Oggi cade il sessantacinquesimo anniversario del “fatti d’Ungheria” – come furono chiamati gli avvenimenti accaduti nella neonata Repubblica popolare nell’ottobre-novembre del 1956 – e quindi ci sembra opportuno soffermarci su quegli avvenimenti, che si svolsero in un anno cruciale per il movimento comunista internazionale e per il mondo intero.
Nel 1956 si verificarono i seguenti avvenimenti:
Stalin era morto tre anni prima, il 5 marzo 1953, e già da subito il “clima” in URSS e nei paesi a democrazia popolare era cominciato a cambiare. Osservare questi cambiamenti dalla prospettiva ungherese ci sembra particolarmente utile per capire come quell’avvenimento modificò profondamente il carattere del socialismo in URSS e, a cascata, in molti degli altri paesi che si avviavano sulla strada della costruzione del socialismo.
Proponiamo la lettura del libro di Herbert Aptheker “LA VERITÀ SULL’UNGHERIA”, pubblicato nel 1957 e tradotto da PARENTI EDITORE, FIRENZE. (La verità sull’Ungheria)
Il libro presenta un’ampia documentazione, soprattutto basata su fonti primarie (stampa e libri dell’epoca) e indubbiamente è estremamente utile per spazzare via le menzogne che la propaganda borghese dell’epoca riversò sul mondo intero, menzogne che ancor oggi sono propalate (anche a sinistra) da inveterati anticomunisti, irrispettosi innanzitutto della verità storica – per ignoranza, per abulia, per quieto vivere (quant’è difficile andare controcorrente difendendo il socialismo reale, cioè quello vero!), o anche per intimo e mai confessato odio verso chi ha costruito la pagina di storia più importante (scopriamo che appartenne a questa schiera anche il celebrato economista marxista Paul M. Sweezy). Anche in Italia la lacerazione fu grave e profonda tra le file del Partito Comunista, più nei settori “intellettuali” che si erano avvicinati al Partito, molto meno in quelli popolari. Per esempio l’alleato Partito Socialista si schierò con Mosca, come viene anche ricordato nel testo attraverso le citazioni dell’Avanti!
Quanto alle cause, questo libro è chiarissimo sulle trame eversive che l’imperialismo attuò in Ungheria, ritenendolo l’“anello debole” della catena dei paesi socialisti; fa un’attenta disamina storica delle condizioni politiche e materiali in cui si trovava il paese all’uscita da un millennio di oppressione clerico-feudale e da una guerra disastrosa che aveva lasciato il paese in macerie; descrive il deserto politico in cui si dovette ricostruire il paese, a causa di partiti che – unica eccezione il Partito Comunista – erano stati tutti collusi col potere fascista (compreso quello socialdemocratico) e non rigenerati da una, se non sporadica, resistenza antifascista; svela anche un carattere del popolo ungherese, avvelenato da secoli di sciovinismo nazionalista e antisemita specificatamente antirusso e filotedesco; riconosce i grandi meriti delle prime riforme attuate dal nuovo governo democratico, quali la riforma agraria, l’impulso all’industrializzazione del paese, la laicizzazione del sistema scolastico.
Le difficoltà nella costruzione del socialismo
È chiaro che nei primi anni dopo la Liberazione ci furono tante difficoltà.
La prima era legata al personale politico che si aveva a disposizione. Nell’ottobre del 1944 si costituì un Governo Libero ungherese di coalizione, sotto la presidenza di Ferenc Nagy (si badi bene a non confonderlo con l’omonimo Imre Nagy, dirigente comunista che incontreremo in seguito), capo del più forte partito legale non-nazifascista, i «piccoli proprietari», e con rappresentanti dei partiti socialdemocratico, comunista e contadino. In questo governo emergeva la figura di Matyas Rakosi, il quasi leggendario capo comunista, antico membro del governo di Bela Kun, che aveva subito più di sedici anni di prigione e di tormenti sotto Horty e aveva poi vissuto in esilio diversi anni nell’Unione Sovietica. Al ritorno di Rakosi, c’erano ancora nel paese forse 10.000 comunisti vivi, che avevano mantenuto le loro convinzioni e i legami col partito. Tutti gli altri partiti avevano continuato a funzionare legalmente sotto Horty, e sebbene alcuni dei loro seguaci, specialmente fra i socialdemocratici, avessero subito persecuzioni, nessuno di loro aveva visto qualcosa di lontanamente simile alla repressione e alla distruzione fisica che era toccata ai comunisti; d’altra parte, nessuno di loro aveva così chiari titoli di antifascismo, ed era ovvio che questa precisamente sarebbe stata la condizione minima per tutti della partecipazione all’edificio della nuova Ungheria. In questa situazione è chiaro che anche il Partito Comunista dovette attirare nuovi membri, semplicemente per disporre di persone da destinare ai compiti immediati, fino a giungere a un estremo per cui dopo il 1950 il partito comunista – anche tenendo conto della fusione coi socialdemocratici nel 1948, da cui nacque il nuovo partito operaio ungherese – poteva annunciare un seguito di 800.000 membri, in un paese che contava in tutto poco più di 8 milioni di abitanti.
La seconda difficoltà fu costituita dai partiti che formavano la coalizione, che si opposero alle riforme non appena esse cominciarono a diventare più incisive. L’unanimità ebbe fine sulla questione del socialismo. Il partito nazionale contadino e i dirigenti dei piccoli proprietari, per non parlare dei gruppi alla loro destra, nonché l’ala destra della socialdemocrazia, si pronunciarono contro l’eliminazione della proprietà privata dei mezzi di produzione; invece il partito comunista, una parte considerevole dei capi socialdemocratici e la maggior parte della base socialista, insieme a una frazione incerta dei piccoli proprietari, chiedevano la collettivizzazione di questa proprietà e la creazione di una società socialista. Nel novembre 1946 le cinque maggiori imprese industriali furono poste sotto l’amministrazione dello Stato; nel maggio 1947 lo stesso avvenne per le cinque banche principali. La nuova Ungheria andò per la seconda volta alle elezioni generali il 31 agosto 1947 e, nonostante questa volta ci fu un deciso intervento nella campagna elettorale da parte della gerarchia cattolica molto più aperto che nel 1945, il partito comunista conquistò più voti di tutti gli altri partiti singolarmente presi: la maggioranza degli elettori ungheresi si pronunciò chiaramente per il socialismo, anche se in gradi e modi diversi. Ciò consentì l’adozione di una nuova Costituzione, che proclamava formalmente la Repubblica popolare in Ungheria, che entrò in vigore il 20 agosto 1949. Il 28 dicembre dello stesso anno fu compiuto anche l’ultimo passo, nel campo dell’industria, adeguato a questa forma politica: la nazionalizzazione di tutte le imprese con più di dieci dipendenti e di tutte le imprese possedute e controllate dal capitale straniero.
