di Mattia Bertani
Viviamo una fase storica, uno di quei periodi che determinano un prima e un dopo, di cui si conosce il prima perché lo si è studiato o vissuto ma il dopo appare sconosciuto, incerto, grigio. Come si fa a prevedere il futuro, a mo’ di moderni Nostradamus o con frasi nebulose da vecchi profeti? Di certo non si può né pretendere né sperare di avere una sfera di cristallo o scrutare fondi di tazzine di caffè per sapere cosa rivelerà il “dopo”. Ma l’incertezza del domani pone sempre un bivio: lasciarsi travolgere dalla bufera o essere, la bufera; farsi trasportare dal fiume in piena o essere, la piena del fiume; farsi consumare dalle fiamme o essere, quelle fiamme. Il futuro, insomma, non si può prevedere ma si può costruire e una fase storica impone di scegliere se esserne parte passiva o attiva. La crisi attuale fa esplodere, continuamente e senza pietà, le contraddizioni del nostro tempo che sono quelle stesse contraddizioni di un sistema che, dopo aver risucchiato ogni risorsa materiale e spolpato l’essere umano come moderna carne da cannone nelle trincee del lavoro, si ritrova ora fragile, impazzito, un gigante Golia che colpito in fronte fa mille giravolte prima di cadere e nel mentre porta con sé nell’oblio tutto ciò che incontra nel tentativo di trovare un punto d’appoggio. Un sistema in crisi e per questo motivo spietato e violento, che tenta di salvare se stesso distruggendo ciò che rimane del suo capolavoro, la nostra società: è il capitalismo, lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, la ricchezza di tutti nelle mani di pochissimi che creano e distruggono a proprio piacimento, come moderni e sadici demiurghi, l’uomo moderno. Un “prima” che dura da secoli e che qui ed ora sferza una delle sue mosse più micidiali, appesantendo il giogo già disumano sulla classe lavoratrice e facendo cadere la scure del divario sociale anche su quelle categorie che, in un certo senso, si sentivano “protette” e “privilegiate”, ridisegnando le dinamiche di oppressi e oppressori dove i primi si accrescono sempre più mentre gli altri, in una sorta di perversa esclusività, giocano sulla pelle del popolo ad essere i primi, i più ricchi, i più potenti. Il tutto con una certa facilità e tranquillità dettata dalla sicurezza di aver compiuto, in particolare negli ultimi decenni, un ottimo lavoro nel mostrarsi al mondo con la maschera del padre benevolo che educa i figli, che elargisce doni come contentini per le frigne o che, seduto al tavolo alla sera, li guarda con fare fintamente sconsolato chiedendo sacrifici per arrivare alla fine del mese, con lo sguardo complice della madre che versa lacrime di coccodrillo di forneriana memoria, una mamma matrigna che per il lavoratore italiano si chiama Unione Europea.
Un padre-padrone che usa l’arma della repressione nei luoghi di lavoro e nelle strade chiamandola “questione di sicurezza”, con migliaia di morti sulla coscienza che ripulisce ora a suon di decreti, un padre-padrone che preferisce investire in armi piuttosto che in scuole e ospedali, quello stesso padre-padrone il quale afferma che, in fondo, la cultura non è un lavoro necessario, anzi, non è affatto un lavoro. Ed è proprio sulla questione culturale che vale la pena soffermarsi poiché in questa fase assume un ruolo di coprotagonista nella costruzione di un “dopo” diverso, di rottura. Una rottura che necessita in primis, però, di una feroce autocritica e di una nuova impostazione della lotta che deve necessariamente ri-entrare all’interno della più ampia concezione di “lotta di classe”.
