Intervista raccolta dai compagni del Partito Comunista Sezione “Perugia /Altotevere” agli Operatori Sociali Autorganizzati
Perugia, 25 settembre 2018
Abbiamo incontrato gli Operatori Sociali Autorganizzati, un gruppo di lavoratori in vertenza con ARCIsolidarietà Ora d’aria, associazione che si occupa di accoglienza di immigrati e richiedenti asilo in Umbria, più nello specifico nel territorio perugino. Ci hanno spiegato le ragioni della loro vertenza contro ARCI, la volontà di denunciare un sistema consociativo omertoso e tendente all’autoassoluzione ed il loro progetto di socializzare la loro esperienza per dar vita ad un embrione di sindacalismo di classe.
Come eravate inquadrati in ARCI?
In realtà all’inizio era tutto molto aleatorio, ti dicevano di iniziare a lavorare e poi si vedrà… Nel momento in cui ti veniva proposto un contratto, l’inquadramento era fino al 2015 come co.co.pro. e dal 2015 in poi come co.co.co. Il compenso era stabilito in base al numero di migranti che ogni operatore gestiva. C’erano proprio delle fasce di utenza: dai 20 ai 30, dai 30 ai 40 e dai 40 in su, senza un limite superiore. Il massimo di stipendio percepibile era sui 1000/1050 €, ma a quel punto che gestissi 40 o 60 migranti non faceva alcuna differenza sulla retribuzione, mentre nel nostro lavoro quotidiano la faceva eccome! Il fatto di seguire così tante persone quotidianamente non ci permetteva di svolgere al meglio il nostro lavoro e di seguire questi ragazzi come era giusto e come avremmo voluto. Sappiamo di altri operatori sociali in altre parti d’Italia che con la stessa cifra sono chiamati a seguire 10/15 persone.
Quindi questo modello è applicato solo qui a Perugia?
Diciamo che questa modalità, con retribuzione in base alle varie fasce di utenza, è un unicum nel centro Italia, anche rapportato a realtà vicine e simili.
E questo a cosa è dovuto? All’eccessivo numero di immigrati che ARCI si è trovata ad accogliere?
Credo che il grande numero di migranti che ARCI ha accettato di gestire, con i relativi costi e benefici, sia una scelta che ha portato ARCI a gestire il proprio personale con queste modalità qui: quando devi accogliere oltre mille persone in brevissimo tempo, quindi con un’elasticità di manodopera elevata, forse questa è l’unica modalità con cui riuscivano a reperire lavoratori e fare contratti che gli permettevano anche dopo due o tre mesi di disdire il tutto o non rinnovare, senza avere un peso eccessivo sul bilancio.
Quindi, come si legge anche nel vostro comunicato, voi svolgevate lavoro a tutti gli effetti come dipendenti, senza le tutele che un rapporto di lavoro subordinato porta con sé.
Noi non avevamo diritto a giorni di malattia, nessun tipo di indennità, niente tredicesima, quattordicesima o TFR, niente indennità di disoccupazione intesa come Naspi, avevamo diritto solo alla DisCol nel caso di perdita del lavoro. Ufficialmente non avevamo giorni di ferie, ma i nostri responsabili di volta in volta ci chiedevano di organizzare una turnazione, nei periodi di festa.
Questo è anche dimostrato con documentazione acquisita agli atti, perché in realtà se c’è un punto fermo nei rapporti di co.co.co. è proprio il non dover chiedere ferie a nessuno e il poter organizzare il lavoro autonomamente. E in realtà noi avevamo giorni prestabiliti e orari prestabiliti in cui dovevamo presentarci al lavoro, quindi era di fatto un lavoro da dipendenti, anche se non lo hanno ma riconosciuto come tale.
Nel caso degli operatori non impiegati nelle strutture di accoglienza ma preposti ad accompagnare gli utenti di fronte alle varie istituzioni (ASL, questura, Comune…), in effetti non c’erano dei veri e propri orari. Ma quando ti trovi a dover gestire un gran numero di utenti, la tua giornata è totalmente incardinata su quello. Ad esempio, l’accompagnamento dei ragazzi in questura dev’essere calendarizzato, oppure se i ragazzi devono seguire terapie particolari, la libertà di organizzazione della giornata è davvero molto limitata. Per non considerare che tutti gli operatori erano tenuti alla reperibilità notturna.
A un certo punto con i responsabili si decise che per chiamate straordinarie, notturne o comunque dopo le 18, veniva riconosciuto una sorta di straordinario. Ovviamente tutto questo era informale, non poteva essere scritto in nessun contratto. Ogni operatore alla fine del mese comunicava le proprie presenze ordinarie e straordinarie e in base a quelle veniva retribuito: è proprio qui che si genera il cortocircuito con il tipo di contratto di collaborazione che sussisteva fra noi e ARCI. Noi non eravamo lavoratori autonomi, eravamo di fatto dipendenti!