La terza causa di difficoltà si possono ritrovare nei rivolgimenti economici. In alcuni settori fondamentali della vita i mutamenti e le conquiste del dopoguerra furono consolidati e ampliati negli anni dal ‘50 al ‘54, il periodo del primo piano quinquennale ungherese, durante il quale il paese cambio il proprio volto rapidamente e drasticamente. Dal punto di vista sociale si realizzò un servizio di sicurezza sociale, l’eliminazione della disoccupazione totale e parziale, ferie pagate, tasso della mortalità ridotto alla metà, scomparsa dell’analfabetismo totale e apertura ai figli provenienti da famiglie operaie e contadine che costituivano ormai la maggioranza, abolizione di ogni discriminazione confessionale. Dal punto di vista economico dal 1950 a tutto il 1953 le percentuali d’incremento dell’industria pesante furono più elevate (generalmente molto più elevate) in Ungheria che in qualunque altro paese a struttura socialista. Tuttavia nel 1953, anno della morte di Stalin, ci fu un radicale ripensamento in questa politica, sia in Ungheria che in altri paesi socialisti, a cominciare dall’URSS. Nel 1954, quando i paesi orientali allentarono la pressione sullo sviluppo dell’industria pesante, in Ungheria il rovesciamento degli accenti fu deciso e completo: solo in Ungheria la flessione fu così grande da far registrare una diminuzione rispetto al 1953. Un cambiamento così drastico e improvviso non poté non avere violente conseguenze disequilibratrici sull’intera economia del paese. Anche la collettivizzazione dell’agricoltura avvenne con tempi e modalità particolarmente accelerate. Nel settore delle spese militari l’Ungheria si distinse fra tutti i paesi vicini per il notevole peso sopportato. Il ritmo di sviluppo industriale assunse proporzioni enormi in Ungheria tra gli anni immediatamente precedenti e immediatamente successivi al 1950, che esprime certamente la piena utilizzazione della capacità produttiva, ma anche un aumento delle ore lavorative, governate attraverso il sistema delle norme-salario per cui veniva ridotto il compenso unitario per pezzo prodotto. La modifica delle norme-salario, non accompagnata da una riduzione dei prezzi, la fine del razionamento dei commestibili e di diversi altri generi abolito alla fine del 1949, seguito da un moto ascensionale dei prezzi piuttosto rapido, e la grave siccità del 1952 portò a una diminuzione dei salari reali, sebbene alleviato tra la fine del ‘53 e il ’54 da misure importanti, che provocò un aspro risentimento tra gli operai, salvo quelli in cui la consapevolezza di classe e di partito era più altamente sviluppata.
Come quarta causa si può citare l’eredità delle distruzioni belliche e dei pagamenti in conto riparazioni che l’Ungheria doveva all’URSS. La linea di condotta dell’U.R.S.S. riguardo alle riparazioni ungheresi fu abbastanza generosa, concedendo dilazioni dei pagamenti, il 20 gennaio 1948 la remissione di 17 milioni di dollari e l’8 giugno dello stesso anno la rinuncia al 50 % di tutti i pagamenti ancora pendenti. Inoltre gli accordi commerciali tra l’Ungheria e l’U.R.S.S. andavano a beneficio dell’esportatore di prodotti finiti e importatore di materie prime (cioè, nel nostro caso, dell’Ungheria), perché, a differenza dei prezzi delle materie prime, quelli dei prodotti finiti rimasero stazionari o subirono qualche flessione sul mercato mondiale. Tuttavia la propaganda sciovinista non mancò di esasperare e distorcere questi fatti.
Una quinta causa era stata individuata il 21 luglio 1956 dal comitato centrale del partito che conteneva dati precisi sulle cosiddette “violazioni della legalità” in Ungheria, parlava di «gravi violazioni della legge» e di «persone innocenti, rivoluzionari, comunisti, veterani del movimento operaio» che erano stati fra le vittime, e dichiarava che le indagini, «ormai vicine al compimento», avevano portato alla revisione di 474 casi di ingiustizia. In altri 1100 casi, in cui fu confermata la colpevolezza dei condannati ma emersero circostanze attenuanti di varia natura, le pene furono drasticamente ridotte. Ora, a vedere con occhio attento queste cifre, non si può certo parlare di un “terrore di massa”, come ha fatto e fa la propaganda anticomunista. Diciamo che, in una situazione di gravi sconvolgimenti, attacco forsennato da parte del nemico interno ed esterno, scarsa solidità ideologica dei nuovi membri di Partito, il fatto che ci fossero circa 1.500 processi in cui qualcosa non abbia funzionato a dovere è del tutto comprensibile. In particolare ben due terzi dei condannati non furono riconosciuti innocenti, ma a essi furono ridotte le pene. Tuttavia questa politica, condotta dall’interno sull’onda del XX Congresso del PCUS, portò a una delegittimazione del Partito con gravi conseguenze sulla sua credibilità. Il 18 luglio 1956 Matyas Rakosi si dimise, adducendo le sue condizioni di salute. «Ma oltre a questo – aggiungeva nella sua lettera di dimissioni – i miei errori nel campo del culto della personalità e della legalità socialista rendono più difficile alla direzione del partito di concentrarsi pienamente sui compiti che ci stanno di fronte». Così si dimetteva un uomo che per più di quarant’anni era stato un leale dirigente del movimento comunista; che aveva raccolto i soldati ungheresi contro gli invasori romeni nel 1919 al fianco di Bela Kun, aveva scontato sedici anni nelle galere di Horthy, sopportato anni di segregazione cellulare, sofferto ripetutamente la tortura, ed ebbe le piante dei piedi ridotte a pezzi senza piegare il capo; condannato a morte nel 1925, non aveva ceduto, ed aveva avuto un ruolo eminente nell’Ungheria liberata, fin dal 1945. Vedremo chi furono quelli che lo sostituirono e quali furono gli immediati risultati della loro politica.
