Pubblichiamo, nell’ambito della scuola popolare Antonio Gramsci, un importante saggio del dott. Mario Giambelli Gallotti, che sistematizza e approfondisce una relazione tenuta il 9 novembre 2023 a Monza nell’ambito di una conferenza pubblica sul tema La verità su Europa, pandemia e guerra.In quel contesto, organizzato nell’ambito della campagna per le elezioni politiche suppletive del collegio senatoriale della Brianza, il Partito Comunista ha sostenuto per la lista Democrazia Sovrana Popolare la candidatura di Daniele Giovanardi, che ha presentato una breve relazione sul tema della pandemia, utile a confermare molti aspetti già affrontati nel seminario Le menzogne sulla pandemia covid.
A curare il tema della guerra è stato Alessandro Pascale, responsabile nazionale Formazione del PC, che ha anticipato per tempo le posizioni da prendere sulla questione palestinese, collegando il tema alla guerra in Ucraina e alla disinformazione strutturale messa in atto dal regime.
Si presenta il video dell’incontro, andando a valorizzare, nell’ambito della nostra scuola, il contributo di Giambelli, che con grande accuratezza e precisione ci presenta uno spaccato giuridico che mostra l’incompatibilità tra la Costituzione repubblicana italiana e l’istituzione neoliberista e imperialista dell’Unione Europea. È bene rilevare che quello offerto dal dott. Giambelli è un contributo tecnico e qualificato, che non utilizza il lessico e le categorie marxiste nonostante l’Autore mostri una certa consapevolezza (e appartenenza) rispetto alla cultura politica marxista. Lungi dall’essere un limite, ciò permette ai compagni di disporre di uno strumento in più per contestare gli argomenti dei “liberali” e dei “democratici”, oltre che per comunicare ad un vasto uditorio un messaggio chiaro e utile soprattutto in vista delle prossime elezioni Europee, nella consapevolezza che questi contenuti debbano essere preventivamente assimilati in profondità da tutti i quadri dirigenti del Partito, nell’ottica di una lotta di lungo periodo.
1. SOVRANITA’, COSTITUZIONE, POTERE
La parola “sovranità” ha un duplice significato: uno riguarda la personalità internazionale dello Stato e significa il diritto di ciascuno Stato alla piena indipendenza nei confronti di ciascun altro; il secondo riguarda invece il modo in cui ciascuno Stato esercita nel proprio interno il potere sovrano (legislativo, esecutivo, giudiziario).
Il modo è sancito nella Costituzione, che è appunto il limite che la sovranità (astrattamente illimitata) impone a se stessa.
La Costituzione è il principio vitale dello Stato, che ne riassume i caratteri essenziali. È perciò corretto dire che lo Stato non ha, ma è Costituzione (C. Mortati).
È la fonte legislativa primaria e sovraordinata a tutte le altre (anche a quelle sovranazionali), in quanto espressione del potere costituente, potere originario di un popolo (e solo di questo) che intende costituirsi in uno Stato, dandosi appunto una Costituzione.
Tutte le altre fonti legislative sono espressione del potere costituito, che è derivato e secondario, in quanto attribuito dalla Costituzione agli organi dello Stato, e sotto ordinato al potere costituente.
Il potere costituito non può appropriarsi del potere costituente, che appartiene al popolo e solo al popolo a titolo originario e non può quindi trasformarsi in potere costituente. Nessuna legge che sia espressione del potere costituito (e tale è anche la normativa europea) può pertanto derogare alla Costituzione.
Nella nostra Costituzione, la sovranità appartiene al popolo, che la esercita… (il popolo, non il Parlamento, né gli altri organi dello Stato)
Esamineremo appresso il concetto di appartenenza. Prima dobbiamo chiederci se il nostro ordinamento costituzionale ammette restrizioni alla sovranità.
2. COSA SI INTENDA PER RESTRIZIONI DI SOVRANITA’ ?
Nel sistema dei Trattati UE le restrizioni sono cessioni di sovranità degli stati.