Innanzitutto bisogna constatare che la crisi attuale non ha fatto altro che rilevare alla luce del sole un enorme problema, quello della cultura (del suo esercizio e della sua fruizione), ben più radicato, esistente già da tempo e in un certo senso “silente”, sicuramente inascoltato. Questo non deve stupire, dato che la sovrastruttura culturale di questo sistema non fa altro che rispecchiare la struttura e la logica delle sue fondamenta: ineguaglianza, sfruttamento, competizione sleale, privatizzazione. Ecco che allora un Paese come l’Italia dove di certo non mancano beni artistici, paesaggistici, culturali di inestimabile valore si trova spesso (e volentieri) a stringere compromessi con ricchi magnati per poter salvaguardare i suddetti beni, in una moderna e storpiata forma di mecenatismo priva, naturalmente, di qual si voglia scopo filantropico o intellettuale. Così si giustifica, dunque, un palazzo bene pubblico chiuso da un giorno all’altro per cene di gala o sfilate di alta moda; è il prezzo da pagare per il compromesso che spesso somiglia più a un patto col diavolo. Di contro, si sfrutta quello che sembra essere (e purtroppo in molti casi lo è) la linfa vitale per la gestione di molti siti d’interesse culturale: l’attività di volontariato. La lodevole iniziativa del singolo o del gruppo che decide di impegnare parte del suo tempo libero in questa attività non può e non deve sostituire il lavoro salariato cui potrebbero accedere persone qualificate che hanno speso tempo e soldi per i propri studi, in particolare quei giovani che hanno appena concluso il percorso accademico/ universitario e che non vedono oggi la possibilità di fare ci per il quale hanno studiato pagando (essi stessi o i loro genitori) rette e tasse sempre più pesanti e opprimenti, libri e materiale necessario per l’apprendimento; i giovani schiavi di una scuola e di un’università classista. Perché si sa, “con la cultura non si mangia” però ci si può mangiare sopra, le grandi abbuffate al banchetto del profitto.
Emblema di questa deriva è il mondo dello spettacolo, una grossa e importante fetta del panorama culturale, forse la più evidente e pop, per certi versi. Proprio nello spettacolo si può toccare con mano la spregiudicatezza di un sistema che risponde necessariamente a quelle logiche strutturali della società su cui esso si basa, dove puoi “diventare qualcuno” non tanto se te lo meriti ma se te lo puoi permettere. È un mercato che ha da tempo dimenticato il senso meritocratico, svendendo la qualità per una quantità, quella del denaro, da realizzare il più in fretta possibile spremendo la star del momento per poi gettarla poco dopo, già con la bava alla bocca per cercare la nuova gallina dalle uova d’oro. È una scalata al Monte Olimpo delle celebrità a cui non arrivi se cammini bene sul sentiero giusto ma se hai il costosissimo pass per l’ascensore che, in un attimo, ti porta alla vetta. Per tutti gli altri che rimangono giù restano i residui da contendersi, in una lotta che ha tutto il sapore della guerra tra poveri per l’istinto di sopravvivenza. Ed ora risuona, ridondante, la tiritera del “siamo tutti sulla stessa barca”, come se chi potrebbe vivere di soli diritti d’autore, trasmissioni televisive e ascolti web sia nella stessa drammatica condizione economica del musicista, attore, ballerino lavoratore in nero e precario. No, in questo sistema che genera disuguaglianza sociale anche l’arte, la cultura e lo spettacolo devono tenere bene a mente la propria appartenenza di classe e avere il coraggio di rompere lo schema onirico che sembra sollevare la cultura da ogni forma di conflittualità (interna ed esterna). Per compiere questo necessario (e urgente) passaggio bisogna però prima passare da un’altrettanta necessaria (e urgente) autocritica. Troppo spesso, infatti, il problema nasce e si sviluppa proprio dall’interno, rilevando un’arretratezza di pensiero che nuoce gravemente non solo ai diretti interessati ma, di riflesso, all’intero sistema culturale. Il problema, cioè, di non sentirsi lavoratori. O peggio, di rigettare l’idea di essere accomunati a una classe, quella lavoratrice, troppo spesso e infimamente bollata come “ignorante”, “analfabeta”, scollata volutamente da tutto ciò che può essere intellettuale. L’idea di essere dei nuovi dandy che vivono di estetica in una favola romantica, pensando di stare al di fuori, o meglio, sopra la realtà senza accorgersi, invece, che sono complici di quel sistema di cui questo tipo di cultura è l’espressione migliore. Gli intellettuali da salotto, la meglio espressione del pensiero borghese che divide costantemente lavoro manuale e lavoro intellettuale, denigrando il primo per esaltarne puramente il secondo.
