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Si intitola Le origini della guerra russo-ucraina. La crisi della globalizzazione e il ritorno della competizione strategica l’ultimo libro di Salvatore Minolfi (Istituto italiano per gli studi filosofici, 2023). Un testo fondamentale per chi vuole ricostruire il conflitto tra NATO-Russia a partire dalla caduta del muro di Berlino.Venuto meno il patto di Varsavia, invece di sciogliersi a favore di un vero progetto di «sicurezza collettiva», l’Alleanza atlantica si è espansa e rafforzata, andando a ledere gli interessi e la sicurezza di una Russia ridotta al rango di «paese normale tra paesi normali».
Un allargamento a est che Minolfi, dopo aver dato conto delle varie interpretazioni, motiva con la necessità di contenere lo sviluppo europeo a trazione tedesca e prepararsi al conflitto strategico con la Cina, «l’unico concorrente potenzialmente in grado di combinare il suo potere economico, diplomatico, militare e tecnologico per lanciare una sfida duratura a un sistema internazionale stabile e aperto». In pratica, contro chi considerava essenziale poter contare quantomeno sulla neutralità del Cremlino (il filone cosiddetto «realista») nella seconda metà degli anni Novanta è prevalsa «l’opzione radicale di affrontare prima Mosca, infliggendo una drammatica lezione, per poi ingaggiare, da posizioni rafforzate, la capofila dei contestatori della supremazia americana», vale a dire Pechino.
I documenti ufficiali e le analisi dei massimi strateghi della politica estera statunitense ampiamente e dettagliatamente citati dimostrano oltre ogni ragionevole dubbio come l’attuale scenario sia stato in passato, e continui ad essere ancora oggi, frutto di una lucida determinazione presto diventata bipartisan. Da questo punto di vista, è molto istruttivo leggere come durante la presidenza di Donald Trump sia stata autorizzata la vendita di armi letali all’Ucraina, compresi i missili anticarro Javelin. E come siano state per la prima volta sanzionate le aziende coinvolte nella progettazione del Nord Stream 2, il famoso gasdotto fatto saltare in acqua dagli USA nel 2022. Ma, soprattutto, i documenti citati dimostrano come l’espansionismo della NATO sia stato precisamente calcolato e accettato anche nelle sue più estreme conseguenze.
Che questo atteggiamento radicale avrebbe portato ad una guerra calda non solo era stato messo in conto fin da tempi non sospetti ma attivamente ricercato dalla leadership statunitense, nella convinzione che ciò avrebbe fiaccato la Russia come era successo con l’Unione Sovietica. La scommessa, insomma, era quella che un conflitto aperto avrebbe impegnato il governo di Mosca oltre le proprie forze.
Il primo grande merito del libro, dunque, è quello di sgombrare il campo dalla retorica dell’aggressore e dell’aggredito tanto cara ai giornalisti e opinionisti NATO.
Ma il libro ha anche un secondo grande merito. L’espansionismo dell’Alleanza atlantica serve per continuare a tenere «gli Stati Uniti dentro l’Europa, la Russia fuori e la Germania sotto», per usare le parole del primo segretario dell’Alleanza Atlantica, Lord Hastings Lionel Ismay.
I nuovi membri, infatti, benché economicamente sempre più legati a Berlino, si riveleranno politicamente alleati degli Stati Uniti, non solo in funzione anti-russa ma anche anti-tedesca.
Con la fine dell’Unione Sovietica, infatti, la Germania torna a rappresentare un grande pericolo: troppo potente economicamente e troppo legata alla Russia da accordi commerciali che la pongono politicamente in contrasto con gli Stati Uniti. Un’anomalia che andava sanata a tutti i costi. Sebbene l’autore non si esprima in questi termini, nel libro si trovano tutti gli elementi essenziali per poter caratterizzare la guerra in corso per quello che è: una guerra inter-imperialistica tra gli Stati Uniti da un lato e la Germania (e in subordine Francia e Italia) dall’altro.
Il terzo grande merito del libro è quello di accennare a un’altra dimensione del conflitto (o «Matrioska» come dice Minolfi) molto spesso travisata dalla propaganda occidentale: quella dello scontro tra ordine unipolare e multipolare.
In questo caso, la questione non è eccessivamente sviluppata, se non per quanto riguarda la cosiddetta «annessione» della Crimea da parte di Mosca avvenuta nel 2014. Per Minolfi si è trattato di un «salto nel buio» che ha visto prevalere la logica dello Stato rispetto a quella del grande capitale. Nel momento di scegliere se rinunciare al controllo del Mar Nero o rischiare pesanti sanzioni che avrebbero inevitabilmente colpito una classe dominante ampiamente integrata nel mercato mondiale, Putin ha scelto la logica della «razionalità strategica» a discapito degli affari. Una scelta apparentemente incomprensibile, a meno che non si voglia dare alla politica un grado di autonomia che non ha. Oppure si sottovaluti il ruolo giocato dalla BRI, dai BRICS e dalla SCO, organizzazioni, queste ultime, stranamente mai citate nel libro ma di cui la Russia è membro fondatore. Insomma, potrebbe non trattarsi del fatto che «dopo aver trascorso un quindicennio ad evocare la prospettiva di un mondo multipolare e legittimamente pluralistico, improvvisamente il Cremlino agiva come se quel sistema esistesse già». Molto più semplicemente, dopo tre lustri passati a costruire quel mondo, un mondo in cui lo Stato ha ripreso un ruolo di direzione e controllo delle leve fondamentali dello sviluppo economico capitalistico, Putin agiva di conseguenza.