Già dalla metà del 1953, dopo la morte di Stalin quindi, vengono concentrati gli sforzi, riassunti e simbolizzati in un mutamento di persone che vide l’avanzamento di Imre Nagy a una posizione di rilievo nel partito e alla carica di Primo ministro nel Governo. In effetti, nel periodo dal luglio 1953 ai primi mesi del 1955 fu ottenuto un miglioramento considerevole delle condizioni di vita della maggioranza della popolazione, grazie, oltre che alla nuova politica, anche alle eccellenti condizioni atmosferiche del 1953, che resero possibile un raccolto record, tre successive riduzioni dei prezzi, la costruzione di un numero di case doppio del 1952-53. Nel 1955, si criticò severamente il soverchio della svolta e in aprile Nagy fu allontanato dalla carica di Primo ministro, e in novembre, essendosi egli dichiarato in aperta opposizione con le decisioni del marzo, fu espulso dal partito. Nagy, ormai al di fuori del partito, ma ancora con un considerevole seguito al suo interno, portò le sue tesi di fronte all’opinione pubblica in generale e intraprese un’aspra e potente campagna contro la direzione e la linea del partito.
Gli avvenimenti
In questo contesto cominciarono nel 1956 le dimostrazioni. All’alba del 23 ottobre, il quotidiano del partito, Szabad Nep, usciva con un articolo di fondo, in cui dava il benvenuto alle dimostrazioni di studenti e giovani che erano preannunciate sottolineando con orgoglio il fatto che «la grande maggioranza dei dimostranti prendono parte all’azione come fermi seguaci del socialismo». Verso le 22,30 del 23 ottobre, il comitato centrale si riunì in seduta d’emergenza: confermo Gerö come primo segretario del partito, ma offrì la carica di Primo ministro, per la seconda volta, a Imre Nagy. Contemporaneamente, i gruppi armati si radunavano, e nelle prime ore del 24 ottobre si accingevano all’assalto di altri edifici pubblici. Soltanto verso le 8 del mattino il Consiglio dei ministri diede il primo annuncio dell’«attacco armato contro gli edifici pubblici e contro le nostre formazioni armate compiuto da elementi reazionari fascisti». Nel corso della mattinata, il Governo proclamò la legge marziale. Finalmente, ancora il 24 ottobre, prese un terzo passo: annunciando che «gli organi del Governo non hanno fatto conto della possibilità di vili e sanguinosi attacchi», il Consiglio dei ministri fece appello «alle formazioni sovietiche di stanza in Ungheria» perché venissero al suo aiuto, in conformità con le clausole del trattato di Varsavia. Pur rispondendo affermativamente alla richiesta, le formazioni sovietiche non intrapresero azioni armate degne di nota fino al giorno successivo. Però, a Budapest riprendevano gli attacchi armati. Fu il giorno 25 che bande di armati incendiarono il Museo nazionale, appiccando il fuoco contemporaneamente in una dozzina di punti diversi: lavoratori, semplici cittadini e alcuni pompieri, che cercarono di arrestare la distruzione delle opere d’arte inestimabili e dei documenti storici contenuti nel Museo nazionale, furono accolti dalle pallottole sparate dai tetti delle case vicine. Sempre il 25, nei villaggi fuori Budapest e nelle campagne, gruppi di armati da venti a cinquanta uomini, montati su veicoli e senza pretese o parole d’ordine di purificazione del socialismo o di qualunque altro genere, cominciarono a darsi alla caccia all’uomo. Questo era semplice terrorismo fascista e nello spazio di poche ore, prima della fine della giornata, in circa quindici piccoli centri dei dintorni le bande procedettero sistematicamente al massacro di tutti i comunisti noti, presidenti dei Consigli locali, guardie di polizia e dirigenti di cooperative e collettivi. In questo momento, e ancora per diversi giorni, le truppe sovietiche confinarono il loro intervento soltanto entro Budapest, ciò che spiega i massacri diffusi che avvennero fuori della città.
Però si diffusero le voci più orribili, specialmente intorno ai russi: e su scala mondiale, l’apparato commerciale della stampa e della radio fece del suo meglio per inventare e ingigantire le storie di «atrocità». Oltre a quella sui 600 morti della piazza del Parlamento, un’altra tenace menzogna, propalata e ripetuta dovunque, fu quella che i «selvaggi» russi avevano massacrato, prima cento, poi duecento, e finalmente trecento neonati e bambini in una clinica di Budapest. Si videro anche le fotografie, coi loro bravi lettini vuoti, e la storia circolò da ogni parte. Solo il 13 novembre – quando l’ordine era ormai tornato e la favola non si poteva più sostenere – fu trasmesso dai corrispondenti da Budapest un dispaccio in cui si stabiliva che nessuno dei 300 bambini era stato ucciso, in effetti, che «nessuno dei 300 o più bambini [della clinica] ha sofferto offesa».
