L’8 marzo non è una festa ma un giorno di lotta

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L’8 marzo non è una festa ma un giorno di lotta

di Monica Perugini

Partito comunista della Lombardia

Ogni 8 marzo ci chiama a ricordare come per le donne non debba trattarsi di una festa ma di una occasione durante la quale vanno rammentate le lotte delle donne per conseguire diritti e garanzie relativamente la dimensione sociale e, conseguentemente, civile.

Quanto volte abbiamo ripetuto che la differenza non è certo solo di genere ma principalmente di classe, che discriminazione, deprivazione e violenza colpiscono le donne lavoratrici, le donne proletarie e facenti parte delle classi popolari. Quante volte abbiamo risposto alla demagogia della finta sinistra che non è ammissibile prendere le parti di tutte le donne, giacchè quelle appartenenti alle classi privilegiate rientrano in una classe sociale che sa benissimo difendersi da sé, dotata di strumenti economici e socio culturali talmente immensi da non poter destare in noi nessun tipo di preoccupazione per la loro sorte.

Eppure la narrazione quotidiana, alimentata dai vecchi e nuovi mass media, ha ormai fatto proprio questa visione che non manca mai di riempire, con fare demagogico, condito da una buona e necessaria dose di sentimentalismo, ogni spazio ed in ogni occasione possibile.

E così dopo il 25 novembre, l’8 marzo diventa una naturale ed inevitabile prosecuzione di quel battage propagandistico che ci fa indignare ma che rappresenta niente di più che il resoconto variopinto (dalle diverse tinte consone alle più svariate occasioni) di fatti di cronaca.

Che cosa causa (soprattutto in questi giorni) nella società e nella vita quotidiana delle donne delle classi popolari, questa sovraesposizione del tema?

Niente o meglio, mistifica e nasconde la vera condizione sociale, economica e culturale delle donne lavoratrici che, di questi tempi, è enormemente peggiorata.

Affrontando il tema dell’8 marzo, possiamo parlare di donne lavoratrici, in quanto le donne delle classi popolari, dei ceti impoveriti dalla crisi e dalla sempre più vasta proletarizzazione, lavorano sempre, sempre di più e sempre peggio.

La versione consumistica della giornata viene oggi accantonata solo momentaneamente. La veste imperante di questi anni, infatti, aveva annebbiato per anni la data, trasformandola in una delle tante occasioni commerciali da spremere per ricavare profitto a suon di cene, regali, incontri in locali vari per sole donne, consentendo in tal modo alle donne di ritrovarsi “fra loro”, per parlare e confrontarsi su argomenti “da donne”, assolutamente avulsi dal reale contesto della giornata, usufruendo di una sorta di parentesi ludica, per staccare dalla quotidianità.

Quanto di più lontano da quello che l’8 marzo e, più diffusamente, le lotte per rivendicare i diritti e la parità di genere propugnate dalle donne socialiste marxiste e comuniste avevano posto al centro del pensare e dell’ agire politico, già dai primi anni del 900 affrontando la questione femminile.

L’analisi critica dei comunisti ha sempre riservato grande considerazione alla questione e, successivamente, ha permesso al partito ed al movimento comunista, in particolare in Italia, di elaborare un importante sviluppo teorico ed una determinante presa di coscienza sociale che, a loro volta, hanno contribuito a far raggiungere un fondamentale progresso civile e sociale, ancorché sempre misconosciuto ed oggi gettato nell’oblio per mano della battente ed imperante propaganda mediatica.

Nel 1907 l’ Internazionale socialista, che portò alla successiva Conferenza delle donne socialiste ed alla creazione dell’Ufficio di informazione delle donne socialiste guidato da Clara Zetkin, chiariva una volta per tutte, la posizione del movimento, rivendicando che occorreva lottare con forza per il suffragio universale, rifiutando l’alleanza con le femministe borghesi che si limitavano a rivendicarlo.

In questa prima scelta politica, troviamo ancora oggi, tutta la potenza della svolta di classe che ha portato le donne comuniste ad affrontare compiutamente la questione senza cedere alle sirene ed alle deviazioni borghesi che, come sempre, non hanno altro scopo che depotenziare la forza delle idee alternative ed antagoniste ai propri interessi.

