di Martina Trione
Clara Zetkin scriveva:
“Le linee direttrici dovranno indicare chiaramente che la vera emancipazione delle donne sarà possibile solo attraverso il comunismo. Occorre sottolineare con forza il rapporto sui mezzi di produzione. In questo modo tracciamo una linea di demarcazione ferma e indelebile contro il movimento delle «chiacchiere sui diritti delle donne».”
Non bisogna confondere il femminismo e la questione femminile.
Il femminismo come movimento politico è emerso dopo le rivoluzioni liberali ed è di natura borghese. In precedenza abbiamo avuto esperienze di lotte delle donne basate sulla loro specifica condizione, ma come movimento politico è sorto allora e mosso dal pensiero liberal-borghese, le cui motivazioni e aspirazioni sono inquadrate nello spettro ideologico liberale.
Ciò non significa che nessuna di queste lotte non debba oggettivamente essere sostenuta, ma è essenziale chiarire che la questione delle donne, in senso stretto e storico, era parte integrante delle lotte rivoluzionarie e le cui aspirazioni non erano di natura liberale ma come parte di un processo rivoluzionario di trasformazione sociale.
Il mantra ripetuto mille volte secondo cui noi comunisti trascuriamo la questione femminile fino al momento della rivoluzione è una falsità storica, l’integrazione delle lavoratrici nella lotta per la rivoluzione – e quindi il lavoro incessante per porre fine alle divisioni sessuali all’interno della classe lavoratrice – è sempre stata una costante.
All’interno dei movimenti rivoluzionari, quindi, la questione delle donne è stata affrontata, anche collaborando con il femminismo quando è stato possibile o addirittura necessario. Gli stessi processi rivoluzionari hanno lavorato costantemente su questa questione, basta pensare all’esperienza sovietica o a quella cubana. E la questione femminile affrontata dai movimenti rivoluzionari è stata ed è più efficace per raggiungere determinati obiettivi.
Il caso dell’URSS è servito da esempio per le richieste e le politiche che successivamente sono state portate avanti in altri paesi. L’intero sistema previdenziale dell’URSS, infatti, significava un prima e un dopo per il mondo, così come le sue politiche per l’emancipazione delle donne.
Appena un mese dopo la rivoluzione sovietica, venne concesso il primo congedo di maternità nella storia. All’inclusione delle donne nel mondo produttivo, il rafforzamento della formazione accademica femminile e di un’effettiva partecipazione politica, si affiancavano politiche per garantire il libero sviluppo della loro sessualità, oltre all’obbligo di responsabilità dello Stato per la cura della famiglia e quindi la liberazione delle donne dalle catene domestiche, già dal Congresso dei lavoratori e delle contadine del 1918 attraverso le parole della leader bolscevica Inessa Armand:
“Ci stiamo avvicinando al tempo della costruzione del socialismo. Per sostituire i milioni e milioni di piccole unità economiche individuali, di cucine rudimentali, malsane e scarsamente attrezzate e di lavanderie ingombranti, dobbiamo creare strutture collettive esemplari, cucine, sale da pranzo e lavanderie”.
Le donne sovietiche in soli vent’anni divennero referenti politici, professionali, artistici e anche militari, come le famose aviatrici sovietiche che terrorizzavano i nazisti, tanto che essi le definirono “Le Streghe della notte”.
La donna conosceva quote di uguaglianza impossibili in un sistema capitalista.
A Cuba, prima della rivoluzione, le donne rappresentavano il 12% della forza lavoro, attualmente rappresentano il 46% del lavoro statale e il 17% del lavoro non statale. Dal 3% dei laureati prima della rivoluzione, oggi rappresentano più del 48% dei laureati e la maggioranza nelle iscrizioni universitarie (62%). Se qualcosa spicca sulla rivoluzione cubana, sono i suoi medici: il 69% dei medici cubani sono donne. Le donne cubane rappresentano il 47% dei lavoratori della scienza e 8 procuratori su 10 sono donne a Cuba. A livello politico, il 49% dell’Assemblea Generale del Potere Popolare sono donne, 9 rappresentanti nel Consiglio dei ministri, 10 delle 16 Assemblee provinciali sono guidate da donne, e nel resto delle funzioni di rappresentanza politica, occupano circa la metà delle posizioni.
Al contrario, qualsiasi sistema di sfruttamento richiede il controllo sulla capacità riproduttiva delle donne e quindi sviluppa politiche e una cultura che incoraggiano questa situazione. Il problema dell’oppressione specifica delle donne non potrà mai essere risolto in un sistema di sfruttamento, compreso ovviamente quello capitalista.
Il problema del postmodernismo non è quello che si è avuto con il femminismo (che pure è stato distruttivo), ma quello con le lotte rivoluzionarie affinché dimenticassimo la nostra storia e i nostri obiettivi, assumendone altri che, anche se occasionalmente possono essere raggiunti, non sono i nostri, con parole chiave che hanno molta responsabilità in questa confusione che si sta creando.
Come dati, alcune delle grandi conquiste che vengono ricordate oggi, e che sono state “appropriate” dalla borghesia, non sono figlie del femminismo (inteso come movimento politico specifico), ma del movimento operaio, come l’8 marzo che oggi è più rivendicato dai movimenti femministi che dai movimenti rivoluzionari. Il che è molto pericoloso perché le donne che lavorano hanno bisogno di questa lotta, e la lotta ha bisogno di donne che lavorano.
Di fronte alla più che evidente precarietà del lavoro, all’aumento della violenza strutturale dovuta principalmente alla crisi capitalista e all’avanzata imperialista, le donne lavoratrici si trovano in una posizione particolarmente vulnerabile, per cui è necessario fare molto lavoro sul campo interno ed esterno.
L’ideologia dominante ci atomizza costantemente; se non la affrontiamo, promuovendo una lotta internazionalista e una solidarietà di classe, finirà per schiacciarci defiitivamente.
L’8 marzo è una rivendicazione delle donne lavoratrici, non di tutte le donne, e in quanto tale bisogna battersi affinché restituisca alla classe lavoratrice il suo ruolo storico come unico soggetto politico necessario alla trasformazione sociale.
Tutto il resto paralizza la lotta reale.