Per “cessione” si intende il trasferimento permanente di una specifica funzione sovrana dello stato a un’istituzione sovranazionale (Consiglio, Commissione europea, Eurogruppo, BCE) consistente in un vero e proprio apparato di comando auto qualificatosi in chiave tecnica e imperniato sulla funzione ceduta. Questo apparato, strutturato in apparenza in modo federale, ha in realtà natura oligarchico-plutocratica, essendo privo di legittimazione democratica e di responsabilità politica (in quanto “posto al riparo dal processo elettorale”, come ci ha spiegato, con una naturalezza agghiacciante, Mario Monti nel libro/intervista Intervista sull’Italia in Europa, 1998, 40-41)
Altra cosa è la limitazione di sovranità a cui fa cenno l’art.11 della Costituzione. A differenza della cessione, il trasferimento di una specifica funzione sovrana dello Stato ha carattere temporaneo e la sovranità è immediatamente riassumibile dal suo titolare (il popolo italiano) allorché vengano a mancare le condizioni che giustifichino la limitazione.
3. NASCITA E SVILUPPO DELLA CESSIONE DI SOVRANITA’
È interessante capire dove nasce e come si sviluppa il concetto di cessione della sovranità, e a quale progetto era (ed è) funzionale. Nasce nell’ambito della corrente federalista europea.
I federalisti erano (e sono tuttora) una ristretta cerchia di filosofi e di politici “convinti che storicamente gli Stati nazionali europei non fossero ormai in grado di garantire benessere e sicurezza ai propri cittadini” e certi che il destino di intere popolazioni dovesse essere la loro unificazione in uno stato federale (sul modello di quanto accaduto negli USA con la convenzione di Filadelfia), a prescindere dal fatto che le stesse popolazioni fossero o meno d’accordo su tale progetto. L’iniziale idea di utilizzare il metodo costituente, per elaborare una costituzione federale e fondare la federazione europea, venne presto abbandonata: non esiste infatti un popolo europeo; non c’è una lingua europea evolutasi e consolidatasi nel tempo; non c’è una tradizione culturale europea. Vi sono poi difficoltà tecniche insuperabili: la scelta della forma istituzionale (monarchia o repubblica?); la convivenza fra stati unitari centralizzati, stati federali e stati regionali; la produzione di una costituzione che metta tutti d’accordo; la centralizzazione del debito e la redistribuzione delle risorse; la questione della lingua ufficiale, ecc. I federalisti pensarono allora a un altro percorso, che individuarono proprio nella restrizione delle sovranità nazionali.
Dall’osservazione degli eventi accaduti nel periodo della guerra di Corea (1950-1953), intuirono che una crisi specifica dei poteri nazionali – ovvero l’insorgere di “problemi percepiti socialmente” come non risolvibili “nel quadro nazionale” – potesse costituire un’opportunità “per l’avanzamento del processo di unificazione” europea.
L’illustre federalista pavese Mario Albertini elaborò allora una “strategia” volta a favorire una “crisi specifica dei poteri nazionali” ed a sfruttare l’occasione per completare il “processo di unificazione”: il “gradualismo costituzionale”.
Occorreva in sostanza:a) creare “un’istituzione democratica europea” (cioè, a livello sovranazionale) che fosse in condizione di “rivendicare progressivamente sempre maggiori poteri per sé e per l’Europa”;b) individuare un settore “decisivo per l’assetto statuale” in cui una limitata cessione di sovranità da parte degli Stati:
– li avesse privati dei poteri (relativi a quella porzione di sovranità ceduta) necessari per risolvere una crisi che avesse colpito proprio quel settore;
– avesse palesato, all’emergere della crisi, una contraddizione “tra l’esistenza di tale sovranità europea e l’assenza di una vera politica e di un governo federale”. Contraddizione socialmente percepita come necessità di avanzamento verso l’integrazione politica (stante l’impossibilità di risolvere la crisi in un quadro sovranazionale dai poteri limitati).
Il settore decisivo fu individuato nella sovranità monetaria.
