di Partito Comunista sez. di Firenze
“Anche quando tutto è o pare perduto, bisogna rimettersi tranquillamente all’opera, ricominciando dall’inizio… La crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere” (Lettere dal carcere, A. Gramsci)
In un momento di restrizioni e isolamento sociale, l’artista napoletano Jorit Agoch ha squarciato il grigiore di questo novembre portando, nella popolare periferia di Firenze, sole, colori, arte e cultura. L’atmosfera che si respira nel quartiere è quasi magica, i suoi abitanti si fermano a contemplare i lavori in corso con il naso all’insù, altri, tra curiosi e interessati, hanno intrapreso quasi un pellegrinaggio giornaliero per assistere allo sviluppo del murales, per scovare i messaggi nascosti nell’opera e scambiare due parole con gli autori stessi. Sembra quasi di riuscire a riconquistare quegli spazi urbani che ci sono stati negati con l’emergenza sanitaria e, molto prima, dall’incuria destinata alle periferie cittadine. Nel frattempo, è venuto a mancare Maradona, l’uomo delle periferie del mondo, il D10s umano del murales di Jorit a Napoli. Su uno striscione appare “Hasta siempre Diego”, è l’addio-tributo che l’artista ha scelto di dedicare al suo mito, rievocando un saluto rivoluzionario. Purtroppo, non sono mancati i malumori per questa ventata di rossa primavera d’inverno in città, ma il maxi volto di Antonio Gramsci, giorno dopo giorno, ha preso vita, proprio lì, tra quelle case popolari, quasi a volerci indicare la via.
Con questa intervista abbiamo voluto ringraziare Jorit, Tukios e Calaveras per il grandioso omaggio che stanno realizzando nella città di Firenze al padre del Partito Comunista d’Italia, un regalo particolarmente gradito da noi comunisti che ci apprestiamo a breve a celebrarne il centesimo anniversario.
Avevi detto, in occasione dell’opera dedicata a Madiba, che nuovamente a Firenze avresti raffigurato Gramsci: Perché Gramsci, perché Firenze e che effetto ti fa essere proprio qui, in un quartiere popolare come questo?
Penso che Gramsci è una figura importantissima, non soltanto per me, perché per me lo è, ma perché può dare lezioni anche a questi giorni, al mondo che stiamo vivendo in questa fase storica. Penso che i suoi scritti e i suoi insegnamenti siano, non sono universali, ma più attuali che mai. Viviamo una profonda crisi sia sociale, sia economica che non è solo dovuta al Covid, ma credo abbia motivi strutturali molto più profondi. E Gramsci aveva analizzato queste motivazioni e aveva dato anche delle risposte su come superare questa situazione, quindi i suoi insegnamenti, in questa fase storica, devono essere ripresi e studiati più che mai.
Cosa risponderesti a chi sta criticando la scelta di dedicare un murales ad Antonio Gramsci in quanto “figura troppo di parte”?
Quando si porta un pensiero forte in un epoca in cui tutto sembra essere relativo, è normale che si venga criticati, però sono assolutamente convinto di ciò che faccio. Voglio dire, ci sono anche le strade intitolate a Gramsci, è uno dei filosofi più studiati in tutto il mondo, è un vanto italiano e solo per questo andrebbe raffigurato.
Dal graffitismo alla rappresentazione realistica del volto umano non hai mai smesso di condividere con tutti la tua arte, le tue opere sono a disposizione delle persone, basta alzare lo sguardo. Cosa significa per te fare arte?
L’arte di strada, il muralismo sono appunto le espressioni artistiche più democratiche che possono esistere: sono accessibili a tutti, nessuno deve pagare il biglietto per vederle e questo è forse uno tra gli aspetti più importanti di questa forma d’arte.
Il tuo segno distintivo sono le linee rosse impresse sui volti, cosa rappresentano?
