La lettera che segue è uno scritto che 4 operai della Hitachi di Napoli, ingiustamente licenziati dal padrone e nel totale silenzio dei sindacati concertativi, hanno scritto rivolgendosi al proletariato napoletano.
Tale scritto risponde, con forza dirompente, alla narrazione capitalista della “crisi finita” e della “ripresa”, alla falsa narrazzione che “le fabbriche non esistono più” o “la classe operaia non c’è più”.
Come scritto in un articolo (https://www.lariscossa.info/2017/05/17/la-classe-operaia-non-scomparsa-manca-la-coscienza/) qui comparso qualche mese fa, non è vero che la classe operaia è scomparsa, così come non è scomparso lo sfruttamento e l’ingiustizia, è vero che la classe operaia ha perso quella concezione di “classe per sè”, ma questa coscienza può e deve essere recuperata attraverso un lavoro quotidiano a contatto con la classe.
Ma soprattutto è necessario lo strumento che ha la classe per liberare se stessa dalle catene del capitale e prendere il potere “per sè”, assurgendo a classe dirigente e coerentemente espletare la sua funzione storica di progresso e civilizzazione; questo strumento è il Partito Comunista.
Lavoriamo per rafforzare la coscienza degli operai e dei lavoratori, lavoriamo per l’unità dei lavoratori su posizioni di classe e di rottura con la concertazione e la collaborazione padronale, lavoriamo per portare la voce dei lavoratori più forte e la pubblicazione di questa lettera vuole andare in quella direzione.
Avrete sentito dire, spesso, che gli operai non esistono più, che oggi fanno tutto i robot o i computer.
Non è così.
Gli operai esistono, come esistono i facchini, i corrieri, gli scaricatori di porto. A estinguersi, invece, sono stati i loro diritti, quelli conquistati unendo le forze e lottando contro lo sfruttamento e l’arroganza dei padroni.
Lo sanno bene le famiglie degli operai indotti al suicidio dalla persecuzione in fabbrica, dalla relegazione nei reparti-ghetto, dal licenziamento selvaggio.
Lo sanno i facchini di Piacenza, che hanno visto morire un loro compagno, investito da un camion per ordine del padrone, senza pietà, perché osava esercitare il diritto di sciopero.
Lo sa chi, per aver protestato contro leggi che fanno di noi carne da macello, passate con la connivenza dei sindacati concertativi, è stato costretto, per anni, ad affrontare logoranti battaglie in tribunale, per uscirne poi sconfitto o riportando una vittoria senza gioia, senza reintegro effettivo sul lavoro, senza quasi più compagni, impauriti e minacciati dallo spettro della precarietà e della fame.
Anche noi quattro esistiamo.
Abbiamo nomi, figli, problemi, malattie, parenti, speranze.
Avevamo anche un lavoro, che abbiamo svolto con abnegazione per più di venti anni, acquisendo competenze, esperienza, rispetto.
Lavoravamo all’Hitachi.
Era il nostro mondo, la nostra risorsa, il nostro orgoglio.
La crisi, arrivata quando chi ha speculato sulle nostre vite e sui nostri risparmi ha deciso che era
ora di presentare a noi il conto dei suoi sprechi, ha portato nuove, terribili parole d’ordine: flessibilizzare, tagliare, delocalizzare.
Hanno fatto in modo che ci credeste; i media asserviti al potere unico vi hanno convinto che era necessario, indispensabile, anzi, distruggere una certa quota di famiglie, spezzare le ali a un certo numero di figli “di nessuno”, gettare nella disperazione un certo numero di lavoratori, per poter salvare “il paese” o addirittura l’Europa, riferendosi, in realtà, solo alla parte più ricca di queste compagini.
La campagna di terrore ha funzionato, e così è stato varato il Jobs’ Act, che consente di trattare i lavoratori come braccia usa-e-getta.
Siamo diventati tutti fragili, tutti fungibili; siamo tutte pedine da spostare o buttare via a seconda della convenienza di chi ormai può abusare dei lavoratori “per legge”.
Da quando Marchionne, a Pomigliano, ha preteso che gli operai scegliessero tra pagnotta e diritti, tutto il mondo del lavoro ha perso dignità, garanzie, umanità.
Noi quattro siamo tra quelle vittime che il paese ha deciso di dare in pasto al sanguinario “dio Mercato”; siamo la parte da sacrificare.
Abbiamo deciso di scrivere questa lettera, nell’angoscia che ci attanaglia alla fine di un anno terribile e sconvolgente per noi, per dirvi che la nostra estromissione dal lavoro, il nostro sacrificio, il pianto dei nostri figli non saranno la vostra salvezza, non faranno uscire dalla crisi il paese o l’Europa, magari con qualche piccolo rimorso di coscienza: dalla crisi non si esce col “si salvi chi può”, né obbedendo a chi ci ha licenziato per assumere personale più ricattabile e sottopagato, ma con la lotta contro un sistema che ha fatto del sopruso non solo una perversa logica, ma un inaccettabile indirizzo politico.
Per avere il coraggio di guardarci allo specchio e per meritare l’abbraccio dei nostri figli, abbiamo lottato e continueremo a farlo, per noi e anche per voi, che col vostro silenzio e la vostra indifferenza ci condannate a una disperazione che domani potrebbe essere vostra.
Abbiamo presidiato la fabbrica a nostro rischio; abbiamo interpellato la stampa entrando nel palazzo della Rai e costringendo i giornalisti, una volta tanto, a dire la verità; abbiamo ottenuto, a forza di urla, tavoli di confronto con autorità impotenti o tentennanti e, infine, forzando la nostra natura e il nostro carattere, siamo saliti su una gru, in mezzo alla città.
Non lo abbiamo fatto solo per rendere più visibile il nostro dramma.
Lo abbiamo fatto per rendere più visibile a voi quel che non volete vedere.
Siamo saliti lassù in alto, nonostante il caldo feroce di agosto, per costringervi a raddrizzare la schiena e ad alzare la testa per guardare i nostri corpi esposti al sole battente, la nostra bandiera, la nostra rabbia trasformata in un’istanza estrema di giustizia, di cui c’è estremo bisogno.
Non c’è sindaco, per quanto volenteroso e disposto all’ascolto; non c’è prefetto e non ci sono autorità che possano parlare per noi o a nostro vantaggio; il potere politico, infatti, a tutti i livelli, è ormai alla catena dei signori del denaro e del debito.
Deve nascere in noi la consapevolezza che non abbiamo nulla da perdere, che non è più possibile soggiacere ai ricatti di padroni sempre più impudenti, che ordinano a politici e governi senza mandato popolare di falciare le nostre vite, di farci lavorare fino alla tomba, di farci rinunciare a istruire i nostri figli e perfino a curarli, quando sono ammalati.
Il nostro sarà un Natale senza luce; il vostro, se avete ancora un lavoro, anche a nero, o se sperate di trovarne, alle condizioni loro, sarà un Natale di luci finte e accecanti, messe a brillare davanti a cose che non possiamo permetterci e che vogliono far produrre a schiavi spenti dentro, terrorizzati da un sì o da un no che può stravolgere la loro vita all’improvviso, schiavi senza desideri, senza volontà, senza entusiasmo, senza prospettive, senza progetti.
Riprendiamoci insieme le nostre vite, il futuro, il sorriso dei figli!
Squarciamo il buio di questa notte della democrazia e dei diritti con il fuoco ardente della solidarietà!
Max, Aniello, Vincenzo e Alfredo
(a nome di tutti i licenziati di oggi, perché non ve ne siano altri domani).