Intanto però, fuori della capitale e soprattutto nell’occidente del paese – dove il confine con l’Austria era stato aperto fin dal mese di luglio e dove ogni sorta di strani personaggi entrava nel paese, a migliaia – continuavano le azioni di guerra contro la polizia e le formazioni militari ungheresi, fino a che alla sera del 26 ottobre, gli insorti avevano il controllo della frontiera con l’Austria e di una dozzina di capoluoghi di distretto nella parte occidentale dell’Ungheria. Nel tardo pomeriggio del 26 le sparatorie ripresero anche a Budapest, e a partire da quel momento gli assassinii di singoli comunisti diventarono frequenti anche in città. Il giorno successivo, 27 ottobre, fu annunciata una riorganizzazione del Governo: il Gabinetto consisteva ormai interamente di comunisti anti-rakosisti e di diversi capi di altri partiti. Ma le forze che per prime avevano fatto uso della violenza, e che persistevano nel servirsene, erano ben lontane dall’accontentarsi degli sviluppi fin qui ottenuti. Esse non mostrarono alcuna intenzione di fermarsi a questo punto; e di giorno in giorno, rinforzi e sostegni per la loro azione affluivano in Ungheria attraverso la frontiera austriaca. Dalle zone insorte dell’Ungheria occidentale, e contemporaneamente da Radio Europa libera, da altre trasmittenti in Spagna, in Italia e in Germania occidentale, e ultimamente anche nell’interno dell’Ungheria stessa, venivano lanciate richieste sempre nuove, che riflettevano un ininterrotto spostamento verso la destra. Il 28 ottobre cominciò a essere avanzata la domanda della denuncia immediata e unilaterale del patto di Varsavia da parte dell’Ungheria, dell’immediata neutralizzazione dell’Ungheria, il cui status avrebbe dovuto essere garantito da un accordo delle quattro grandi Potenze, in cui le Potenze capitaliste avrebbero messo in minoranza l’Unione Sovietica per 3 a 1, e finalmente di mutamenti economici nel senso di una marcia indietro della socializzazione. Di più, a partire dallo stesso giorno cominciarono a venir diffusi messaggi radio in russo e migliaia di manifestini pure stampati in russo, incitanti le truppe sovietiche a disertare, ad ammutinarsi, ad unirsi agli insorti in una santa crociata contro l’Armata Rossa.
A partire dal 31 ottobre le posizioni decisive nel Governo di Budapest non erano più nelle mani dei comunisti, ma piuttosto di una coalizione la cui maggioranza consisteva di un eminente socialista di destra e di tre non-socialisti. Nel pomeriggio dello stesso giorno si avanzò la proposta che al cardinale ultrareazionario Mindszenty, che era stato relegato negli anni successivi alla liberazione, fosse concesso di «ritornare alla sua sede episcopale di Esztergom, e riprendendo la sua attività come Primate d’Ungheria, contribuire… alla nobile lotta che vede nelle sue file, in questo momento storico, ogni vero patriota». Mindszenty, che era stato rilasciato dalla prigione nell’estate 1955 e viveva in una sorta di arresto a domicilio in un possedimento che gli era appartenuto come principe, fu effettivamente liberato da questa forma di detenzione durante la serata del 30 ottobre. Egli dichiarò semplicemente: «Riprenderò l’opera dove la interruppi otto anni or sono». Ancora in quest’ultimo giorno di ottobre fu annunciata la ricostituzione del partito nazionale contadino, del partito dell’indipendenza, del partito democratico del popolo; il primo novembre si ricostituirono il partito cattolico del popolo e l’associazione cattolica nazionale. Ciascuno di questi movimenti aveva antecedenti che risalivano al regime horthysta e ai raggruppamenti antigovernativi del periodo 1945-48. Sempre il 31 ottobre, venne l’annuncio che il Consiglio nazionale dei sindacati ungheresi era sciolto, e che lo sostituiva una nuova organizzazione detta Federazione nazionale dei sindacati liberi ungheresi. Sempre il 1° novembre, Nagy tornò ancora una volta ai microfoni della radio per annunciare nuovi «progressi». All’ambasciatore sovietico a Budapest era stato comunicato da Nagy stesso che l’Ungheria denunciava senz’altro e seduta stante il trattato di Varsavia. Il Governo aveva proclamato ufficialmente la neutralità dell’Ungheria, e chiesto al segretario generale delle Nazioni Unite di mettere all’ordine del giorno «la questione ungherese» e lo status neutrale del paese; pure attraverso il segretario dell’O.N.U., Nagy aveva chiesto ufficialmente che la neutralità ungherese venisse garantita da un accordo fra gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, la Francia e l’Unione Sovietica. Questo discorso di Nagy si chiuse con un saluto all’Ungheria «libera, democratica, indipendente e neutrale». L’ultimo attributo era un’aggiunta. Nessun cenno di «socialista».
Allo scivolamento verso destra soccorreva intanto la progressiva disintegrazione del partito dei lavoratori ungheresi. Priva di un partito marxista unito, attivo e fiducioso, la classe operaia stessa era come un corpo senza testa, le cui varie membra andavano simultaneamente in tutte le direzioni – di fatto, paralizzandola. Perciò, nel momento della spinta reazionaria, la società ungherese non disponeva di una forza di resistenza efficace e organizzata che vi si potesse opporre: e questo fatto accresceva di molto il pericolo di un’immediata soluzione fascista della crisi.
Poi, il tre novembre, fu annunciata ancora una volta la formazione di un nuovo Governo, e anche questa volta il rimpasto rappresentava un ulteriore spostamento verso destra: su undici membri elettivi del Governo, due soli erano comunisti, degli altri nove, tre appartenevano al partito dei piccoli proprietari, tre rappresentavano i socialdemocratici, due il partito contadino, e l’ultimo era un indipendente. Alla fine di ottobre non vi era più nessuna forma di controllo di frontiera, mentre il paese stesso – col Governo centrale sciolto e ricostituito quasi ogni giorno e tendente a spostarsi sempre più verso destra ad ogni nuovo cambiamento – si avvicinava a uno stato di caos, e cominciava a esser preda del terrore bianco. Nel frattempo, Radio Europa libera trasmetteva per l’Ungheria un programma di 20 ore al giorno. Esse invocarono insistentemente la continuazione dell’azione armata, promettendo a chiare lettere che importanti aiuti materiali sarebbero presto arrivati dall’occidente.