Nonostante il trascorrere degli anni, le lotte operaie, la ribellione al trattamento disumano riservato alle 120 giovani immigrate italiane ed ebree morte sul finire del marzo del 1911 nell’incendio di una fabbrica tessile neworkese (uno dei tanti “incidenti” impuniti del tempo), ancora oggi, accostare l’8 marzo al lavoro ed allo sfruttamento di classe della donna, per i nostri nemici di classe, appare un’eresia.

Così come ci si guarda bene dal ricordare che il 25 novembre lo dobbiamo al sacrificio delle sorelle Mirabal, attiviste del movimento clandestino dominicano, trucidate dalla polizia segreta del dittatore Truillyo.

La volontà di mistificare e snaturare l’origine di classe di queste giornate, dunque, non tende solo a raggiungere un mero scopo commerciale, che fa comunque sempre comodo alla borghesia, ma a snaturarne la portata, la forza propulsiva e l’originaria connotazione di lotta, annacquando ogni sentimento di resistenza, ribellione ed antagonismo, ogni capacità critica capace di togliere il velo della mistificazione e della menzogna con cui i padroni del vapore riscrivono la storia. Al suddito si permettono risicati e controllati momenti di condivisione di emozioni, comunque deviate, mutuate ed adattate a stilemi altrui.

Oggi che la crisi incombe, possiamo parlare ad altre donne, alle lavoratrici con e senza salario, di quanto avvenuto in passato e che appare sempre più chiaro ed evidente, affinché la storia non si ripeta e possiamo riprendere a far marciare le idee della classe di chi è sfruttato.

La crisi pandemica ha penalizzato tutti i lavoratori ma, come sempre avviene, ha bastonato violentemente i più deboli e, fra questi, le donne.

In Italia, a dicembre 2020 su 101.000 disoccupati il 98% erano donne, ben 99.000 e su 444.000 occupati in meno, il 70% sono donne mentre in media, i loro salari, sono inferiori del 20% rispetto a quelli degli uomini.

Eppure come dicevamo, dobbiamo rivolgerci alle donne chiamandole lavoratrici, perché lavorano sempre e molto spesso gratuitamente: nel lavoro domestico, in quello di cura dei figli, degli anziani e dei disabili della propria famiglia che trovano sempre meno assistenza nel sistema dei servizi pubblici, volutamente spinto al collasso. Sacrificano tutto il loro tempo per gli altri, isolate da contesti lavorativi aggreganti, dove la consapevolezza dello sfruttamento potrebbe farsi strada ed organizzarsi.

Le donne molto spesso debbono rinunciare al lavoro: non potendo accudire figli e genitori, ripiegano in famiglia e rinunciano a cercare altri posti di lavoro, scomparendo in tal modo dai radar delle statistiche. Le giovani senza carichi familiari, sono destinate al precariato ed alla disoccupazione, vedendosi sbarrata la strada per l’autonomia e l’indipendenza economica, obiettivi che oggi solo i figli della borghesia possono raggiungere a prescindere da meriti e qualità individuali.

Lo smart working, il lavoro da casa, così come concepito e malamente organizzato, danneggia le donne, privandole di una parte del reddito e costringendole ad un doppio lavoro che, alla faccia dell’emergenza, potrebbe diventare il futuro di molte imprese che da questa situazione hanno ricavato diminuzioni di costi e quindi massimizzazione del profitto. In quest’ottica includiamo la DAD che, dopo un anno di emergenza, non ha ancora fatto intravedere una alternativa valida per far ripartire la scuola in condizioni di sicurezza. In un sistema male organizzato ed estemporaneo come il nostro, sempre le donne hanno dovuto supplire all’educazione dei propri figli e nipoti.

Con l’avvento del governo Draghi e la pervicacia con cui l’ala “sinistra” dell’attuale esecutivo cavalca la tigre della parità di genere, che nella programmazione del Recovery Plan veste un ruolo principale, la questione sarà utilizzata e coniugata per mettere al sicuro reddito, profitti e previlegi del padronato.

