Il 3 ottobre del 2013 avveniva il naufragio al largo di Lampedusa con la morte di 368 persone emigranti. A 6 anni dall’accaduto, questa data è oggetto di ipocrite commemorazioni istituzionali che si inseriscono nel dibattito e strumentalizzazione politica intorno alla questione immigrazione. Abbiamo scelto per l’occasione di dare voce ad un punto di vista di classe proveniente proprio da Lampedusa, intervistando il compagno Giacomo Sferlazzo, cantautore e attivista del Collettivo Askavusa, che da decenni è impegnato in attività e progetti sociali e culturali nell’Isola sviluppando la lotta contro l’Hot spot, per la smilitarizzazione e per i diritti sociali della popolazione locale. Con lui abbiamo approfondito la situazione e le problematiche dell’Isola e dei lavoratori e settori popolari che vi vivono.
1) Il vostro collettivo è da anni impegnato nella ricerca della verità delle dinamiche e responsabilità dietro il drammatico naufragio del 3 ottobre 2013. Puoi dirci innanzitutto quali sono le vostre valutazioni e analisi intorno a questo funesto evento?
Questo fatto drammatico che ha segnato profondamente la comunità lampedusana e ovviamente i parenti delle vittime, va inquadrato nella cornice ampia della gestione delle frontiere esterne europee da parte di Frontex [Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera, ndr]. Le politiche sul controllo delle frontiere esterne europee sono condizionate in maniera determinante dall’industria militare che è la stessa che produce sistemi di controllo avanzatissimi dal punto di vista tecnologico. Il 3 ottobre del 2013 è stato un evento che è stato preparato, sono state messe in atto le condizioni per cui avvenisse in quei termini. I superstiti hanno raccontato da subito di una nave militare che invece di soccorrerli ha puntato un grosso faro su di loro e poi è andata via facendo salire il panico tra le persone che erano a bordo. L’indumento che venne bruciato che poi provocò l’incendio e il ribaltamento della barca, venne dato alle fiamme proprio per farsi notare dalla barca che stava andando via. I primi soccorritori invece denunciarono da subito il lungo ritardo della Guardia Costiera chiamata alle prime luci dell’alba, così come denunciarono da subito il comportamento della Guardia Costiera che non appena arrivata sul posto dove i naufraghi stavano per affogare, invece di recuperarli dal mare, c’era chi faceva foto e video, alla richiesta di trasbordare i migranti dalla Gamar alla vedetta della Guardia Costiera per continuare a recuperare le persone in mare, da parte di Vito Fiorino e degli altri dell’equipaggio dei primi soccorritori, la Guardia Costiera ordinò di rientrare in porto e di aspettare l’ok da Roma per procedere al salvataggio.
Dopo quella data tutto cambia a partire dall’approvazione di Eurosur e delle missioni militari/umanitarie che poi porteranno all’attuale presenza delle ONG in mare. Dal punto di vista della narrazione quella data viene strumentalizzata ancora oggi con passerelle di politici, cantanti e di soggetti come il Comitato 3 ottobre che cercano di nascondere le vere dinamiche del naufragio e le conseguenze che ne ha avuto in termini di politiche e di finanziamenti. Essendo una questione complessa abbiamo realizzato un lungo dossier (https://askavusa.wordpress.com/03102013-il-naufragio-della-verita/) che accompagna la videoinchiesta di Antonino Maggiore che ha contribuito ad aprire un processo su mancato soccorso che è ancora in corso e che a differenza di quello sul naufragio dell’11 ottobre non sta avendo nessun tipo di copertura mediatica.
2) Lampedusa è costantemente al centro dell’attenzione mediatica nazionale e internazionale e del dibattito politico a causa degli sbarchi. Come vive questa situazione il popolo lampedusano e quali sono le reali condizioni e contraddizioni che vive sulla sua pelle di cui nessuno parla?