Il 4 novembre fu intrapreso uno sforzo supremo per ricostruire un partito rivoluzionario marxista-leninista, che doveva fare appello all’aiuto armato dell’Unione Sovietica per cacciare indietro le forze della reazione e del fascismo, soffocare il terrore bianco, conservare integro il settore socialista e mantenere il suo sistema di difesa, ed eliminare il pericolo per la pace mondiale rappresentato da un’Ungheria reazionaria, centro della restaurazione nel cuore dell’Europa. Fu proclamata la costituzione del Governo rivoluzionario operaio-contadino d’Ungheria. Lo stesso giorno le unità dell’Armata Rossa ritornarono a Budapest con forze più grandi e con maggior decisione di quello che era avvenuto il 24 ottobre. I sovietici impegnarono soltanto mezzi corazzati meccanizzati: non furono usate forze aeree e nessuno o praticamente nessun contingente di fanteria. I mezzi corazzati essenzialmente carri armati di media portata, condussero una battaglia di risposta, non di attacco attivo: dove gruppi di resistenza si manifestavano sparando, i carri armati sovietici rispondevano al finché la resistenza era cessata. Non ci fu un ordine generale di fuoco, né un intervento sistematico dell’artiglieria. Fuori di Budapest, vennero impiegati mezzi e tattiche simili: qui, essenzialmente, furono occupati i nodi e le arterie principali di comunicazione, e contemporaneamente venne arrestata l’infiltrazione di gruppi avversari e di rifornimenti militari attraverso il confine occidentale.
La grande maggioranza del basso popolo di Budapest non prese parte ai combattimenti in nessuna delle loro fasi. Non è vero che l’intera nazione abbia partecipato all’insurrezione. Se veramente le masse si fossero sollevate e avessero svolto un ruolo attivo, gli avvenimenti sarebbero stati di carattere e durata completamente diversi: quanto meno, si sarebbe vista una lotta generale e prolungata e non una serie di scontri molto limitati, nettamente sporadici e generalmente brevi. La maggioranza della classe operaia non prese parte ai combattimenti: restò alquanto apatica, generalmente in posizione di sfiducia verso i dirigenti in tutte le fasi, e sempre più diffidente man mano che il potere si spostava sempre più verso destra. Anche la massa dei contadini non partecipò alle azioni armate, e, nel complesso, si trovò alla opposizione del movimento verso destra quando questo cominciò a mettere in questione la riforma agraria.
Esame delle cause degli avvenimenti
Herbert Aptheker nel suo libro sottolinea che
«Gli errori commessi in Ungheria sembrano rientrare in quattro categorie principali, connesse reciprocamente e ciascuna integrante e aggravante le altre.
Esse furono: 1. Il non aver saputo fare un posto adeguato ai sentimenti nazionali del popolo ungherese. 2. L’insistenza in una politica economica gravemente unilaterale, che condusse all’arresto dello sviluppo del benessere materiale delle masse e, in certi periodi, a un peggioramento delle loro condizioni, le quali non andarono mai al di là di un livello tradizionalmente alquanto basso. 3. La richiesta di un’«unità monolitica» in tutte le sfere della vita, realizzata con terribile rigore, e degenerata in grossolana prepotenza burocratica e in intollerabili violazioni della legalità, dei sentimenti umani e del più semplice decoro civile. 4. La mancata salvaguardia dello slancio rivoluzionario e della purezza morale del partito marxista-leninista.
1 … è cosa chiara e ormai ammessa da tutti che l’Unione Sovietica, sotto la guida di Josif Stalin, praticò tattiche intimidatorie che spesso offendevano profondamente i sentimenti nazionali dei paesi fratelli, ma più deboli, che lavoravano alla costruzione del socialismo. Ciò non riguardò soltanto l’Ungheria, ma certamente non meno lei di altri paesi: e in sostanza si riassumeva nella fanatica preoccupazione, che caratterizzò la politica staliniana, per la più stretta unità e per l’universale adozione di politiche preformate che facevano un conto straordinariamente piccolo delle differenze e delle sensibilità nazionali. Così, ancora, i nomi di centinaia di strade e di dozzine di città e villaggi furono mutati, la lingua della potenza liberatrice venne sostituita, al posto del tedesco, come la sola lingua obbligatoria. La soluzione adottata in molti campi fu quella di trasportare meccanicamente i metodi in uso al momento nell’Unione Sovietica. Perfino le feste nazionali, o anche feste religiose dotate di profondi echi nazionali, furono lasciate cadere senza motivo apparente o arbitrariamente modificate. Parimenti, il nuovo emblema nazionale della Repubblica ungherese non avrebbe dovuto combinare i simboli del socialismo con le gloriose memorie di Petöfi e di Kossuth?
È chiaro, nel complesso, che i dirigenti comunisti, nello sforzo di eliminare gli ultimi vestigi dello sciovinismo e dell’aggressività nazionalista, che tanto erano stati diffusi in Ungheria, dimostrarono una grossolana insensibilità per sentimenti nazionali tanto profondi che potenti nel loro popolo, e si mostrarono troppo propensi ad adottare un atteggiamento di internazionalismo proletario che sapeva chiaramente di servile imitazione dell’Unione Sovietica – e quindi era tutto fuorché autentico internazionalismo proletario. La colpa di queste assurdità va attribuita, sembra ovvio, almeno in egual misura ai dirigenti sovietici, per aver permesso se non anzi incoraggiato, la loro attuazione.
Di pari passo con tutto ciò si ripetevano interminabilmente prolisse celebrazioni del debito dell’Ungheria verso l’Unione Sovietica per la liberazione dal fascismo: ciò che è una verità storica, senza dubbio, ma tutto anche la verità, può essere ucciso dalla retorica. Così, man mano che il tempo passava, e il rito del riconoscimento del debito nazionale verso i sovietici non accennava a diminuire, esso appariva a un numero sempre maggiore di ungheresi come una forma particolarmente ingrata di ossequio servile.
Il Governo della nuova Ungheria, sotto la guida di Rakosi, offese dunque in primo luogo i sentimenti nazionali della maggior parte dei suoi cittadini. I documenti di cui possiamo disporre mostrano chiaramente che ciò fu una delle fonti più importanti dello scontento popolare.»
