Nel pieno di un’emergenza sanitaria che tiene in ginocchio il Paese, i diritti dei lavoratori precari, senza stipendio né tutele del settore culturale sono tra i più colpiti.
Alcuni di questi professionisti sono fermi dalla fine di febbraio, quando il propagarsi del Coronavirus ha costretto alla chiusura di alcuni luoghi di interesse culturale.
Gli ultimi a restare a casa sono stati gli archeologi, attivi anche a seguito di quanto decretato il 22 marzo che imponeva un freno ai servizi non essenziali, nonostante lavorassero in cantieri in cui osservare le norme di sicurezza sanitaria è pressoché impossibile.
Stiamo parlando di lavoratori con contatti precari, o che un contratto proprio non ce l’hanno. La maggior parte di loro guadagna poco (in Italia 8 lavoratori su 10 guadagnano meno di 15.000 euro l’anno), con retribuzioni molto spesso inferiori agli 8 euro all’ora. In pochi sono in possesso di un contratto da dipendente, in troppi lavorano nella precarietà di partite IVA, se non addirittura in nero.
Molti altri lavorano “a chiamata”, e sono i lavoratori che subiscono perdite nell’immediato, così come chi è pagato ad ore con i co.co.pro.
Sono centinaia le persone che in queste settimane stanno perdendo il proprio lavoro. Emblematico è il caso della società ALES Arte Lavoro e Servizi, partecipata al 100% dal MiBACT, che in questo periodo sta licenziando a tutto spiano, il tutto senza che venga spesa una parola da parte del Ministero. Al contrario, proprio da quest’ultimo è partito l’invito a sospendere tutti i contratti possibili.
Le prime ad essere aiutate sono state invece le imprese, con il decreto del 16 marzo che prevedeva delle misure specifiche volte a tamponare le perdite di aziende dello spettacolo dal vivo, del cinema e dell’audiovisivo, stanziando un fondo di 130 milioni di cui, chiaramente, non ha beneficiato chi all’interno di quelle aziende ci lavora.
Per non parlare delle migliaia di guide turistiche che, probabilmente, più di tutte risentiranno della crisi, visto il calo drastico del turismo in Italia causato da un’emergenza sanitaria scoppiata alle porte della nuova stagione culturale e turistica.
Gli operatori culturali sono stati i primi a subire gli effetti della crisi e, con molta probabilità, saranno gli ultimi a riprendersi.
In molti avevano sperato che il Decreto Cura Italia del 17 marzo prevedesse una qualche forma di ammortizzatore sociale anche per loro; ma, così come accade da decenni, sono stati esclusi e si ritrovano senza la possibilità di ottenere misure adeguate necessarie a fronteggiare l’emergenza.
Il vero danno non è nell’immediato, ma a lungo termine.
La situazione che stiamo vivendo ha puntato i riflettori su tutte le contraddizioni di un sistema al collasso, non più sostenibile per chi da decenni si ritrova a lavorare in condizioni di precarietà e sfruttamento.
Oltre a quella sanitaria, ci si ritrova adesso a fronteggiare un’altra emergenza: quella del lavoro precario nel settore culturale e dei lavoratori che si impoveriscono ulteriormente, senza che venga riconosciuta dignità alla loro professione.
Gli attivisti di “Mi riconosci? Sono un professionista dei beni culturali”, associazione che punta ad ottenere dignità ed eque retribuzioni per tutte e tutti i lavoratori e i professionisti del settore, hanno ideato un questionario mirato a far luce sulle condizioni dei lavoratori culturali ai tempi del Covid-19. L’inchiesta è durata dal 13 marzo al 3 aprile, ed ha accolto le risposte di circa 1900 lavoratori.
Dai risultati dell’indagine si evince che il 79% dei partecipanti ha già subito perdite significative sulla propria attività lavorativa, mentre il 18% teme di subirle a breve.
La maggior parte delle risposte arriva da persone che non superano i 45 anni, un quarto di esse appartiene a una fascia d’età che va dai 30 ai 35.
A rispondere sono stati principalmente lavoratori con contratti deboli o prestazioni occasionali: 38% circa di partite IVA, co.co.co., tirocini, interinali e un 3,9% che lavora senza contratto.
Neanche la metà di chi lavora con partita IVA lo ha scelto liberamente, per tutti gli altri si tratta di una condizione obbligata.
Più della metà degli intervistati ha dichiarato di aver subito, come conseguenza dell’emergenza sanitaria, un azzeramento o una perdita considerevole delle proprie entrate, meno di un quinto parla di perdite che si aggirano intorno al 50% della retribuzione prevista.
Di chi ha lavorato anche a seguito dei decreti del 9 e dell’11 marzo, circa la metà lo ha fatto in condizioni di assoluta sicurezza. Oltre il 37% ha lavorato in condizioni in cui le norme erano parzialmente rispettate, mentre il 27% dichiara di averlo fatto in totale assenza di sicurezza.
Solo il 12% degli intervistati dichiara che, in questa situazione, potrà resistere più di un anno, per buona parte grazie all’aiuto della propria famiglia. Il 51% ha ipotizzato di non poter resistere oltre i due mesi. Un 8% addirittura dichiara di non avere più di che vivere.
In ultimo e non per importanza, è stato appurato che il 78% degli intervistati considera inadeguate le misure messe in campo dal Governo per far fronte all’emergenza lavorativa del settore culturale.
A fronte di una simile situazione, qualsiasi manovra volta a mettere una pezza per arginare nell’immediato i danni subiti dai lavoratori non è sufficiente.
Chi opera nel campo dei beni culturali da decenni chiede un totale riassetto organizzativo della gestione del patrimonio culturale e artistico italiano, il superamento di contratti instabili e senza tutele, un’amministrazione pianificata, logica e lungimirante, e l’ottenimento di condizioni lavorative confacenti a professionisti che subiscono sulla propria pelle gli effetti di una crisi strutturale che affonda le proprie radici in un tempo che precede di molto quella più recentemente dichiarata.
Martina Trione