In realtà, esse richiamano a delle cicatrici. Io sono stato spesso in Africa e mi piaceva l’idea secondo cui siamo tutti parte di una grande tribù, però, senza appiattire questo discorso su di un’uguaglianza spicciola. Diciamo che mi piace di più l’idea del richiamo anche ad una identità, quindi alle tradizioni e all’idea che in qualche modo ognuno di noi si debba costruire una tribù dove vivere. Una tribù nel senso di un gruppo sociale radicato sul territorio e con un sentimento di appartenenza forte.
Una tribù è una società priva di classi, basata sulla cooperazione e la reciprocità, non sull’individualismo. I personaggi che dipingi, infatti, sono per lo più figure che ispirano grandi rivendicazioni sociali. A quale di questi ti senti più legato?
Non ce n’è uno in particolare che io possa scegliere perché comunque, al di là delle opere, credo che tutte le figure che ho rappresentato abbiano delle cose importantissime da dire. Forse, per una questione di appartenenza alla mia città che è Napoli, sicuramente ho un legame speciale con Diego Maradona. Per me Diego non è soltanto il più grande calciatore di tutti i tempi ma è soprattutto un uomo con una forza tale e con un qualcosa di veramente speciale. Ad esempio, Diego si è sempre schierato con tutte le lotte di rivendicazione dei popoli del Sud America. Ricordo quando era in Argentina e per radio parlava e faceva politica, portava avanti una lotta, partecipava alle lotte sociali e questo, nonostante sia una persona che non ha più niente per cui lottare. Voglio dire, lui ha fatto quello che doveva fare, non ha nessuna motivazione pratica nel farlo! Per questo Diego, per me, è una fonte di ispirazione, innanzitutto come uomo. E forse, l’opera dedicata a Diego, essendo io di Napoli, è l’opera a cui sono legato particolarmente.
Tre anni fa sei stato arrestato dagli israeliani in territorio palestinese mentre lavoravi alla realizzazione del volto di Ahed Tamimi sul muro dell’Apartheid, quale sentimento ti accompagna quando pensi a quella esperienza?
La situazione in Palestina è proprio l’esempio lampante di tutto quello che non dovrebbe essere il mondo. Vi è proprio una segregazione di classe come vi era in Sudafrica – e qui a Firenze abbiamo il murales di Mandela che lottò tutta la sua vita contro questo modo di intendere il mondo. È quel tipo di segregazione che intende la realtà come una parte di essere umani che sono superiori ad altri. In Palestina, diciamo che sono arrivati proprio all’antropologia: in sostanza, gli israeliani utilizzano proprio un approccio razzista, come faceva Hitler. E forse è ancora più triste perché il popolo ebraico è stato quello che più ha subito la segregazione razziale di Hitler. C’è stata proprio un’inversione della storia, siamo passati dai nazisti ai sionisti che occupano militarmente un territorio e che trattano con discriminazione razziale il popolo palestinese. Io e Salvatore (Tukios) eravamo lì per dipingere, non ci saremmo mai aspettati di essere arrestati e di creare anche un caso internazionale, di uscire su tutte le testate internazionali. L’idea era quella di dipingere ma la barbarie, il militarismo israeliano e la crudeltà hanno addirittura portato ad arrestare due persone che stavano semplicemente dipingendo e questo è proprio l’emblema di come funzionano le cose là. Il giorno prima avevano ammazzato un ragazzino, gli avevano sparato un colpo al cuore, un ragazzino di sedici anni che stava lanciando delle pietre. L’esperienza in Palestina è stata un’esperienza forte, anche di pressione psicologica, insomma non è stato facile superarla perché sono situazioni difficili e poi quando comunque si ha a che fare con le armi e in un contesto di morti giornaliere diventa anche abbastanza pesante e dura da superare. Alla fine, però, è andata bene, anzi è come una medaglia al petto essere poi riusciti, in qualche modo, ad incidere in una questione simile. Poteva andare peggio, però, fortunatamente è andata così.
Andiamo sempre avanti!