di Graziano Gullotta
Sei anni fa iniziava l’intervento militare che portò alla morte di Muammar Gheddafi, provocando la fine dello stato unitario in Libia e l’inizio di una fase estremamente turbolenta a livello politico locale e internazionale che persiste tuttora. Com’è noto, l’intervento militare fu spinto in primis da Francia e Gran Bretagna per lo scopo neanche troppo velato di sostenere i propri monopoli petroliferi, rispettivamente Total e British Petroleum, verso una nuova ripartizione dei mercati che vedeva l’italiana ENI in un ruolo privilegiato nei rapporti economici con la Libia del Colonnello. L’intervento militare, sotto l’egida dell’ONU, fu possibile anche per l’assenso della Russia alla No Fly Zone che in sostanza consentì il rovesciamento del regime esistente. A distanza di 6 anni, possiamo capire qualcosa di più sulla situazione in Nord africa e in Medioriente, partendo proprio dall’analisi dei rapporti tra la Russia, l’ONU, i due governi esistenti de facto in territorio libico, tenendo in considerazione sullo sfondo, per così dire, gli avvenimenti della guerra in Siria.
La Russia a dicembre 2016 ha superato l’Arabia Saudita al primo posto della classifica dei maggiori produttori mondiali di greggio. È innegabile che specialmente dopo gli ultimi sviluppi del conflitto siriano, il paese eurasiatico abbia guadagnato forza politica, economica e militare nella regione mediorientale. Recentemente, ROSNEFT, il monopolio a guida governativa russa, diretto da uno stretto consigliere del presidente Putin, ha siglato un accordo con l’Iraq, per l’acquisto di greggio, l’esplorazione e la produzione dello stesso nella regione irachena semiautonoma del Kurdistan, diventando il primo monopolio a tessere rapporti con la regione e «sviluppando nuovi mercati mondiali per il greggio curdo» come affermato in un comunicato della compagnia da parte dell’Amministratore delegato Igor Sechin. Nello stesso periodo un duplice accordo con Egitto e Libia ha garantito diritti di esplorazione e produzione nei rispettivi territori. Inoltre, sempre in Egitto la compagnia di stato russa ha acquistato 2.8 miliardi di dollari di azioni del campo di estrazione di gas ENI a Zohr.
Fino a pochi anni fa la Rosneft si occupava principalmente di campi, pozzi e oleodotti presenti nello sconfinato territorio russo, ad eccezione del Venezuela. Se oggi il monopolio petrolifero del Cremlino sta al centro di un imponente rete che spazia dal Qatar (che ne ha acquisito una holding a dicembre), alla Siria, all’Iraq per quanto riguarda il Medio Oriente, fino ad espandere e infittire le proprie maglie in Nordafrica, in paesi come l’Egitto e soprattutto la Libia, ci possiamo rendere conto di come si stiano rimescolando in fretta le posizioni dei vari stati e degli interessi dei monopoli che rappresentano.
Tutti questi tasselli si ricompongono in una nuova strategia russa di influenza politica, economica e militare che copre un’immensa area che va dal Nord africa alla penisola arabica.
Non vi è alcun dubbio che la Libia occupi un posto di primo piano in questo disegno, essendo la prima riserva di greggio e di gas in Africa ed una delle prime al mondo, tanto da spingere alcuni osservatori a sostenere che l’intervento Russo in Siria fosse dovuto in gran parte alla grossa partita che si stava giocando in Libia.
Prima della cosiddetta primavera araba e dell’assassinio del Colonnello, la Russia aveva importanti contratti di vendita di armi con il governo libico: contratti adesso bloccati da un embargo sulla vendita di armi. All’indomani dell’intervento militare si andarono formando due entità separate di governo, spaccando il paese a metà: un governo sostenuto dall’ONU con sede a Tripoli e uno con sede a Tobruk, quest’ultimo ha man mano stretto i rapporti col Cremlino.
