di Luigi Mammone
Il recupero del patrimonio storico-edilizio delle nostre città è generalmente accettato come operazione fondamentale per la salvaguardia e trasmissione del codice storico e culturale di un quartiere, di una città, di un paese. Spesso questo tipo di operazioni è oggi finanziato da fondi di investimento, fondazioni o più semplicemente da investitori privati piuttosto che dallo stato centrale, a causa di una scellerata quanto precisa politica di arretramento del ruolo del pubblico nella gestione e manutenzione del proprio patrimonio.
Apparentemente queste iniziative potrebbero dunque suggerire un coinvolgimento positivo del settore privato nella salvaguardia dei beni culturali, facendo risparmiare allo Stato decine di milioni di euro. Eppure ciò che si nasconde dietro a questo tipo di operazioni è il loro valore ideologico e la riduzione della cultura ad oggetto e luogo di consumo. Negli ultimi anni è in atto un lento quanto inesorabile processo di “Disneyficazione” dei centri storici italiani per trasformare quelli che un tempo erano i luoghi della vita culturale e politica dei suoi abitanti, in cittadelle del consumo fatte di catene di alberghi extralusso, case vacanze, negozi di souvenir, temporary shop, ristoranti di cucina tipica con manodopera sottopagata e irregolare, boutiques. Una città nella città estranea alla città stessa, dove la distanza tra centro e periferia è più marcata che in passato.
Se da un punto di vista urbanistico è vero che insistere sul centro storico come nucleo di valore e di senso è distruttivo due volte per la dimensione che hanno assunto le città contemporanee e del continuo processo di ammodernamento delle infrastrutture e servizi necessario (come riporta Rem Koolhaas in Junkspace, edito da Quodlibet), è altrettanto vero sostenere che proprio a causa di questo continuo e spietato rinnovamento, il capitale finanziario attraverso progetti di recupero e riqualificazione del tessuto edilizio come delle infrastrutture e dei servizi, vede aumentare cospicuamente in forma di rendita il valore dei propri immobili.
L’eterogeneità sociale e produttiva che ha caratterizzato i centri storici italiani, viene oggi brutalmente sostituita da una categoria omogenea di servizi e attività ad uso e consumo del turismo di massa e di una borghesia nazionale ed internazionale. Più in generale si può quindi parlare di interruzione del rapporto tra abitanti e contesto urbano, condizione che per secoli ha plasmato le nostre città, per sostituire questo legame con un’identità urbana surrogata adatta agli interessi commerciali del capitale immobiliare e finanziario.
«Alla luce dei processi economici e produttivi che sono la base storica su cui si sono sviluppate le città moderne, l’ambiente urbano in quanto prodotto di questi processi va studiato storicamente come arte del passato che seguita e si sviluppa nel presente»,
ad affermarlo era Giulio Carlo Argan nel 1986 in un articolo apparso sulla rivista mensile Centro di Iniziativa Democratica degli Insegnanti “Insegnare”. La desertificazione economica, culturale e sociale che i grandi settori di interessi privato hanno condotto in questi anni non è casuale, risponde semmai ad un preciso disegno di espulsione degli abitanti più poveri ed una rapida omologazione alle altre città del mondo, il cui obiettivo è attirare nuovi investitori. Roma negli ultimi cinquanta anni ha perso circa 400’000 abitanti del centro storico per gli attuali 80’000 residenti (più o meno gli stessi abitanti che vivevano in città nel Medioevo), lasciando “sul campo” centinaia di attività, abitazioni vuote, interi edifici in disuso, abbandonati alla logica del profitto e della speculazione. Nonostante essere i primi responsabili del vero degrado culturale e sociale in cui le nostre città sono cadute, grandi marchi della moda, del lusso, della finanza, delle costruzioni ecc., tendono a farsi promotori di iniziative rivolte principalmente al recupero e salvaguardia del patrimonio artistico collettivo, ovvero quegli stessi settori che in maniera più o meno diretta, hanno condotto una vera e propria guerra alla città e ai suoi abitanti, combattuta a colpi di speculazione immobiliare, aumento degli affitti, sfratti, rendite fondiarie, progetti di riqualificazione urbana, megaeventi, iniziative per il decoro urbano, militarizzazione degli spazi pubblici ecc. Per dirla con le parole di Giulio Carlo Argan, storico dell’arte e primo sindaco di Roma eletto nel PCI, riprendendo l’articolo sopra citato,: «Oggi il fronte della privatizzazione è in movimento, anzi in fase offensiva: col sistema solo apparentemente benefico delle cosiddette sponsorizzazioni il grande capitalismo non si accontenta più di «aiutare» lo Stato e gli enti pubblici nel pesante compito della tutela del patrimonio ma ad assumerne in proprio la gestione: e cioè la direzione culturale del paese (…) basta un po’ di buon senso per capire che il coinvolgimento del patrimonio culturale in un grande sistema di mercato porterà inevitabilmente al sovrapporsi degli interessi economici ai culturali, specialmente dei paesi poveri come l’Italia».