Prima di tutto va detto che i “lampedusani” come i “migranti” sono diventati una categoria che si pretende rappresenti dei valori e dei bisogni precisi e determinati, una riduzione ad “essenza” direbbe qualcuno. Noi lampedusani siamo circa sei mila residenti che a partire dai primi anni novanta hanno visto una quantità di eventi, emergenze, passerelle, tragedie e fatti eclatanti ma anche la prima visita del Papa fuori Roma, capi di stato, ministri, ambasciatori, artisti e registi di fama mondiale, studiosi di ogni parte del mondo, medaglie, premi, proposte per il Nobel per la pace ed una continua pressione mediatico politica che non credo abbia pari nel mondo. Molti lampedusani sono giustamente stanchi di tutto questo, perché a fronte di tutto questo nella vita degli isolani non è migliorato nulla. La morbosità con cui il mondo si è approcciato all’isola ha prodotto un nervosismo di fondo tra gli isolani. Se è vero come è vero che noi abbiamo delle responsabilità per lo stato di cose attuali non si può paragonare alle responsabilità delle istituzioni regionali, nazionali, europee e globali.
Ci sarebbero tante cose da dire ma voglio fare un piccolo esempio, la gestione della nettezza urbana è gestita da ditte che sono presenti in tutta la provincia di Agrigento ed hanno capofila l’azienda ISEDA molto vicina ad Angelino Alfano, pensate che i lavoratori vengono pagati costantemente con ritardi che vanno dai due ai sei mesi, che Lampedusa e Linosa risultano l’ultimo Comune nella provincia di Agrigento per quanto riguarda la raccolta differenziata e che dopo il sequestro da parte dei Carabinieri del nucleo ambientale della discarica a dicembre del 2018, sempre dopo nostre segnalazioni, la spazzatura viene continuamente bruciata provocando gravi danni per la salute e l’ambiente. Abbiamo denunciato e segnalato più volte e a tutti i livelli a partire dalla Procura della Repubblica di Agrigento questo stato di cose ma al momento non si è mosso nulla.
Ora quando vengono uomini politici o delle istituzioni a parlare pubblicamente di giustizia, legalità e del “valore dei lampedusani” tutti capiscono che è una farsa e che quei discorsi non servono a noi lampedusani ma a chi li fa. Sappiamo che questa ipocrisia è presente ovunque ma qui va messa a paragone con tutto quello a cui accennavamo prima, in sostanza a che serve proporre Lampedusa per il Nobel per la pace (ammesso che abbiamo veramente qualche merito) quando non abbiamo edifici scolastici sicuri, una sanità che fa acqua da tutte le parti, i servizi di base gestiti da aziende che provengono da Agrigento che non garantiscono i servizi nonostante i costi altissimi etc. etc. etc.
3) Per la sua posizione geostrategica al centro del mediterraneo Lampedusa subisce una forte militarizzazione. Puoi descrivercela meglio e quali sono le battaglie che avete sviluppato contro di essa?
La densità di presenza militare sull’isola è una delle più alte in assoluto, ricordo che durante una visita di studio dell’argomento, Massimo Coraddu e Antonio Mazzeo, che sono tra i massimi esperti in Italia di militarizzazione dei territori, rimasero stupiti e ci dissero che bisognava guardare alla Palestina per avere un termine di paragone adeguato con Lampedusa. All’incontro con l’ammiraglio Stefano Dotti, avvenuto il 30/10/2014 nell’ufficio del sindaco del comune di Lampedusa e Linosa, Giusi Nicolini, lo stesso ammiraglio dovette tirare in ballo Roma per trovare un luogo in Italia da paragonare a Lampedusa in termini di militarizzazione. Abbiamo fatto e continuiamo a fare diverse azioni su vari piani, tra l’altro siamo riusciti attraverso una denuncia molto dettagliata curata dall’avvocato Elisabetta Sciotto a far levare un radar a Capo Grecale, in una zona molto frequentata dai lampedusani.
Dopo il 1989 il mondo si è trovato in una guerra permanente in cui gli USA hanno provocato la maggior parte dei conflitti e delle destabilizzazioni. Da Lampedusa ad esempio abbiamo potuto osservare da vicino il conflitto con la Libia di Gheddafi e la grande perdita per tutta l’Africa di questo uomo politico. Lampedusa ha avuto dal 1972 al 1994 una base degli Stati Uniti d’America nella zona di Ponente ed un ruolo molto importante nel conflitto tra USA e Libia in cui anche Francia e Inghilterra hanno giocato un ruolo fondamentale.
