di Benedetta De Vanni
Durante l’annuale assemblea di Confindustria, tenutasi lo scorso 29 settembre, il Presidente Carlo Bonomi dichiarava: “Servono scelte per l’Italia del futuro”, aggiungendo subito dopo: “Scelte anche controvento. Serve il coraggio del futuro”. In queste poche, il Presidente riassumeva, forse inconsapevolmente, tutto quanto di sbagliato si possa leggere nelle oltre 380 pagine della relazione “Il coraggio del futuro. Italia 2030-2050”, redatta e pubblicata dalla stessa Confindustria.
Sin dalla Prefazione, sempre a cura di Bonomi, e dall’Introduzione si intuisce, infatti, una certa discordanza tra i presunti obiettivi del testo e le conclusioni che invece ne emergono: se l’intento principale sembra essere quello di realizzare un’impietosa analisi del panorama economico, politico e sociale contemporaneo, per poi fornire un’adeguata risposta alle problematiche e alle sfide che questo presenta per il nostro paese, tale progetto viene tradito fin dalle prime righe. In primo luogo, l’armamentario concettuale sul quale viene edificata l’intera relazione è sostanzialmente divergente rispetto alle argomentazioni e alle conclusioni che vengono esposte. Termini concettualmente complessi come “futuro” e “imprevedibilità” – per non parlare della locuzione “homo faber”, sulla quale è stato compiuto un vero e proprio scempio – vengono scientemente ridotti a banali significanti, contenitori vuoti pronti per essere riempiti di significati e riflessioni aberranti e, talvolta, anacronistiche. Così, il futuro è messo in relazione esclusivamente alla progettualità economica e l’imprevedibilità all’emergenza Covid-19: un’operazione riduzionistica non soltanto mal riuscita, ma della quale si sarebbe benissimo potuto fare a meno se questo documento non avesse voluto l’ardire di presentarsi come la “buona novella” degli industriali per la società intera.
Sì, perché è sufficiente dare un’occhiata all’Indice per intuire la pretesa di valenza universale del messaggio di Confindustria, che quindi non intende rivolgersi esclusivamente agli industriali o agli imprenditori, ma a tutti quanti i protagonisti della società, e nel fare questo tenta, grossolanamente, di coinvolgere i lettori mediante l’utilizzo di un vocabolario anche emotivamente impattante, senza, tuttavia, riuscire a non perdere di credibilità.
Fin qui orrori concettuali e una capacità comunicativa discutibile; tuttavia, le dolenti note giungono successivamente, già a partire dal Capitolo 1, e accompagnano tutto quanto il resto della relazione.
Comun denominatore di queste note dolenti è la volontà di rimarcare il primato della sfera economica su ogni altro ambito della società civile. Così, come sempre accade nei sistemi capitalistici, la politica è la prima vittima. Confindustria non le risparmia attacchi su nessun fronte, adottando come metro di misura l’aziendalizzazione dello Stato stesso: semplificazione dei meccanismi di governance, modernizzazione e velocizzazione dei processi decisionali, il tutto per conferire maggiore autonomia per gli attori economici. Ovviamente, tale autonomia non si accompagna a una presa in carico delle responsabilità che inevitabilmente comporta una maggiore possibilità di manovra per le imprese: nel documento si sottolinea, infatti, a proposito del licenziamento (ma non solo), che dovrebbe essere lo Stato a riqualificare chi venga licenziato, mentre gli imprenditori, sborsando cifre irrisorie, potranno godere di una più ampia libertà in materia di licenziamento. Sempre in materia di lavoro, Confindustria precisa immediatamente, nel che
“l’intervento del legislatore deve poi essere mirato a creare un ambiente normativo stabile, che dia certezze alle imprese, mentre per garantire quel necessario miglioramento nell’incontro tra domanda e offerta di lavoro va sviluppata la relazione fra pubblico e privato nell’intermediazione”;
successivamente, il documento offre una serie di indicazioni pratiche che hanno tutte l’obiettivo di giungere alla formazione di “un mercato del lavoro più libero e leggero”. In particolare, si fa riferimento alla necessità di usufruire sistematicamente di “contratti flessibili, contratto a termine e somministrazione a termine”, giungendo ad equiparare questa tipologia di contratti con quelli a tempo indeterminato, come se la parità di trattamento che accomuna questi contratti esaurisse totalmente le necessità dei lavoratori nel loro vivere quotidiano! Infatti, come sopperire, seguendo questa logica, alla mancanza di stabilità che deriverebbe dall’esclusiva adozione di questa tipologia di contratti? Confindustria non fornisce alcuna soluzione.
Politica e lavoro sono soltanto due dei numerosi ambiti per i quali Confindustria propone l’aziendalizzazione forzata; altrettanto degni di nota e collegati ad essi sono il welfare e l’istruzione.
In merito al welfare, Confindustria concepisce un potenziamento delle politiche sociali soltanto laddove esse possano favorire un maggiore tasso di occupazione e un vantaggio reale per le imprese. Infatti, nel documento è possibile leggere che il potenziamento del welfare dovrebbe avvenire
“mediante il sostegno al welfare aziendale e finanziamenti diretti alla creazione di servizi di cura e custodia per l’infanzia e la non autosufficienza, compresa l’erogazione di voucher”;
successivamente, si aggiunge che
“la sussidiarietà del privato nei confronti del welfare state dovrà essere riconosciuta e premiata dallo Stato”:
insomma, per farla breve, le imprese otterrebbero maggiore controllo sul welfare, a patto che lo Stato risarcisca fiscalmente il loro impegno, cosicché lo Stato non avrebbe controllo sulle politiche sociali e non avrebbe alcun vantaggio da un punto di vista economico.