Khalifa Haftar, il capo del Libyan National Army di Tobruk, ha viaggiato due volte negli ultimi sei mesi in Russia per incontri con alti ufficiali russi ufficialmente per la questione ISIS in territorio libico, ma ci sarebbe altro in ballo. Si pensa che l’idea del Cremlino sia di sostenere ed appoggiare il governo di Haftar al fine di creare una sorta di governo fantoccio filorusso e assicurare i precedenti contratti di vendita di armi, oltre che per garantire i nuovi contratti energetici. In questo senso è stato firmato un accordo secondo cui la Russia si impegna a costruire due basi militari vicino Tobruk e Bengasi.
Tuttavia la questione del potere in Libia rimane estremamente complessa: i due governi sono privi di un sostegno popolare sufficiente, non si riconoscono a vicenda e restano in piedi fondamentalmente grazie al supporto degli interessi esteri, della Russia (dell’Egitto e Emirati Arabi) da un lato e Occidentale (con tutte le contraddizioni interne al campo NATO) dall’altro.
Caratteristico è stato l’ultimo conflitto per il controllo dell’importante terminale petrolifero di Ras Lanuf, nelle mani delle truppe di Haftar dallo scorso anno, che è stato conquistato dalle islamiste Brigate di Difesa di Bengasi, una milizia qaedista che dal giugno del 2016 raggruppa diverse milizie jiadiste alcune delle quali sostenitori del governo di Tripoli, appoggiato dall’ONU, guidato da al-Sarraj che cerca di strappare i porti petroliferi ad Haftar. In particolare, è emblematico il coinvolgimento nel combattimento della milizia di Misurata, una delle più importanti a sostegno di Tripoli, come evidenziato dalla rivista specializzata Analisi Difesa: «La presenza di forze di Misurata, milizia che gode del sostegno di Stati Uniti, Gran Bretagna e Italia, induce a valutare la possibilità che si stia costituendo un’alleanza tra milizie di Tripoli e forze jihadiste “benedetta” da diversi paesi occidentali con l’obiettivo di sconfiggere le truppe di Haftar dopo che il Maresciallo ha firmato un accordo militare con la Russia». Il parlamento di Tobruk, ha ritirato così il sostegno all'”accordo generale” raggiunto lo scorso anno dall’inviato delle Nazioni Unite, Martin Kobler (diplomatico tedesco), chiedendo nuove elezioni entro l’inizio del 2018. Nella lettera aperta si chiede anche a tutte le parti del paese, la condanna dell'”occupazione” di due stazioni terminali di esportazione di petrolio nella parte orientale della Libia da parte delle milizie islamiste di Bengasi.
Il vero potere sembra essere in mano alla National Oil Company, il monopolio energetico del paese, che è palesemente collegato agli interessi dei monopoli internazionali. Basta leggere le dichiarazioni del Presidente della NOC, Mustafa Sanalla, a margine dell’accordo con Rosneft: «Abbiamo bisogno dell’assistenza e degli investimenti delle grandi compagnie internazionali del settore petrolifero al fine di raggiungere i nostri obiettivi di produzione e stabilizzare la nostra economia” e ancora: “L’impegno dimostrato da Rosneft e la presenza di una compagnia di queste dimensioni in Libia, aiuterà la stabilità della regione dopo molti anni di conflitti».
La Libia è stata esclusa dall’accordo siglato recentemente dall’OPEC, il cartello internazionale dei paesi maggiori produttori di petrolio, riguardante la decisione di una riduzione collettiva della produzione di 1,8 milioni di barili al giorno, a partire dal primo gennaio. Inoltre, membri del board della NOC affermano che «oltre il 45% del territorio è ancora vergine, non è stato esplorato, quindi abbiamo ancora grandi territori da sfruttare con opportunità enormi». La produzione di petrolio prima della caduta di Gheddafi superava 1,6 milioni di barili al giorno. Con la guerra questo valore si è più che dimezzato e da qualche mese si attesta intorno ai 700 mila barili. Come affermato dal presidente del NOC, la compagnia è in cerca di finanziamenti dalle maggiori compagnie petrolifere internazionali, si parla di cifre dell’ordine dei 20 miliardi di dollari, per raggiungere un target produttivo di 2,1 milioni di barili al giorno entro il 2022.
In quest’ottica il Paese diventa una fonte di profitto eccezionale per i grossi monopoli del settore, assumendo un ruolo di primo piano nel conflitto interimperialistico internazionale.