dipendenti è aperta una procedura di licenziamento collettivo con incentivi), il 5 giugno è stata annunciata la cordata vincente, i sindacati dell’ILVA hanno “reagito”, affermando che le condizioni andavano determinate prima con il sindacato. Tuttavia è stata diffusa la notizia che prima di convalidare le condizioni della cordata ci sarebbe stato, effettivamente, un incontro sindacale.
Il punto è che confederali e non, si sono limitati ad indire uno sciopero di 4 ore il 1° giugno, in cui davanti ai cancelli s’è manifestato un fatto che inquadrava la situazione: la Fiom, in particolar modo, ha fatto una proposta di andare a bloccare (una passeggiata di 10 minuti, niente di più) una superstrada nei pressi dell’ILVA, per lamentare i troppi esuberi. Dunque portare via i lavoratori (e le rivendicazioni) dalla fabbrica.
Noi, come FMLU-CUB, eravamo davanti ai cancelli, ma anzi, affermavamo che non era necessaria la risposta di 4 ore di sciopero: il presidio doveva essere permanente.
Si è trattato di uno ‘sciopericchio’, da parte della FIOM e degli altri, tanto per sfogare un po’ di rabbia e di preoccupazione che, in ogni caso, iniziava già a serpeggiare fra i lavoratori.
La conseguenza dello ‘sciopercchio’ è stata quella di indire assemblee sindacali per tutta la scorsa settimana. Ma il problema è che il piano industriale dell’AM-Investco non si conosce».
Non è stato reso noto?
«Si conoscono gli annunci del piano industriale che sono stati fatti, ci sono degli stralci e delle notizie trapelate dai giornali ma oltre non si va. Non è, dunque, leggibile in ogni sua parte: non c’è, ma se c’è significa che non è stato volutamente divulgato. Anche perché, nei dettagli, non si sa cosa trasmette e cosa prevede. Non si sa se i lavoratori (10.000) verranno assunti subito o nel tempo, quindi quanto tempo durerà la loro Cassa integrazione; non si sa in quanto tempo si arriverà a produrre quelle migliaia di tonnellate di acciaio di cui parlavo prima. Le bonifiche, poi, verranno fatte non prima del 2023.
Ci saranno delle sorprese, come annunciamo da tempo, e come affermano i ministri a riguardo: ci saranno due compagnie, ‘l’Ilva nuova’ e una ‘new company’ che prenderà in carico i 4.500 esuberi per professionalizzarli. Tuttavia non si capisce per fare cosa.
Dal 2016 ad oggi si sono già persi 700 posti di lavoro. Non uno scherzo».
La risposta a tutto questo?
«Presidio davanti alle portinerie fino a che non arrivano risposte chiare. Rivendichiamo: la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, perché è possibile; che non ci sia nessun esubero e che gli operai siano messi in condizione di lavorare in un ambiente sano e non insalubre come ora, dunque che si facciano subito le bonifiche.
Gli stessi lavoratori potrebbero essere impiegati nelle bonifiche, così che l’operaio stesso monitori se le stesse vengano effettivamente realizzate».
Anche perché la questione lavoro/salute a Taranto è primaria.
«Assolutamente, ma ci deve essere anche un piano che fermi immediatamente i siti inquinanti per i lavoratori e per i cittadini attorno alla fabbrica, con bonifiche effettuate grazie ai lavoratori, come dicevo prima. La bonifica del territorio è vitale ma come anche è necessario un piano straordinario per il diritto alla cura di tutti i cittadini dell’area: una situazione di questo genere è più che esplosiva, dato che l’aumento di malattie è esponenziale ed avviene continuamente tra i lavoratori, i quali spesso scoprono di avere un tumore ‘per caso’, perché vanno a farsi delle analisi per scrupolo dato che c’è andato il collega prima di lui».