Per quanto tempo avete lavorato per ARCI?
Tutti gli operatori in vertenza hanno lavorato per ARCI per periodi che vanno dai 6 mesi ai 2 anni.
E in quanti siete ad aver fatto vertenza?
Sei persone.
Avete mai pensato, mentre ancora lavoravate, di riunirvi in un’associazione come avete fatto ora?
Diciamo che spesso il problema più riscontrato non era tanto come fosse gestito il lavoro, ma la cronicizzazione del ritardo nel pagamento degli stipendi, che era evidente anche per gli operatori con meno coscienza politica. Negli ultimi mesi ci fu un ritardo molto più evidente che determinò le prime riunioni un po’ “carbonare” a cui parteciparono tutti gli operatori. Però nel momento in cui ci sarebbe stato bisogno di uno scatto di qualità, dalle riunioni di nascosto all’uscire magari con un comunicato o con qualcosa di più politicamente consistente, alcuni soggetti si tirarono indietro, o per ingenuità, inconsapevolezza o per legami politici con i responsabili.
Qual è stata la causa scatenante della vostra vertenza?
Noi avevamo un contratto come co.co.co. fino al 31 dicembre. Solitamente questo tipo di contratto prevede un preavviso di 3 settimane per il rinnovo o la cessazione. Noi scrivemmo ad ARCI ma non ci fu risposta: lo prendemmo per un tacito rinnovo, quindi continuammo a lavorare oltre la scadenza, anche perché non è che i migranti scompaiono allo scadere dei nostri contratti! Abbiamo continuato a lavorare fino all’8 gennaio, quando ci hanno convocati tutti in riunione e ci hanno detto che non ci avrebbero rinnovato il contratto. In quel momento si è creata la scissione fra chi ha smesso di lavorare ed ha ricominciato dopo una ventina di giorni, dopo essere stato richiamato alle stesse condizioni, e un gruppo di lavoratori, fra cui noi, che smise di lavorare e pose delle questioni alla dirigenza, chiedendo un cambio dei contratti per il periodo successivo, ma ci risposero che o firmavamo alle stesse condizioni o potevamo stare a casa.
I sindacati confederali che ruolo hanno avuto nella vostra vicenda?
Il sindacato non è mai esistito dentro ARCI, mai una riunione, mai un volantino… L’unica volta che è stata nominata la CGIL è stato quando, a fine 2015, fu fatta firmare una specie di conciliazione a tutti i lavoratori, chiamati singolarmente davanti al responsabile amministrativo di ARCI e ad un sindacalista mai visto prima, in cui si diceva che a quell’operatore veniva saldato lo stipendio arretrato di un paio di mesi e che non aveva altro da pretendere. Pena il mancato rinnovo del contratto.
Voi in quel momento non avete pensato di rivolgervi ad altri sindacati?
Noi personalmente non eravamo coinvolti, ma comunque tutti firmarono. Lì mancò anche una capacità di informazione propria, una mancata capacità di autodifendersi sul posto di lavoro. Ma il fatto che si fosse in presenza di un sindacalista in qualche modo rassicurava anche l’operatore un po’ più ingenuo che quella fosse la prassi, perché come tale fu presentata. Anche alla fine del 2016, quando scaddero i nostri contratti, si parlava di conciliazione.
Ma poi venne effettivamente proposta?
No, fu soltanto paventata da dirigenti e responsabili. Infatti noi alla fine dell’anno chiedemmo un incontro alla CGIL, in cui però chiarimmo subito che la conciliazione firmata nel 2015 ci aveva lasciato un po’ allibiti e di fatto i sindacalisti intervenuti disconobbero l’operato del sindacalista di allora dicendo che aveva agito a titolo personale. Si sono scusati e hanno detto che quella conciliazione non sarebbe più stata riproposta e che avrebbero provato a mettere dei paletti nei contratti futuri, cosa che poi non è stata fatta. Noi dopo due incontri abbiamo deciso di rivolgerci ai sindacati di base.
E che sponda avete trovato presso i sindacati di base?
Per loro il nostro era un mondo nuovo, perché non bene inquadrato anche a livello nazionale. E noi stessi non capivamo bene quali potessero essere le nostre richieste, perché poco formati, però sia USB che COBAS in primis e poi successivamente anche SICOBAS ci hanno fornito alcuni elementi sia giuridici che sindacali che ci hanno permesso di capire che c’era un oceano tra quello che svolgevamo ed il nostro inquadramento.