Pertanto, se le cose stanno così, la guerra in corso non è soltanto una guerra inter-imperialistica tra Stati Uniti e Germania per interposta Russia ma è anche una guerra provocata per conservare l’ordine mondiale basato sul Washington consensus.
Il libro, tuttavia, presenta alcune lacune che non possono essere taciute e che portano l’autore a giudicare la guerra in corso come una scelta modellata «su un precedente americano, la dottrina della guerra preventiva, con il suo vago, arbitrario, cinico apparato di riferimenti normativi». Insomma, pur all’interno di un apparato teorico diverso, Minolfi sembra abbracciare la tesi del doppio imperialismo, con una Russia che interviene in Ucraina per difendere i propri interessi di grande potenza contro l’ingerenza di altre grandi potenze.
Un giudizio che non può essere condiviso per almeno due ragioni. La prima ha a che fare con la dimensione del conflitto, che l’autore giustamente caratterizza come «guerra civile» tra due popoli effettivamente interconnessi da tutti i punti di vista (storico, demografico, socio-culturale, ecc) ma che non analizza fino alle sue estreme e logiche conseguenze. La riconquista della Crimea, ad esempio, viene descritta come un vero e proprio «azzardo» che «contraddiceva tutto ciò che i russi avevano sostenuto in venticinque anni di polemiche sulla gestione occidentale dell’ordine liberale del dopo guerra fredda». In pratica, la protezione dei russofoni non sarebbe altro che una versione cirillica della «Responsibility to protect» che ha giustificato l’interventismo degli Stati Uniti in giro per il mondo (Kosovo, Afghanistan, Iraq, Siria, Libia). Il che è vero in apparenza, ma se poi si guardano le cose nella loro essenza si scopre che le “guerre umanitarie” hanno prodotto Stati falliti e sottosviluppati mentre “l’operazione militare speciale” ha fatto rinascere i territori liberati. Territori che, per quanto riguarda la Crimea, sono stati russi fino al 1954, quando vennero ceduti dalla Repubblica socialista federativa sovietica russa alla Repubblica socialista sovietica ucraina nell’ambito di un riassetto tutto interno all’URSS. Un “dettaglio” di cui non vi è traccia nel libro e che si somma ad altri “dettagli” inspiegabilmente mancanti. L’Euromaidan, ad esempio, non è descritto quale colpo di Stato neonazista, né viene mai citata la strage della casa dei sindacati avvenuta a Odessa il 2 maggio 2014. Ancora peggio: nulla si dice riguardo la feroce discriminazione e la costante persecuzione patita dai russofoni in Donbass e perpetrata dal governo di Kiev per otto lunghi anni.
In pratica, tutte queste “dimenticanze” impediscono all’autore di vedere che questa guerra non è soltanto una guerra inter-imperialistica tra Stati Uniti e Germania e una guerra provocata per conservare l’ordine mondiale basato sul Washington consensus, ma è anche una guerra di liberazione e di autodeterminazione dei popoli russofoni oramai impossibilitati a vivere nello stato multinazionale ucraino.
La seconda ragione che impedisce di condividere la tesi del doppio imperialismo ha a che fare con la finalità intrinseca alla strategia del «fiaccamento» già utilizzata con successo contro l’Unione Sovietica e ripresa contro la Russia. Per motivi incomprensibili, Minolfi dimentica che l’obiettivo finale di tale strategia è arrivare a una vera e propria frantumazione della federazione russa, riproponendo quanto già fatto con l’URSS. Una prospettiva che personalmente non conosco nei dettagli ma di cui si trovano tracce (digitali) fin dal 2004 e che Mosca denuncia e combatte attivamente. Se a questo si unisce il fatto che il Cremlino ha smesso di opporsi alla progressiva integrazione economica di Kiev nel blocco occidentale – integrazione che anzi ha condiviso per un lungo periodo e che è stata alla base del surplus commerciale che dura oramai da 25 anni – si può legittimamente aderire al punto di vista russo, secondo cui, al momento, quella in corso non si può caratterizzare come una guerra imperialistica per l’accaparramento di risorse o per garantirsi uno sbocco per le merci e i capitali in eccesso, bensì come una guerra per difendere la propria integrità come Stato-nazione.
Se questa guerra è al contempo una guerra per impedire lo smembramento di uno Stato (la Russia), per affermare il diritto all’autodecisione dei russofoni ucraini, per affossare i capitalisti franco-tedeschi e per conservare il mondo unipolare basato sul Washington consensus, lo schieramento per cui il proletariato dovrebbe essere chiamato a combattere (da chi aspira a organizzarlo) mi sembra abbastanza evidente. Fin tanto che le cose stanno così, occorre mobilitare i lavoratori per bloccare l’invio di armi, personale e soldi al governo ucraino mediante blocchi, scioperi e boicottaggi, aiutare gli imprenditori a eludere e aggirare le sanzioni al fine di tornare a godere dei vantaggi derivanti dalle buone relazioni economiche con la Russia e spingere i giornalisti affinché diano più spazio a quelli che molti chiamano in modo sprezzante “putiniani”. Non perché una qualche vittoria della Russia in Ucraina porterà direttamente a relazioni internazionali effettivamente democratiche o alla liberazione dallo sfruttamento capitalistico, ma perché renderà tali prospettive meno lontane e aleatorie.
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