Desideriamo commentare questa prima considerazione. Non c’è dubbio che ci sarà stato un potere esercitato da un partito immaturo, che però doveva urgentemente rinnovare profondamente la storia del paese e la sua narrazione presso un popolo intossicato da secoli di sciovinismo. Ciò può essere una causa di tale disastro? Francamente se paragoniamo questi fatti, certamente disdicevoli, a quello che è avvenuto nello stesso periodo nel nostro paese, il confronto è impietoso. In Italia l’americanismo, la piaggeria nei confronti del “liberatore”, raggiunse nel 1948 vertici parossistici: citiamo, uno per tutti, il famigerato Piano Marshall, che asservì la ricostruzione italiana alla politica filoatlantica. E d’altro lato, perché la sacrosanta distruzione, fatta da parte dei liberatori dell’Italia, del racconto storico fatto fino ad allora dal fascismo, diventa «offesa dei sentimenti nazionali» quando praticata in un paese che aveva vissuto un fascismo non meno sciovinista di quello italiano? Lo studio del tedesco fu bandito dalle scuole in Ungheria, come in Italia, e introdotto il russo in modo generalizzato, come da noi l’inglese. I miti nazionali furono stravolti in Italia più che in Ungheria. Le feste borghesi in Ungheria furono abolite, ma in Italia durante le feste popolari, come il 1° maggio, si faceva strage di lavoratori, come a Portella della Ginestra nel 1947. A confronto dell’Ungheria, il sentimento nazionale e popolare nei paesi al di qua della “cortina di ferro” fu molto più pesantemente offeso. Con ciò non vogliamo dire che fu giusto farlo lì, ma che sembra poco credibile che questa potesse essere una causa davvero scatenante del malcontento, altrimenti in Italia e in tutta Europa avremmo dovuto fare la rivoluzione.
«2. Il secondo elemento importante dello scontento popolare fu, soprattutto a partire dal 1949, la concentrazione profondamente unilaterale dello sviluppo produttivo sull’industria pesante a spese di quella leggera, insieme al ritmo grandemente forzato con cui fu perseguito lo sforzo di socializzazione dell’agricoltura. L’eccessiva concentrazione sull’industria pesante, a sua volta, fu uno dei fattori principali del progresso insufficiente, e per un certo periodo, del regresso, delle condizioni di vita delle masse oltre il livello relativamente elevato raggiunto all’inizio del 1950. Non vogliamo negare, con ciò, quel che anzi abbiamo cercato di mettere in luce in un precedente capitolo, ossia la profonda necessità dell’industrializzazione e della razionalizzazione e collettivizzazione dell’agricoltura, sia per l’edificazione del socialismo che per il semplice miglioramento del tenore di vita. Questa necessità, che si presentava e si presenta tuttora, in vario grado, in tutta l’Europa centrale e orientale, era particolarmente viva proprio in Ungheria, ma una volta compreso questo e sottolineati gli effettivi risultati ottenuti dalla nuova Ungheria nell’edificazione di una economia attualmente e potenzialmente solida, resta vero che questa politica, storicamente giusta e necessaria, fu attuata con un metodo profondamente errato e con un ritmo gravemente forzato.
Ci limiteremo a richiamare tre punti essenziali. In primo luogo, il grado di concentrazione sull’edificazione dell’industria pesante fu più elevato in Ungheria che in altre parti del mondo socialista, e anche qui, sembra, si vide una ripetizione assai povera d’immaginazione di esperienze sovietiche compiute in circostanze diverse. ln secondo luogo, l’abbandono di questa linea, nel 1953, fu attuato in Ungheria con un passaggio più brusco e radicale che in ogni altro paese. Finalmente, il ritorno parziale alla vecchia politica, che doveva rimediare l’eccesso di correzione del 1953, fu compiuto in Ungheria più rapidamente che altrove – entro il 1955 – ma ancora una volta, in forme più rigide ed esagerate. Specialmente netto, in particolare, fu il ritorno alla politica di prima del 1954 nell’agricoltura.
Non vi furono solo, in generale, la riduzione dei salari reali, l’intensificazione dei ritmi di lavoro, l’inasprimento del problema degli alloggi, la pressione sui contadini, particolarmente su quella maggioranza che era ancora al di fuori del settore socialista: oltre a ciò, lo squilibrio si faceva sentire in una serie di fatti abbastanza secondari, ma esasperanti, che, aggiungendosi ai più gravi motivi di insoddisfazione, accendevano l’inquietudine popolare.»
Ora queste considerazioni stridono con quanto descritto nella parte centrale del testo, in cui si riporta come, alcuni di questi eccessi furono corretti già nei primi anni ’50. Ma ci preme sottolineare una considerazione che ancora fa riferimento al fattore soggettivo, ossia alla guida politica del Partito. Eccessi furono compiuti anche in URSS durante la fase della collettivizzazione. Stalin nel prezioso articolo “Vertigine dei successi. Sulle questioni del movimento di collettivizzazione agricola” apparso sulla Pravda il 2 marzo 1930[1], critica aspramente gli errori e le deformazioni avvenute in quel periodo in URSS. In quella fase non solo l’URSS non aveva l’appoggio di nessun altro paese, ma doveva affrontare collettivizzazione e industrializzazione tutto da sola. Si disfece l’URSS negli anni ’30? Certo che no, anzi i suoi successi costituiscono la pagina più gloriosa della storia dell’umanità. E allora cosa differenzia il successo sovietico dall’insuccesso ungherese? Probabilmente non tanto per gli errori ed esagerazioni («degenerazioni, questa collettivizzazione per decreto, queste minacce indegne contro i contadini … queste deformazioni … una burocratica fabbrica di decreti» arrivava a chiamarle Stalin), che avvengono in tutti i momenti di trapasso rivoluzionario, ma quanto perché la guida e la tensione rivoluzionaria fu minata proprio da coloro che invece volevano «rigenerare» questo Partito, esponendolo invece agli attacchi della reazione.