Non è difficile ipotizzare che i grandi gruppi imprenditoriali parteciperanno al banchetto del Ricovery Plan e con una manciata di quote rosa in più, potranno appuntarsi la medaglia della raggiunta parità di genere, mentre ovunque le diseguaglianze aumentano, così come i carichi di lavoro, i rischi per la sicurezza e la salvaguardia della salute.

I ricatti e la repressione sui posti di lavoro, poi, aumentano e soprattutto a danno delle donne; emblematico il caso di Poste Italiane (realtà a maggioranza femminile) dove il coordinamento delle lavoratrici dei sindacati di base, ha denunciato come pratica quotidiana i ricatti, le ritorsioni, le richieste negate, le prevaricazioni, gli insulti da parte dei dirigenti e l’aumento indiscriminato delle contestazioni disciplinari. Poiché Poste Italiane è l’unica azienda che non accetta l’arbitrato, per cui chi protesta finisce dritto in tribunale, abbiamo modo di credere che senza lotta, questa pratica possa fare da apripista per il resto del panorama, in particolare di quelle aziende (ex) pubbliche che in modo sempre più veloce questo governo spinge verso la privatizzazione.

Nessuna scarpetta rossa, panchina colorata, potranno fare da argine a ciò che sta avanzando, anzi questi feticci borghesi tenderanno a coprire ciò che causa la crisi e chi intende colpire.

La crisi sta rendendo i rapporti e le relazioni sempre più difficili e in un contesto socioculturale egemonizzato da stereotipi elaborati ed imposti dal potere consolidato, da un sub cultura ottusa e acritica, torna a galla la mai sopita cultura patriarcale che il nostro sistema di valori, oggi non contrastato da una cultura antagonista radicata e strutturata, non ha mai abiurato ma solo mimetizzato.

A farne le spese sono le donne delle classi popolari, cresciute in ambienti ostili, senza la possibilità di rendersi autonome né economicamente né culturalmente, vittime di una cultura patriarcale che troppo spesso contro la violenza domestica, non permette scampo. Questi sono solo casi di cronaca, affrontati con enfasi dalla stampa ma il cui racconto non porta a nessun risultato: quando un sistema destruttura i servizi sociali, alimenta continuamente stereotipi sessisti, affronta con superficialità e demagogia ogni questione di portata culturale ed educativa per prevenire l’acquisizione di ogni consapevolezza critica, reprime e spaventa chi è ritenuto ed è davvero l’anello debole della catena, non potranno esserci elementi sostitutivi per raggiungere una società più giusta e sconfiggere la cultura della violenza sessuale e domestica ai danni di donne. Donne lasciate sole, senza mezzi economici, educativi e formativi, prede di un sentimento che le vuole comunque succubi, sottomesse, dipendenti al di là delle moderne patine dipinte da media, sindacalismo e sinistra radical chic.

Anteporre i diritti civili a quelli sociali, per esempio, non solo è sbagliato – perché senza i secondi non ci sarebbero i primi – ma perché danneggia pure questi, trasformandoli in privilegi, accessibili solo a chi può permetterseli… pagando e facendo quindi cadere anche il distinguo fra ciò che è lecito e ciò che non lo è. Il caso dell’utero in affitto ne è l’esempio emblematico: per chi paga e tanto, diviene lecito comprare un neonato, affittare un utero e spingere perchè si giunga alla legalizzazione della compravendita dei corpi di chi è sfruttato (e a cui, in tal modo, si permette di sopravvivere), manipolando le coscienze perché oltre che lecito ciò appaia anche etico.

In questa giornata da comunisti e comuniste, dunque, non intendiamo dimenticare le origini, le motivazioni della disparità, così come le lotte del movimento delle donne e del movimento operaio che ci hanno permesso di conquistare diritti, garanzie, dignità oggi a forte rischio.

Solo la lotta di classe e la prospettiva di una società socialista, di uomini e donne uguali, dove sia inserita al primo posto la dignità delle lavoratrici e dei lavoratori, potrà condurre ad una reale emancipazione della donna, all’eguaglianza sostanziale che questo sistema sociale, governato dai principi capitalistici, non potrà mai garantire e ciò alla faccia della luccicante ed invadente giostra mediatica e politica che tenta di sovrapporsi alla analisi ed alla critica del sistema.

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