Noi vediamo alzarsi caserme e installare radar mentre le strade, gli edifici scolastici, il depuratore, la struttura sanitaria versano in condizioni catastrofiche e sentiamo ripetere come un mantra “non ci sono soldi” oppure “non sappiamo che fine hanno fatto i finanziamenti straordinari per Lampedusa.
Il Sipri (Stockholm International Peace Research Institute) nel suo rapporto annuale sugli armamenti ha messo in evidenza un nuovo aumento della spesa militare globale, con un incremento del +2,6% rispetto all’anno precedente, in totale nel 2018 alla difesa sono stati destinati 1.822 miliardi di dollari. Gli Stati Uniti sono in 1ᵃ posizione nella classifica con una spesa nel 2018 di 649 miliardi di dollari, il 36% della spesa globale. L’Italia è passata nella classifica internazionale dal 13 posto del 2017 all’11 posto del 2018 con 27,8 miliardi di dollari spesi.
Parlare di Lampedusa come isola di pace in questo scenario è molto difficile ma noi continuiamo ad affermare che Lampedusa debba smilitarizzarsi e non partecipare alla tragica crisi internazionale che si palesa davanti ai nostri occhi e di cui le migrazioni sono uno degli effetti. È bene specificare che la guerra è prima di tutto tra il capitale e il lavoro, tra una piccola élite ricca e spietata e le masse di persone sempre più impoverite e private dei beni essenziali e dei diritti di base.
Al momento, sul piano locale, cerchiamo di divulgare tra gli isolani le notizie ad esempio sugli effetti devastanti dell’inquinamento elettromagnetico che riteniamo la causa dell’aumento del numero di tumori tra gli isolani. Uno strumento di cui ci siamo dotati è una mappa interattiva (mappa > https://www.google.com/maps/d/u/0/viewer?mid=13qRt1-yvUs5NnEU64NiGz4b7SHY&ll=35.508465601759106%2C12.568099157684287&z=13) che abbiamo sviluppato prima da soli e poi all’interno di un progetto sull’ambiente chiamato “Lampedusaresiste” in collaborazione con le BSA e altre realtà locali. In questa mappa è subito visibile la quantità enorme di installazioni presenti a Lampedusa, purtroppo la militarizzazione non sembra arrestarsi e dall’anno scorso è partito un progetto sul volo dei droni di cui sono capofila la Guardia di Finanza e Frontex. Sostanzialmente procediamo, come per tutto il resto, su due piani: uno è quello delle denunce e delle comunicazioni alle istituzioni e l’altro, quello che riteniamo più importante, è la comunicazione con la comunità. Purtroppo noi lampedusani siamo disgregati e passivi. Dopo le proteste del 2009 ci fu un calo dovuto anche alla delusione del comportamento di chi capeggiava quelle proteste a partire dall’allora sindaco De Rubeis e dal comitato SOS isole Pelagie. Ma ora sembra che si stiano aprendo nuovi orizzonti con la creazione del Comitato di Lampedusa per la salute pubblica e ambientale che ha tra i suoi punti principali il contrasto all’inquinamento elettromagnetico. A questo proposito ricordo che abbiamo avviato una campagna di raccolta fondi per fare una campagna di rilevamenti indipendenti e che chi vuole può inviare un contributo a questo indirizzo: Conto corrente intestato a: associazione culturale Askavusa presidente Annalisa D’Ancona via cala pisana snc causale Inquinamento elettromagnetico IBAN: IT72L0359901899050188528705 bic CCRTIT2TXXX BANCA ETICA filiale di Palermo via Catania 24 90141 Palermo.
4) Con il vostro collettivo state promuovendo una piattaforma di lotta e mobilitazione popolare. C’è la puoi presentare? E puoi dirci anche come si sta sviluppando tra la popolazione?