«3. In Ungheria, specialmente con l’intensificazione della guerra fredda – dal piano Marshall alla dottrina Truman, alla «pacificazione» della Grecia con le bombe al napalm, alla creazione della N.A.T.O. e all’inclusione in essa della Germania occidentale e di così scelti campioni del mondo libero come il Portogallo e la Turchia (anch’essa diventata «nordatlantica») – si svilupparono, dal 1949 alla metà del 1953, una rigidità, un insieme di metodi burocratici e di direzione amministrativa autoritaria, sempre più oppressivi e odiosi per strati sempre più larghi della popolazione. A ciò venne aggiungendosi, col tempo, l’imposizione estremamente rigida della dottrina dell’«unità monolitica», non solo all’interno del partito dei lavoratori ungheresi, ma in tutti i momenti e i settori della vita. La più rigida supercentralizzazione divenne la regola: le organizzazioni giovanili, studentesche, le organizzazioni degli scienziati, dei giornalisti, degli insegnanti, degli scrittori, furono unificare in modo che, per ciascuna categoria, non vi fosse più che un organismo unico su scala nazionale. Nel frattempo, altre organizzazioni, come le federazioni sindacali e quelli che avrebbero dovuto essere i più larghi raggruppamenti di massa, come il Fronte popolare, diventavano meri organismi di raccolta di contributi e vidimazione di carte.
Bisogna poi considerare il fatto che, verso il 1955, il partito raggiungeva la cifra di 900.000 membri, su circa 9 milioni di abitanti dell’Ungheria. Ciò significava, in realtà, un’enorme duplicazione delle istanze direttive e della stessa appartenenza alle organizzazioni di massa: e il risultato era che la direzione politica del partito tendeva sempre più a mancare di ogni contatto con la base e la voce diretta dell’opinione pubblica. Quando questo avviene – come avvenne largamente in Ungheria – si ha una situazione che incoraggia di per se stessa il burocratismo, il nepotismo, il favoritismo, le forme più grossolane di corruzione e di pura incompetenza. La centralizzazione dello Stato e del partito fu spinta in Ungheria, a partire dal 1949, fino alla quasi identificazione dei due organismi. Il risultato fu che la rigida unicità del partito e la sua crescente burocratizzazione si impressero in tutte le strutture dello Stato: anziché conservare la sua funzione di ispirazione e di guida il partito divenne, con la forza dello Stato, onnipotente.»
Anche qui, non sono avvenimenti che non si siano verificati anche in altri paesi socialisti, a cominciare dall’URSS. Nel suo Rapporto al XVIII Congresso del P.C. (b) dell’URSS, tenutosi il 18 marzo 1939, il compagno Andrei Zdanov, dopo aver criticato le epurazioni di massa fatte in modo cieco e burocratico negli anni passati, la necessità di reintegrare completamente nella vita del Partito i compagni prima epurati e poi riabilitati, la necessità di democratizzare la vita del Partito e dello Stato socialista attraverso il sistema elettorale a suffragio diretto e segreto, sottolineava:
«L’esperienza ha dimostrato che il lavoro delle organizzazioni di partito ha avuto successo là dove le organizzazioni di base hanno saputo unire il lavoro politico alla lotta per attuare con successo i piani per la produzione, per migliorare il lavoro dell’apparato statale per impadronirsi della nuova tecnica, per rafforzare la disciplina nel lavoro, per sviluppare il movimento stakhanovista, per portare nuovi quadri al lavoro del partito nel campo dell’economia. E, al contrario, là dove le organizzazioni del partito hanno trascurato l’economia, limitando i loro compiti più all’agitazione e alla propaganda, o là dove le organizzazioni di partito si sono addossate il compito, che non apparteneva a loro, di direzione dell’economia, sostituendosi agli organi economici, snaturandoli, il lavoro, inevitabilmente è sboccato in un vicolo cieco» (sottolineatura nostra, corsivo di Zdanov, NdR).
Quindi anche qui possiamo dire che è l’opera di direzione del Partito, saldo e unito sulla base dei principi del marxismo-leninismo, che ha dimostrato di essere l’unica garanzia di successo. Un Partito dilaniato, non che nasconda i propri errori inevitabili, ma che distrugge le basi della sua direzione e credibilità verso le masse, porta ai disastri che abbiamo narrato hanno caratterizzato il ’56 in Ungheria. Il Partito in URSS era molto più saldo, ha saputo resistere per molti più anni alla degenerazione introdotta dalle riforme economiche ma anche ideologiche khrusceviane. Ma anche lì, dopo anni e anni, quando la stessa direzione fu poi usurpata da opportunisti, oggettivi agenti della reazione, come la cricca gorbaceviana, il socialismo è crollato anche in URSS e a quel punto non ci fu più nessuno che venne in soccorso al potere socialista.
«4. In Ungheria, gli anni dal 1949 al 1953 furono contrassegnati dall’istituzione di un sistema di violazione della legge, pieno di restrizioni di censura, crasse ingiustizie e soprattutto terribili violazioni dei diritti umani. In questa sede, non discutiamo i motivi: le azioni furono atroci, quali si adattano alle macchine repressive dei sistemi di sfruttamento. Dire che esse violarono i principi elementari del marxismo-leninismo è dir poco – esse violarono le più semplici considerazioni di umanità. Vittime delle peggiori espressioni del sistema furono comunisti e socialisti; il quadro generale delle illegalità e della paura si estese fino a gettar la sua ombra su buona parte della nazione. Il sistema della repressione, fonte basilare dello scontento fra il popolo, contribuì più di ogni altra singola deviazione a gettare il discredito su tutto il partito, e a scuotere la fede dei militanti nei fondamenti del marxismo-leninismo. Si diffuse largamente il sistema della censura. Ma, oltre a tutto ciò, apparve il terrore. I fatti irrefutabili che riguardano questo punto rappresentano per chi scrive qui qualcosa di altrettanto penoso per ogni altro essere umano – al di fuori degli infelici che ne furono vittime. A cominciare dall’arresto, dalla prevaricazione processuale e dall’esecuzione del dirigente comunista Laszlo Rajk, diverse migliaia di persone, per la maggior parte comunisti e socialisti, furono arrestate più o meno arbitrariamente, più o meno ingiustamente condannate, e in molti casi – forse qualche centinaio – iniquamente uccise.
