La pubblicazione del rapporto annuale dell’ISTAT 2017 ha consentito ai giornali di formulare i consueti titoli da scandalo sulla “fine della classe operaia”. I maggiori telegiornali hanno parlato di “classe operaia spazzata via dalla crisi”. Al netto di qualche critica ad alcune delle scelte operate dall’ISTAT sulle categorie statistiche – dalla scelta delle categorie spesso dipende anche il risultato politico dell’analisi – i dati che si ricavano dal rapporto spingono ad un ragionamento più articolato, che non mette in discussione l’esistenza numerica dei lavoratori salariati, ma punta dritto alla questione della percezione che i lavoratori hanno di sé stessi.
In termini marxisti si potrebbe esprimere questa situazione con la differenza tra il concetto di classe in sé, storicamente determinato sulla base dei rapporti sociali di produzione, e quello di classe per sé, ossia di classe cosciente del proprio ruolo e della propria funzione storica. Andiamo con ordine, in attesa di un’analisi più accurata del dossier, che condurremo nei prossimi giorni.
Gli ultimi dati sull’occupazione disponibili in Italia parlano di 22,8 milioni di occupati, di cui 16 milioni dipendenti, 8 milioni dei quali inquadrati contrattualmente come operai. Il numero degli operai in Italia è dunque pari ad un terzo del totale della popolazione occupata, e nel complesso il numero dei lavoratori dipendenti continua a crescere. Questo nonostante una parte rilevante del lavoro dipendente sia qualificato contrattualmente, e dunque incluso nelle statistiche, nelle varie forme di lavoro autonomo senza dipendenti. Il frutto delle esternalizzazioni, del massiccio ricorso alle partite iva infatti trasforma sulla carta in lavoro autonomo forme di lavoro che sono a tutti gli effetti subordinate, alterando anche le statistiche. Nella forbice che separa i 16 milioni di dipendenti dal totale di 22 milioni di occupati devono quindi essere considerate queste forme, che con statistiche accurate farebbero ulteriormente lievitare il numero di lavoratori salariati/stipendiati.
Se dunque si parla di esistenza materiale della classe operaia, i dati sono chiari, anche al netto di alcune riduzioni che si sono verificate nel numero di occupati nell’industria (-387.000 dal 2008), compatibili con le massicce delocalizzazione e le crisi aziendali, il pesante ricorso a processi di automazione in alcuni settori, e nell’edilizia, per la crisi del settore dopo anni di speculazione e bolle immobiliari.
Perché dunque i lavoratori perdono la percezione di sé come classe? Qui dalla sfera materiale si passa al livello della coscienza. Certamente la parcellizzazione contrattuale è stata una leva fondamentale in questo processo. A partire dagli anni ’90 il numero e le tipologie di contratto si sono moltiplicate, diminuendo l’efficacia di lotte su rivendicazioni immediate. L’ISTAT rileva come anche nel 2017 siano in aumento i contratti di somministrazione (+6,4%), e part-time, e che nel complesso esista una tendenza alla dequalificazione dell’occupazione nelle fasce sociali più basse. Un processo che risponde alla tendenza generale dell’abbassamento del costo del lavoro, e dei salari, come strategia per la ripresa che oggi il capitale sta adottando massicciamente in Italia.
La parcellizzazione contrattuale è senza dubbio il primo passaggio, ma grande responsabilità hanno anche l’insieme delle forze sociali – sindacali e politiche – che hanno, per le note ragioni, ridotto la propria capacità d’influenza sui lavoratori, e sul processo di costituzione in classe. Per i lavoratori comunisti, i dati dell’ISTAT sulla percezione di classe non dicono nulla di sconosciuto, che non sia immediatamente visibile sui luoghi di lavoro, durante un’assemblea o nei giorni che precedono uno sciopero. La maggioranza dei lavoratori in questi anni, in assenza di quel lavoro di informazione, lotta e organizzazione, ha fatto proprie categorie che teorizzano il superamento della logica dello scontro di classe, che appartengono alla strategia delle classi dominanti, per le quali la rottura dell’unità e della coscienza di classe è presupposto necessario per il mantenimento del proprio potere.
Così i luoghi di lavoro da cui una volta si proiettava una cultura e una visione del mondo nella società, sono divenuti preda di visioni che prescindono dalla centralità del conflitto capitale/lavoro. I lavoratori hanno così finito per farle proprie in larga maggioranza, e specialmente nelle generazioni nate dopo gli anni ’80 che non hanno conosciuto la forza delle lotte e dell’organizzazione del movimento operaio. Hanno iniziato a tornare a ragionare da una parte con il ricorso alle “categorie” sempre più parcellizzate, e sempre più frammentate, si pensi alla differenza tra precari e lavoratori a tempo indeterminato, o a quelli interni rispetto a quelli che lavorano per società in appalto. Dall’atra hanno iniziato a ragionare da semplici “cittadini” e non più come lavoratori, anche grazie a forze di opposizione, che appaiono le uniche titolate a garantire un cambio di governo, e che rifiutano una cultura del lavoro, e al contrario fanno proprie quelle teorie che vanno nella direzione della rimozione del concetto di classe, di ogni forma di organizzazione di classe, a partire da quella sindacale. La visione interclassista è quindi assolutamente dominante nella società odierna, perché unisce le principali forze di maggioranza e opposizione (nazionaliste o anti-politiche).
Ed è proprio questo il segreto che consente, l’immobilismo politico, la passività della classe operaia pur di fronte alla durezza delle politiche antipopolari e all’acuirsi delle differenze sociali. «Una divisione nuova della società italiana farebbe pensare a cambiamenti rivoluzionari – scrive Repubblica – In realtà di rivoluzionario in Italia al momento non c’è niente: è una società che cristallizza le differenze, e che da tempo ha bloccato qualunque tipo di ascensore sociale. In effetti funziona quello verso il basso, ma i piani alti sono sempre meno accessibili».
Nessun cambiamento rivoluzionario potrà esistere in assenza di coscienza da parte della classe sociale che deve guidare questo cambiamento. La sola crisi economica, gettando sul lastrico milioni di lavoratori e di famiglie non produrrà questo cambiamento, ma al massimo un orientamento dei lavoratori verso le forze percepite immediatamente come artefici di un cambiamento realizzabile, che purtroppo però non è altro che la riaffermazione sotto altre forme degli stessi rapporti sociali da cui dipende lo sfruttamento dei lavoratori. Ecco perché oggi il compito della costituzione del proletariato in classe è ancora il primo compito dei comunisti; bisogna rimboccarsi le maniche e lavorare in questa direzione, valorizzando ogni embrione di quella coscienza, come pure non tardano a vedersi, dandogli forza e organizzazione.
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