È l’errore in cui è caduta tutta quella sinistra che ha preferito strizzare l’occhio all’élite, bramandone l’appartenenza, voltando le spalle alla classe che doveva difendere, quella operaia e lavoratrice tutta.
Quella stessa sinistra che, come nel caso della manifestazione del 30 ottobre 2020 in piazza della Scala a Milano, convoca piazze e presidi richiamando all’unità NON di classe, bensì di categoria, riproponendo la già citata frase dell’”ugual condizione”. Una piazza eterogenea, certo, “plurale” come piace chiamarla ai suddetti. Una piazza dove certamente non mancava il disagio di chi si è visto da un giorno all’altro distrutto il proprio futuro così a lungo sudato e preparato, o di chi nello spettacolo ci lavora ma nella veste di quella figura indispensabile che è l’operaio attrezzista, che vive la medesima condizione di tanti altri operai. Ma in quella stessa piazza, fianco a fianco, c’era chi orgogliosamente difendeva il proprio essere, per esempio, attore e NON lavoratore, volendo a tutti costi distinguere gli ambiti, separarli, tenerli distanti. C’era chi predilige esclusivamente una visione romantica della “categoria”, una vera e propria piaga che affligge chi tenta di mostrare (ma il più delle volte di dimostrare) che la propria arte è il proprio lavoro, o che sta facendo di tutto, combattendo in primis contro le logiche opprimenti, per poterlo diventare.
La pretesa di poter reclamare qualcosa, attraverso quel tipo di impostazione di lotta, è quantomeno ridicola. Siamo nell’ambito di quello che già Lenin definiva «economicismo», una richiesta di soluzione immediata per il proprio malcontento senza una prospettiva di classe, di ribaltamento delle condizioni dei lavoratori tutti. Il modo migliore per darla vinta al padrone, al quale dare un contentino non costa nulla se serve per acquietare gli animi. Gli applausi a Beppe Sala quel giorno ne sono la conferma, amara ma sicuramente prevedibile.
Tutto ciò accade per una ragione, che letta con un’analisi marxista anche basilare appare chiara e logica: la sovrastruttura, senza struttura, non è nulla. È un po’ come voler costruire una casa partendo dal tetto. Potrà anche essere il più bel tetto del mondo ma senza delle pareti non servirà assolutamente a nulla, varrà solo per il suo aspetto estetico. Oggi quel tetto ha dei buchi e le pareti non reggono più, stanno cedendo. Quel tipo di piazza è come se chiedesse dei mattoni nuovi per tappare quei buchi, una richiesta inutile se si pensa che le pareti che reggono il tutto cadranno.
Inutile. E, soprattutto, una gran perdita di tempo. Allora per salvare la casa (che in questa “grande” metafora è l’uomo) forse bisogna prima pensare celermente a sostituire le pareti. A trovare una nuova struttura, appunto. In sostanza, serve un cambio di sistema che ragioni su struttura (e sovrastruttura) radicalmente diversa, ribaltata.
In quest’ottica, allora, bisogna ripensare all’elemento di conflittualità che dovrà scoppiare anche all’interno della categoria della cultura, proprio partendo dal rifiutare l’idea di una «lotta di categoria» per mettere al centro la lotta di classe che in quanto tale interessa i lavoratori tutti, chi vive del proprio lavoro e soprattutto vive quelle condizioni di sfruttamento ed oppressione da parte dello stato borghese.