Come accennavo sopra la nascita del Comitato e la situazione di pressione che sta aumentando nuovamente sull’isola stanno accelerando alcuni processi di partecipazione. Se ancora non siamo ad un punto in cui possiamo programmare mobilitazioni incisive possiamo dire però di avere fatto dei passi in avanti per quel che riguarda i temi da noi sollevati a partire dal 2011 in particolare: la militarizzazione dell’isola, la regolarizzazione dei viaggi per tutti, i servizi di base, la chiusura dell’Hotspot, l’inquinamento elettromagnetico oramai sono temi di discussione generale sull’isola. Questo era il primo passo ed anche se abbiamo impiegato quasi dieci anni abbiamo passato il primo scoglio. Ora ci aspetta un altro passaggio fondamentale e cioè la ricostruzione della comunità. In questo processo vanno tenute in mente le differenze di classe e gli interessi che hanno sgretolato la comunità lampedusana, dobbiamo avere la coscienza che mai saremo tutti uniti, questo è impossibile, ma è possibile invece arrivare a costituire una massa importante che si muove con coscienza per ottenere i propri diritti e un equilibrio tra economia, ambiente e lavoro. La cultura e il recupero della memoria storica sono fondamentali in questo processo ed è per questo che a PortoM, la nostra sede, abbiamo cominciato a fare un lavoro di recupero delle tradizioni popolari con in testa il teatro dei pupi e quello della narrazione orale.
5) In conclusione. L’attenzione mediatica sull’immigrazione si polarizza su posizioni da un lato apertamente reazionarie, xenofobe e razziste e dall’altro solo sul problema umanitario dell’accoglienza senza affrontare le cause profonde all’origine del fenomeno. Qual è il tuo parere a riguardo e che messaggio vorresti rivolgere da Lampedusa ai compagni e compagne nel resto d’Italia?
Come dici bene i due poli del discorso dominante non prendono in considerazione né le cause che spingono milioni di persone a lasciare il proprio paese né tanto meno il perché non tutti possono viaggiare pagandosi un biglietto decidendo dove andare. Se cominciamo a chiederci come mai le persone lasciano il proprio paese si aprono scenari molto profondi dal punto di vista storico a partire dal colonialismo. L’Europa che molti si affannano a indicare come faro dei diritti, della civiltà e della democrazia in realtà ha una storia imbrattata di sangue e rapina. Milioni di morti, schiavi, torture, rapina sistematica di materie prime, sfruttamento della forza lavoro, violenze sessuali e di ogni altro tipo hanno caratterizzato i coloni europei a partire dal 1402 con la Sovranità della Castiglia sulle isole Canarie e la prima delegazione etiopica a Venezia. Si possono ricordare vari passaggi come la “conquista dell’America” e lo sterminio dei popoli che vivevano nelle Americhe, si deve ricordare la spartizione dell’Africa nella “Conferenza di Berlino” nel 1884, in quell’occasione oltre a disegnare confini di stati nazione nati in quel momento, con linee dritte che avrebbero messo sotto la stessa bandiera tribù in guerra da anni e separando tribù amiche, le potenze europee instaurarono il regime di libero commercio in due grandi aree del continente africano quella detta del “Bacino del Congo e dei suoi affluenti” che partiva dall’Oceano Atlantico e finiva nei Grandi Laghi; e quella nominata “Zona marittima orientale”, che andava dai Grandi Laghi all’Oceano Indiano. Leopoldo II del Belgio, fece in Congo circa 10 milioni di morti principalmente per l’estrazione della gomma, villaggi interi vennero sequestrati per farne “fabbriche” e “depositi” di caucciù. Attraverso lo sfruttamento di risorse come l’avorio, la gomma, i diamanti e della manodopera africana l’Europa continuava ad ingrassare e a sviluppare la propria industria, come sottolinea Marx:«La scoperta di oro e argento in America: l’estirpazione di indigeni a volte, la loro schiavizzazione o la loro sepoltura nel miele altre volte; l’inizio della conquista e del depredamento delle Indie Orientali; la trasformazione dell’Africa in un recinto per la fornitura di negri che erano la materia prima per il commercio degli schiavi, questi furono gli accidenti che hanno caratterizzato il roseo sorgere dell’area della produzione capitalista. Questi furono i processi idilliaci che formarono i fattori primari dell’accumulazione primaria.»