Avete avuto contatti anche con altri lavoratori ARCI magari appartenenti ad altri settori?
Sì e purtroppo abbiamo riscontrato che molto spesso ricevono un trattamento anche peggiore degli operatori sociali. Anzi, spesso ARCI prendeva come scusa gli operatori sociali per i ritardi nel pagamento degli stipendi dei lavoratori impiegati in altri settori, ad esempio quello della ristorazione.
E ora che prospettive avete? Nel vostro comunicato parlate di socializzare la vostra esperienza…
Noi vogliamo rendere la nostra esperienza pubblica per dimostrare che il fatto che la lotta paghi non è solo uno slogan: quando la si pratica paga davvero. Ma soprattutto vogliamo rivendicare quanto quelle condizioni di lavoro siano profondamente ingiuste, anche se sappiamo bene che la legge difende pochissimo anche i lavoratori dipendenti, eppure le nostre condizioni erano addirittura peggiori del Jobs Act. Per cui partendo da questa nostra esperienza vorremmo cercare di riunirci anche con altri lavoratori del settore dell’accoglienza, del mondo dei servizi e quant’altro, un mondo del lavoro con grosse affinità e spesso non sindacalizzato, in cui i lavoratori non hanno coscienza dei propri diritti. Vorremmo partire intanto dalla nostra città, da Perugia, perché quello che si muove a sinistra rispetto alle rivendicazioni dei lavoratori ci pare davvero ai minimi storici. Sarebbe interessante se da questa esperienza si riuscisse intanto a creare una rete di lavoratori e lavoratrici
Potrebbe essere una base per la creazione di un sindacato di classe…
Noi abbiamo visto che autorganizzarsi in un certo modo funziona, quindi ben vengano tutti gli strumenti che possono organizzare anche pochi lavoratori fra di loro, la forza poi è data dal mettere in rete tutte queste situazioni. Il frutto della frammentazione dei lavoratori è la sfiducia nelle forme tradizionali di organizzazione sindacale. Pensiamo che la costruzione di tutte queste piccole lotte particolari possa servire a prendere coscienza della propria condizione. Non si può semplicemente partire da un contenitore come il sindacato senza aver alcun radicamento nel territorio, senza aver superato l’egoismo e l’alienazione in cui sono immersi oggi i lavoratori e senza aver compreso le contraddizioni reali del singolo posto di lavoro e le esigenze che i lavoratori esprimono. La coscienza di classe non può essere calata dall’alto, secondo noi deve essere creata dal basso attraverso l’autorganizzazione.
Com’è stato percepito il vostro caso all’esterno?
Il problema è che spesso noi che abbiamo fatto vertenza ad ARCI siamo visti come i cattivi della storia, perché c’è questa strana trasposizione per cui dall’esterno si identifica ARCI con i migranti e quindi non è corretto prendersela con loro. La realtà è che rispetto ai fondi destinati a questi progetti, i migranti accolti versano in pessime condizioni, così come gli operatori coinvolti! Ma ARCI riesce a giocare su due fronti: mediaticamente si vanta dell’essere capofila di progetti di accoglienza all’avanguardia e di dare lavoro a moltissime persone, quindi chi critica questo tipo di modello offre una sponda alla destra xenofoba; inoltre se i migranti si ribellano, escono dal progetto e vengono rimessi “nel recinto” e quindi questo tipo di approccio permette ad ARCI di continuare a perpetrare questo modello.
Quello che teniamo a sottolineare è che le condizioni degli operatori e quelle dei migranti coinvolti nei progetti di accoglienza non sono oggetto di due lotte contrapposte. Abbiamo cercato fino all’ultimo di far capire alla dirigenza che migliori condizioni di lavoro per gli operatori equivalgono a migliori condizioni per l’utenza.
Non temete che il vostro caso possa offrire una sponda alle destre xenofobe e a chi attacca ARCI per fini politici?
Noi pensiamo che il peggiore alleato di questa deriva razzista e fascista che sta prendendo piede anche qui in Umbria sia proprio chi fa profitto con questi sistemi di accoglienza e restando in silenzio ci saremmo resi complici. Il terreno dove ci muoviamo è difficile, ma ci siamo imposti una linea politica netta e per fortuna soggetti politici destrofili si sono tenuti a distanza. Abbiamo cercato e trovato appoggio solo in soggetti a noi politicamente affini. Come partiti, ad oggi abbiamo ricevuto sostegno soltanto dal Partito Comunista, mentre sappiamo che la questione è in fase di discussione interna da parte di Potere al Popolo, che però non ci ha ancora ufficialmente risposto.