È notizia di questi giorni che l’Europa pare che stia facendo una marcia indietro rispetto alle assurde politiche “green”, che poi di “verde” ricordano solo il colore del dollaro.
I sicofanti dell’Europa, storditi e presi alla sprovvista, cercano di spiegare questa improvvisa retromarcia, imputandola alla prossima campagna elettorale (e quindi implicitamente dicendo che è una ritirata momentanea) e minimizzandone la portata.
La realtà sottostante è molto più corposa e grave di quella che appare.
Nel settore agroalimentare la ritirata più appariscente riguarda norme (pesticidi, maggese) che peraltro erano già state bloccate, ma che non sono andate affatto incontro alle sacrosante richieste degli agricoltori, che invece protestano per i regolamenti assurdi e la mancata protezione del settore. Si veda in proposito https://www.lariscossa.info/agricoltura-volto-peggiore-del-capitalismo/
Quanto ai gas serra si stanno chiedendo altri dieci anni per raggiungere gli obiettivi per il 2030. Ciò potrebbe preludere al completo abbandono dei famigerati obiettivi.
Per il rinnovamento energetico degli edifici, anche qui c’è una dilazione e soprattutto una delega a legiferare ai singoli paesi.
Nel frattempo si approva il rilancio del nucleare, che porterà – a parte ogni considerazione ambientale ed economica, ad aumentare la dipendenza dell’Europa per l’approvvigionamento del materiale fissile.
Ma il punto più interessante riguarda l’automotive (il Parlamento europeo ha bocciato la proposta sul regolamento “Euro 7”). Questa doveva essere la vera grande “rivoluzione” che avrebbe comportato, non solo il rinnovo dell’intero parco macchine, ma anche una svolta nelle abitudini quotidiane dei cittadini europei. Ebbene, che cosa è successo? Che la Cina si è lanciata prima e meglio dell’Europa sul settore, praticando con una accorta politica di programmazione a lungo periodo, che ha coinvolto le case costruttrici del Paese. L’affarone del secolo si è quindi sgonfiato nelle mani dei monopolisti occidentali, come testimonia il fatto che ora il primo produttore di auto elettriche nel mondo è cinese, con costi bassi e affidabilità alta, inarrivabili per i concorrenti.
Stesso scenario per l’altro settore su cui doveva incentrarsi la transizione green, il fotovoltaico. Dal 2007 a oggi l’Europa è passata dal produrre il 30% dei pannelli al 3%. Il risultato è stato passare dalla dipendenza fossile a quella da Pechino. Un recente studio intitolato, guarda caso, Sovranità Tecnologica e dipendenze strategiche [1], fa proprio il punto su questo.
La politica dell’Unione, basata solo su regolamenti e sussidi all’impianto, ha prodotto questo risultato disastroso. È inutile che ora i soloni dell’Unione Europea gridino all’“invasione cinese”. L’industria cinese ha giocato le sue carte secondo le regole del mercato e, poiché sono diretti e organizzati meglio, hanno vinto. La differenza la fa la struttura che dirige il paese: in senso dell’interesse nazionale o nel senso di far fare a pochi subito una montagna di profitti, distruggendo però le basi dell’economia.
Vogliamo scommettere che tra qualche tempo, quando sarà chiaro che l’“affare” verde non sarà più redditizio per il capitalismo monopolistico, di “transizione”, “emergenza”, ecc., non ne sentiremo più parlare?
Questo ci dà la possibilità di esaminare un altro fenomeno epocale, il diverso potere d’acquisto delle varie monete e conseguentemente la posizione relativa delle varie nazioni. Fin quando i paesi fuori dall’Occidente avevano una struttura produttiva più fragile rispetto a quelli occidentali, il forte cambio a favore dei secondi favoriva solo questi. Si “comprava” a buon mercato le materie prime e il lavoro delle altre nazioni, ridotte a serbatoio da succhiare indefinitamente. L’“artiglieria pesante” delle compagnie, la definiva Marx ed Engels. Questo è stato il neocolonialismo, che ha sostituito il colonialismo, governi (spesso corrotti) che garantiscono lo status quo a favore dell’Occidente. Ma da quando la Cina è uscita dal sottosviluppo e ha cominciato a produrre beni e servizi all’altezza delle più moderne tecnologie, questo meccanismo si è ritorto contro i paesi a moneta forte, che subiscono la concorrenza di chi produce a più basso costo. E questo non a causa dello sfruttamento della manodopera cinese, bensì a causa della diversa forza della moneta. In Cina i salari non sono più bassi di quelli occidentali, anzi!, se solo li si valuta secondo il potere d’acquisto interno. Se proprietario di un’azienda nel cosiddetto terzo mondo è una multinazionale occidentale, i profitti non restano nel paese di produzione ma tornano nel paese dominante, se invece a produrre è un’impresa nazionale il meccanismo si inverte e il paese si avvia allo sviluppo economico.
L’Italia del miracolo economico, con un’economia a forte partecipazione pubblica, era arrivata a sorpassare Francia e Inghilterra, posizionandosi al quarto posto tra le economie mondiali. Certo non era il socialismo, ma era un sistema governato e diretto da una programmazione accorta, in cui gli squali della finanza non dominavano. Oggi la sovranità della nostra nazione si è del tutto persa e i risultati negativi si vedono.
[1] Serenella Caravella & Francesco Crespi & Giacomo Cucignatto & Dario Guarascio, 2023. “Technological Sovereignty and Strategic Dependencies: The case of the Photovoltaic Supply Chain,” Working Papers in Public Economics 242, University of Rome La Sapienza, Department of Economics and Law.