Ma ancora oggi le cose non sono tanto diverse se si pensa all’estrazione del Coltan, ancora una volta in Congo, da parte di bambini che spesso muoiono per sfinimento da lavoro. Un altro motivo per cui la gente lascia la propria casa è la guerra e abbiamo già detto sul ruolo che l’Italia riveste nella contemporanea guerra permanente spesso mascherata da retoriche umanitarie. Ma la prima causa per cui le persone lasciano il proprio paese è la ricerca di un lavoro. Non bisogna andare molto lontano per costatare questo dato di fatto, basta guardare vicino a noi o dare un’occhiata agli ultimi rapporti sull’emigrazione dei giovani del sud, si parla di circa 15 milioni di giovani emigrati negli ultimi 15 anni. Il lavoro è stato regolato a livello globale, a partire dal WTO, in modo da creare lavoratori sdradicati dal proprio contesto culturale/storico/sociale, con bassi diritti e bassi salari ma questo non bastava per riportare la schiavitù in auge e quindi si sono disegnate leggi a partire dalla metà degli anni ottanta, che hanno regolato la mobilità in modo da favorire la clandestinità e non i viaggi regolari, creando masse di lavoratori “clandestini” attirati in Europa dalla propaganda europeista e ovviamente dalla crisi capitalista globale che ha ridotto le periferie dell’impero alla fame. Questi due tipi di lavoratori che dovrebbero unirsi e lottare per migliorare le proprie condizioni e sovvertire l’attuale sistema economico politico, sono messe in contrapposizione da una martellante campagna mediatica che riduce il problema agli ordini di cui dicevamo sopra: o ad un problema di sicurezza/ordine pubblico oppure ad una questione umanitaria.
Io spero che in Africa ritorni un movimento forte anticoloniale. Non credo che l’UE o in generale “l’occidente” possa fare qualcosa per l’Africa, a parte continuare a fare danni. Nella narrazione sulle migrazioni manca sempre il punto di vista dei diretti interessati l’unico lavoro di informazione che conosco che ribalta questa consuetudine è quello di Michelangelo Severgnini “Exodus fuga dalla Libia” e ad ascoltare le voci di chi è in Libia si scoprono istanze molto diverse da quelle che ad esempio portano avanti le ONG in mare. Molti nelle carceri libiche finanziate dall’UE chiedono di tornare nei propri paesi, chiedono principalmente di essere evacuati dalla Libia e non di arrivare in Europa.
Il messaggio che come Askavusa stiamo lanciando è questo: 1) chiudere l’hotspot in favore di un ospedale; 2) portare sull’isola solo le persone che hanno bisogno di cure mediche; 3) smilitarizzare l’isola in cui devono rimanere solo: una caserma dei carabinieri, una della guardia di finanza, una della guardia costiera, un piccolo contingente dell’aeronautica militare, un radar per il cielo e uno per il mare; 4) fare una campagna mediatica che parta dalla comunità di Lampedusa per la regolarizzazione dei viaggi, la fine delle ingerenze imperialiste (quanto meno la non partecipazione dell’Italia a queste guerre) e lo smantellamento delle reti di sfruttamento sul lavoro in favore di maggiori diritti e salari per TUTTI i lavoratori.
In più mi sento di dire che dobbiamo emanciparci da una visione europeista e cominciare a ragionare su uno spazio politico mediterraneo che abbia come matrice il ribaltamento totale dell’attuale sistema di produzione e del concetto di proprietà privata. Credo ad esempio che l’attuale dibattito sull’ambiente e il clima sia completamente fuori fuoco perché parte dai consumi e non dal sistema di produzione. In poche parole si dice: “Dobbiamo ridurre e cambiare il nostro modo di consumare” ma il nostro modo di consumare è strettamente legato al nostro modo di produrre. Il capitalismo si basa sull’aumento costante della produzione, e questo che genera il consumo cosi come lo conosciamo e non viceversa. In sostanza non è la domanda che genera l’offerta ma è l’offerta che genera la domanda. Dobbiamo fare un lavoro culturale sul Mediterraneo e capire insieme ai tunisini che la Tunisia è un paese bellissimo in cui vale la pena restare e migliorare, dobbiamo decolonizzarci il cervello come diceva Sankara, immaginare un nuovo modo di stare insieme nel Mediterraneo ma ovviamente bisogna prima di tutto costruire quella autonomia politico/amministrativa che non è concessa sotto l’UE e la NATO. L’Italia e mi permetto di dire Lampedusa potrebbero trainare il processo di unione dei popoli del mediterraneo e questo a lungo termine il nostro compito.
*Intervista realizzata il 22 settembre 2019