I dirigenti del Ufficio della Sicurezza Statale arrestarono molti comunisti, che furono poi condannati dai tribunali in base ad accuse e testimonianze inventate e ottenute con la forza.»
Di questo abbiamo già detto. L’Ungheria era in quella fase un paese assediato dall’esterno e dall’interno, diretto da un Partito Comunista inesperto, forse rimpinguato alla bell’e meglio da elementi carrieristi, che si dovette sobbarcare l’onere di guidare contemporaneamente anche il paese in una fase concitata e difficilissima dal punto di vista politico ed economico. È normale che non si andasse tanto per il sottile. Tuttavia, come anche il testo racconta, furono i dirigenti comunisti ad essere severamente colpiti, quando accusati di gravi crimini, e non le masse. Fu il Partito ad essere severo con se stesso, conscio dell’enorme responsabilità storica che grava sulle sue spalle. Anche qui, sembra difficile che questo abbia potuto incrinare la fiducia delle masse, anzi avrebbe dovuto accrescerla, se non ci fosse stato uno scontento dentro il Partito e non fuori di esso, che invece che alla sua “rigenerazione” portò alla sua completa delegittimazione. Anche i continui cedimenti a destra del governo nel 1956, prima a guida comunista “riformata”, che poi cedette la direzione a elementi sempre più legati alla reazione imperialista, portarono alla delegittimazione del potere socialista. Fu la debolezza di quella “nuova e rigenerata” classe dirigente a creare le cause del disastro e poi a precipitarvi il paese. Furono più i comunisti ammazzati nelle strade dalla violenta rivolta fascista che quelli che furono coinvolti dalle “purghe”. E tra questi, quanti erano quelli che effettivamente meritavano il castigo proletario? Dei numeri abbiamo parlato: revisione di 474 casi e 1100 casi di pene ridotte, quindi comunque riconosciuti colpevoli. Quello che però non si sottolinea nel testo è che forse restarono ancora ampie sacche di nemici del socialismo che furono in grado di svolgere impunemente la loro azione. Un esempio per tutti quell’Imre Nagy, espulso dal Partito, poi ripescato e addirittura portato a dirigere il governo. Herbert Aptheker scrive prima del 17 giugno 1958, quando un comunicato del ministro ungherese della giustizia informava che Nagy e altri controrivoluzionari, erano stati condannati a morte e giustiziati il giorno prima.
La posizione ufficiale dei comunisti ungheresi
Il 7 dicembre 1956 il comitato centrale provvisorio del partito operaio socialista ungherese pubblicò una risoluzione sulle cause e la natura degli avvenimenti di ottobre-novembre. Questi fattori principali furono, secondo la risoluzione, quattro.
Primo. «La deviazione dai principi del marxismo-leninismo nella vita del partito e dello Stato, e nella vita economica», da parte della direzione di Rakosi e Gerö, a partire dal 1949.
Secondo. «Un ruolo assai grave nello sviluppo degli avvenimenti ebbero» alcuni elementi dell’opposizione alla direzione suprema del partito, guidati da Imre Nagy e Geza Losonczy. I loro sforzi erano in buona parte lodevoli, ma la loro azione di critica diventò sempre più radicalmente distruttiva e cominciò a perdere lo spirito di partito e un qualunque orientamento di partito.
Terzo. «Un ruolo fondamentale è stato svolto dalle attività controrivoluzionarie degli horthysti e dei vecchi proprietari fondiari e capitalisti, dirette alla restaurazione del sistema capitalistico e della grande proprietà fondiaria».
Quarto. «L’imperialismo internazionale ha avuto un ruolo essenziale e decisivo»: «il suo scopo era quello di rivolgere contro il socialismo le masse dei democratici. Ancor prima dell’ottobre esso inviò le sue scolte avanzate in Ungheria, in numero sempre crescente, per svolgere un’opera di sovversione. L’obiettivo finale dell’azione imperialista era quello di creare un nuovo focolaio di guerra in Europa».
La risoluzione riafferma che «la maggioranza dei giovani che scesero a manifestare nelle strade di Budapest il 23 ottobre, disgustata dagli errori e dai metodi di direzione della cricca di Rakosi e Gerö, lottava però per eliminare gli errori sulla via dell’edificazione del socialismo».
Da queste posizioni ci possiamo rendere conto quanto sia stata opportunista la posizione dei vertici comunisti ungheresi, appoggiati dalla direzione khrusceviana. Tutta la responsabilità venne addossata alla direzione precedente, che invece aveva avuto grandi meriti in una situazione difficilissima, prima e dopo la liberazione. Addirittura si lodano elementi come Imre Nagy e sodali, che si dimostrarono in combutta con la reazione e la sovversione imperialista. Si arriva a lodare i giovani che erano scesi in strada annebbiati dalla propaganda imperialista. In ultimo non si fa cenno di critica alla direzione politica del partito che aveva portato in quei giorni al disastro, abbandonando il proprio ruolo di guida della classe operaia e del governo popolare.
In conclusione possiamo capire da questi fatti che la nuova direzione opportunista filo-khrusceviana che aveva preso il potere in Ungheria nel 1956, ma aveva già minato la direzione marxista-leninista già subito dopo la morte di Stalin nel 1953, porta gravi responsabilità per quello che accadde. Si ribellò alla dittatura del proletariato perché essa, fin quando era diretta da elementi inflessibili e fedeli al socialismo, era diversa dalla natura della società che essi volevano costruire. Sabotò l’unità del Partito, arrecando ad esso gravi danni di credibilità e rendendo vulnerabile il potere socialista alla sovversione. Come fanno però sempre gli opportunisti, quando commettono i loro disastri, poi scaricano la responsabilità sempre su altri, manipolando la storia.
[1] http://www.bibliotecamarxista.org/stalin/vert_dei_successi.htm