Va ribadito: la questione è di classe. Bisogna allora far esplodere queste contraddizioni anche nel mondo culturale affinché lo si liberi, o meglio, si infranga quell’aurea superficiale che sembra sempre staccarlo e separarlo dalla realtà della condizione umana. In primis, rendendo inoffensivi quei soggetti di disturbo ostacolo a questa necessaria evoluzione della lotta. Bisogna anche saper criticare, senza la presunzione del saccente, quelle forme di protesta diverse e forse più interessanti ma comunque inefficaci. Per esempio, l’episodio dei “bauli in piazza” del 10 ottobre a Milano, espressione di un disagio vero e assordante, come il silenzio di quel pomeriggio in piazza Duomo. Di grande, grandissimo impatto per una bella foto o un video d’effetto che conta molto, al giorno d’oggi, ma che al contempo dura il tempo di un soffio, già sommerso da miliardi di altri contenuti. E scivola via. Solo la lotta paga, ed è il momento che anche nel mondo della cultura e dello spettacolo si comprenda da che parte stare, con il coraggio di rompere gli schemi e di unirsi all’unica forza che può conquistare un mondo migliore in cui vivere, quella dei lavoratori organizzati con la prospettiva di un cambio di sistema: il socialismo.
Viviamo una fase storica, si diceva. E ogni fase storica ha bisogno di scelte coraggiose, anch’esse storiche, che passano dalla coscienza di sé e del ruolo chiave che può avere il proprio essere. E determinante diventa il ruolo dei comunisti.
Proviamo ad immaginare un campo di battaglia prima dello scontro, nella fase dello schieramento degli eserciti. Dall’altra parte, il nemico ha schierato un esercito preparato e pronto a combattere, forte di tante vittorie sulle spalle. Da questa parte, invece, il tutto ritarda, attende. Senza giri di parole, il comunista è solo. Sul campo di battaglia, in prima linea, si è soli e quindi, sostanzialmente, inutili. In compenso, però, ci sono innumerevoli persone che “fanno il tifo per te”, che stanno “dalla tua parte”. Ma ora la tifoseria non serve più a nulla, anzi, risulta dannosa.
È il momento che si scenda in campo e ci si prepari per affrontare il nemico, ed è bene che lo comprendano tutti quelli che ancora dubitano e attendono a schierarsi in prima fila, perché poi lo scontro non risparmierà nessuno.
Serve un’organizzazione forte, strutturata che sappia essere guida e avanguardia in questo scontro come ha già saputo esserlo in passato, in quelle poche ma importanti vittorie che hanno garantito, conquistandola, una vita migliore e dignitosa per il popolo, ribaltando i rapporti di forza.
Quest’organizzazione non può che essere il partito dei lavoratori, il partito che porta come simbolo gli emblemi del riscatto sociale e umano: il Partito Comunista.
“Non c’è onore più alto che appartenere a questo esercito” e rispondere alla chiamata diventa sempre più necessario e urgente. In tutto questo, la cultura ha un ruolo importante e quando si comprenderà il necessario sviluppo del conflitto di classe anche in quest’ambito allora l’apporto di chi si ritiene un “diffusore” della cultura, l’intellettuale, il musicista, l’attore, l’artista sarà assolutamente utile per poter completare il moto collettivo che porta al ribaltamento del sistema.
Sarà come colpire su diversi fronti ma con un unico obiettivo, fianco a fianco, brandendo la cultura come un’arma al servizio del popolo.
Viviamo una fase storica, e tutto questo sta diventando maledettamente urgente.
“Noi limiamo i cervelli con la nostra lingua affilata.
Chi è superiore: il poeta o il tecnico, che porta gli uomini al benessere?
Siamo uguali.
I cuori sono motori.
L’anima è un’abile forza motrice. Siamo uguali.
Compagni d’una massa operaia.
Proletari di corpo e di spirito.
Soltanto uniti abbelliremo l’universo, e lo faremo rimbombare di marce”
Majakovskij, “Il poeta è un operaio” (1918)