di Sabrina Cristallo
Consideriamo i numeri. È indubbio che le future generazioni troveranno l’anno da poco concluso sui libri di storia. Il 2020, abitato per intero dalla crisi pandemica, segnerà sulla linea del tempo un riferimento e un cambiamento epocale in tutto il mondo. Ma come appartenenti organiche alla classe lavoratrice, più che di svolta dobbiamo parlare di accelerazione.
Infatti, non è certo una novità il divario occupazionale che, anno dopo anno, si registra in Italia tra uomo e donna. Una forbice che si allarga ulteriormente nel momento in cui la donna mette su famiglia.
Proprio in questi giorni, Il Sole 24 Ore ha riportato uno studio che rivela come “le donne occupate con figli che vivono in coppia sono solo il 53,5%, contro l’83,5% degli uomini a pari condizioni”. Se l’arrivo di un figlio incentiva l’occupazione maschile ma fa crollare quella delle donne è evidente che ci troviamo ancora oggi di fronte ad una cosiddetta “questione femminile” completamente irrisolta.
In seno al sistema capitalista, la donna continua a muoversi con fatica all’interno della società, così divisa tra la propria funzione riproduttiva e quella produttiva principalmente a causa di un terzo ruolo che lo Stato borghese e il costume le addebita tutt’ora: quello improduttivo di mantenimento della casa, dei figli, degli anziani e talvolta dei disabili della famiglia.
Dicevamo, accelerazione. Sì, perché la quasi totale assenza di welfare, condizione preesistente ed ovviamente esplosa all’ennesima potenza con l’emergenza sanitaria e i suoi effetti che, a distanza di un anno, non sono stati arginati volutamente, risulta essere il tassello mancante che incide prepotentemente sulla vita della donna lavoratrice e delle classi popolari e che – sottolineamolo – fa risparmiare allo Stato circa 400 miliardi.
Per quanto può sembrare anacronistico, sulla donna pende ancora la scelta tra lavoro e famiglia e l’attuale crisi ha solo contribuito a favorire ed estendere a più persone questa condizione.
Dei 444mila occupati in meno registrati in Italia in tutto il 2020, infatti, il 70% è costituito da donne. Risultano ancora più allarmanti i dati Istat del mese di dicembre che confermano la tendenza del capitalismo a schiacciare le fasce più deboli: il 98% di chi ha perso il lavoro è donna, ovvero, su 101mila nuovi disoccupati, 99mila sono donne.
Alla manodopera femminile, impiegata soprattutto nei settori attualmente più colpiti dalla crisi come quello dei servizi e quello domestico, spesso sono attribuiti contratti che offrono poca sicurezza e stabilità, come il part-time. Le donne diventano dunque le prime vittime sacrificali dei padroni ma anche le prime a rinunciare al lavoro per poter affrontare la maternità e la vita famigliare, in particolare in un momento storico come questo, in cui alla precarietà lavorativa ed economica si aggiungono anche l’incertezza sanitaria e scolastica.
Se vogliamo dare risposte concrete per risolvere la “questione femminile”, una riflessione diventa ancora più necessaria: l’esigenza del rovesciamento dell’attuale sistema. Ed è proprio con le parole di Aleksandra Kollontaj che vogliamo salutare questo 8 marzo.
“Nella società borghese, in cui l’economia domestica è parte integrante del sistema economico capitalistico, in cui la proprietà privata genera la stabilità del chiuso quadro famigliare, le donne che lavorano non hanno via d’uscita.
La liberazione della donna non può compiersi che attraverso una trasformazione radicale della vita quotidiana. E la vita quotidiana stessa non sarà trasformata che attraverso una ricostruzione radicale di tutta la produzione, sulle nuove basi dell’economia comunista.”