Per quanto riguarda l’istruzione, fin dall’introduzione a questo tema, il leitmotiv del testo sembra essere il medesimo delle precedenti argomentazioni. Dietro al titolo fuorviante “Modernizzazione delle politiche dell’educazione e potenziamento della formazione continua”, che farebbe ben sperare, si cela infatti, ancora una volta, il “modello impresa”, pronto ad essere applicato all’intero sistema educativo italiano. Utilizzando come ariete l’annosa questione dell’alto tasso di disoccupazione tra i giovani, Confindustria si prepara il terreno per proporre il proprio modello di scuola e di università, la cui struttura fondamentale è costituita da un processo di aziendalizzazione dell’intero settore dell’istruzione. Dall’edilizia scolastica alla didattica, l’approccio degli industriali si basa unicamente sulla promozione di un vincolo sempre più stretto tra il mondo scolastico e quello dell’imprenditoria, che avrebbe come risultato la costituzione di una relazione univocamente determinata, in cui scuola e università si troverebbero completamente assoggettate al mondo del mercato.
Il documento di Confindustria si chiude con un capitolo dedicato a quello che sarà lo scenario macroeconomico da oggi fino al 2050: un insieme di cifre e percentuali che sembrano avere come unico scopo quello di ribadire la necessità per il nostro paese di accogliere la ricetta proposta fin qui dagli imprenditori.
Sin dal principio, come scritto inizialmente, si ha l’impressione che la relazione di Confindustria tradisca quello che, almeno in teoria, dovrebbe essere il suo obiettivo finale, ossia un’impietosa analisi della realtà contemporanea, accompagnata dalle relative risposte a interrogativi che questa pone di fronte agli occhi della società; e tale impressione diventa un dato di fatto al termine della lettura del documento. Pur prendendo le mosse dalla crisi sanitaria, poi tramutatasi anche in crisi socio-economica del Covid-19, il documento degli industriali non sembra minimamente voler rendere conto di quelli che sono stati gli effetti causati da questa emergenza: infatti, sebbene, durante questi mesi, il modello capitalista abbia dimostrato tutta la sua inadeguatezza , Confindustria continua non soltanto a sostenere questo sistema, ma addirittura mira ad una sua promozione, proponendone l’adozione incondizionata in ogni settore della società, tramite processi di aziendalizzazione e privatizzazione, che lascerebbero allo Stato e alla gestione pubblica soltanto oneri e alcun vantaggio.
D’altronde, processi del genere sono già in corso da tempo nel nostro paese. Basti pensare a quanto è stato realizzato nel corso degli ultimi anni nel contesto del mondo del lavoro, in quello dello scuola e in quello del welfare: in tutti questi ambiti, tramite riforme nazionali e/o provvedimenti locali, si è cercato – riuscendoci, purtroppo – di favorire gli interessi della media-grande imprenditoria, fregandosene deliberatamente di tutti quei cittadini che non rientravano in questa categoria ma che costituiscono la stragrande maggioranza di questa nazione: lavoratori dipendenti, piccole partite IVA, studenti, pensionati.
Non dobbiamo dimenticare che tutto questo è stato realizzato grazie ad attori e istituzioni politiche conniventi e completamente prone al volere del potere economico, come l’Unione Europea e i partiti che in questi anni hanno governato l’Italia, fossero essi riconducibili al centrodestra o al centrosinistra (o a “sé stanti”, come il Movimento 5 Stelle).
Come comunisti, non possiamo fare a meno di sottolineare che la crisi innescata dalla pandemia che stiamo affrontando altro non ha fatto se non evidenziare o, in qualche caso, accelerare semplicemente quelle che sono le conseguenze endemicamente, inevitabilmente prodotte dal sistema capitalista. Ciò è facile da comprendere se si pensa al settore sanitario, che, dopo anni di tagli e ridimensionamenti perpetrati a vantaggio della sanità privata, ha mostrato in questi mesi tutta la propria inefficienza ed inadeguatezza.
Ma Confindustria questo non lo dice, non lo prende in considerazione, così come tace sulle nefandezze che in questi anni sono state compiute sulla pelle dei lavoratori – con la Legge Fornero, con il Jobs Act, con l’abolizione dell’Articolo 18 – o su quella degli studenti – con la Riforma Gelmini, prima, e con la Buona Scuola, dopo; eppure, queste nefandezze sono state compiute in nome di quei principi liberisti che gli industriali difendono a spada tratta e che, anzi, vorrebbero incrementare ancora di più.
In altre parole, Confindustria redige un documento di 385 pagine nelle quali lamenta la condizione in cui versa attualmente la società italiana, ma dimentica di considerare che quest’ultima è figlia di quelle stesse politiche di aziendalizzazione e di privatizzazione che propone invece come farmaco.
La ricetta dei comunisti è diversa: urge un cambio di sistema, un ribaltamento radicale dei principi cardine sui quali basare la nostra società; una società che ponga al centro dei propri interessi l’essere umano, non il profitto, ma gli ideali dell’eguaglianza, come diritto fondamentale da far valere in ogni ambito della vita sociale e civile.
È soltanto mediante l’attuazione di questi propositi che ogni cittadino potrà ottenere una vita dignitosa.
Per questo serve costruire un grande Partito Comunista.