Non si tratta spesso di una vera e propria appropriazione dei beni storici ed artistici, operazione questa sì troppo onerosa, piuttosto di assolvere e sostituire lo Stato nella gestione del patrimonio pubblico. Un processo dunque, di conduzione delle iniziative in ambito culturale che la borghesia e vasti settori del capitale Italiano quanto straniero stanno promuovendo per le città italiane dei prossimi decenni. Negli ultimi anni diversi enti e fondazioni legati a prestigiosi marchi della moda e del lusso hanno sostenuto il restauro di importanti opere della città di Roma (Colosseo-Tod’s, Fontana di Trevi-Fendi, Trinità di Monti-Bulgari, gruppo LVMH).
Attraverso campagne per il decoro e la sicurezza, ben presto questi interventi rivelano l’utilizzo della salvaguardia dei beni culturali come pretesto simbolico per portare avanti un progetto elitario del patrimonio artistico e commercializzazione delle opere d’arte. E’ il caso ad esempio, della scalinata più famosa al mondo cui la soluzione avanzata dalla casa di moda per preservarla dal continuo logorio fu quella di recintarla ed aprirla temporaneamente al pubblico, o ancora il gruppo Tod’s che dopo il restauro del Colosseo ha acquisito il diritto di far apparire il proprio logo sui biglietti di ingresso per l’Anfiteatro. Iniziative spesso mistificate per il carattere salvifico per il nostro patrimonio. E’ evidente dunque, il tentativo di affermare la superiorità di risorse, competenze e tecnologie del mercato nei confronti del pubblico e quindi consolidare il legame che per motivi meramente d’immagine si crea tra un marchio ed un oggetto d’arte.
L’articolo 117 della Costituzione del resto prevede che i compiti di tutela, valorizzazione e promozione dei beni culturali siano divisi tra i diversi enti dell’amministrazione pubblica (Stato, Regioni, Comuni). Sotto questa apparente riorganizzazione dell’apparato statale, si nasconde il tentativo di confondere e sostituire il concetto di valorizzazione e dunque di diffusione della conoscenza e della cultura ai cittadini, con quello ben più generico e confondibile di promozione (*).
Ecco compiuta la sovrapposizione tra interessi pubblico – privato che segna il definitivo allineamento dell’amministrazione pubblica alle logiche del profitto e della rendita.
Al di là del dubbio valore estetico dell’utilizzo del nostro patrimonio a fini commerciali, il vero obiettivo a cui le iniziative di sponsorizzazione mirano è quello di ridimensionare il rapporto tra città e oggetto d’arte, filtrarlo e per questo limitare l’influenza della collettività nella fruizione e gestione del patrimonio storico-artistico. Alla luce delle radicali trasformazioni che i nostri centri storici stanno subendo e la desertificazione sociale e produttiva che si trascina ormai da anni, il recupero e la gestione del nostro patrimonio con il fine diretto o indiretto del profitto privato, cui prodest?