Un’unione monetaria europea presupponeva quel limitato “passaggio di sovranità” a un’istituzione sovranazionale che, da un lato, avrebbe privato gli Stati colpiti da una crisi economica della possibilità di reagire con provvedimenti adeguati (a cominciare dalla flessibilità del cambio) e, dall’altro, avrebbe fatto emergere “la contraddizione di una moneta europea in assenza di un’unione politica e di un governo federale europeo”, consistente nella mancanza di un potere politico in grado di gestire e risolvere la crisi finanziando lo stato o gli Stati in deficit con il denaro degli Stati in surplus. L’adozione di una moneta unica – e la conseguente fuoriuscita delle determinazioni ad essa relative dal monopolio della decisione politica degli stati – costituiva dunque il mezzo decisivo che avrebbe consentito, nella cinica visione federalista, di raggiungere il fine, cioè l’unione politica.
Questa è l’origine del progetto dell’unione monetaria e delle cessioni di sovranità, spiegate con soave candore e stucchevole senso di compiacimento da uno dei suoi più accaniti sostenitori, il prof. Roberto Castaldi, in un documento tempo fa rinvenibile sul sito Sisp.it ma dopo un po’ ritirato (si allega di seguito immagine con il relativo abstract).
Un progetto che Luigi Zingales definì a suo tempo “criminale”, forse esagerando, ma che possiamo certamente qualificare come spregiudicato, figlio dell’idea che il fine giustifichi i mezzi. Il fine non giustifica mai i mezzi. Una buona intenzione non rende né buono né giusto un comportamento in sé scorretto. Ancor meno se l’intenzione non è affatto buona e se i mezzi producono crisi, i cui “effetti collaterali”, presumibilmente non previsti (quantomeno all’inizio) dai padri federalisti, ma inevitabili allorché si adotti una moneta unica in aree economiche disomogenee, sono, da un lato, la svalutazione del lavoro (non potendosi svalutare la moneta, le aziende recuperano la competitività mediante la svalutazione salariale), dall’altro, i suicidi, i fallimenti, la povertà diffusa e crescente in larghi strati della popolazione, l’emarginazione sociale.Se non furono in malafede, i padri federalisti peccarono quantomeno di leggerezza, non immaginando che da una crisi, da loro ritenuta strategica, potessero derivare così tragiche conseguenze. L’obiettivo di fondo del progetto, al di là dell’ingenua visione iniziale dei padri federalisti, non era però l’unità politica europea. Questa divenne presto l’ideologia propagandata, che dissimulava il vero fine: la restaurazione di un sistema di potere transnazionale, oligarchico-plutocratico. Lo si intuiva dalle stesse finalità della CEE, individuate dal Trattato di Roma del 1957 nelle quattro libertà “fondamentali” del liberismo economico: la libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali. I quattro principi sacri, da sempre, del liberismo, che trovarono immediato compendio nel programma posto a base della UE.
L’aveva chiaramente capito, già all’epoca del suddetto trattato, il P.C.I. Nell’imminenza dell’approvazione del trattato, le pagine di L’Unità lo esplicitavano senza mezzi termini: “Il MEC è la forma sovrannazionale che assume nell’Europa occidentale il capitale monopolistico” … “per schiacciare le masse lavoratrici, la piccola economia contadina, per rendere impossibile, o più difficile, uno sviluppo sociale democratico”, tuonava l’On. Berti in Parlamento, nel suo discorso del 30 luglio 1957 con cui motivava il voto contrario del gruppo comunista. E due giorni prima, il 28 luglio, L’Unità illustrava nel dettaglio tutte le ragioni dell’opposizione comunista all’approvazione del Trattato di Roma.
Un certo tipo di capitalismo, quello più sfrenato, fanatico, egoistico, oligarchico ed ultraliberista, che aveva caratterizzato l’Italia prefascista, che era stato l’espressione delle élites capitalistiche e finanziarie dominanti e che si riteneva definitivamente accantonato con l’avvento del costituzionalismo democratico, ovvero con le democrazie sociali del secondo dopoguerra, si era riorganizzato e stava preparando la sua rivincita, per rigenerarsi, con lo stratagemma del gradualismo, a livello sovranazionale nella futura UE, alla quale gli stati avrebbero gradualmente ceduto specifiche e decisive funzioni sovrane.
Non è un’interpretazione, bensì una realtà storica. Lo confessa papale papale l’ex garante della Costituzione in una lettera scritta nel 2011 per il settimanale Reset, ma già lo denunciavano Giorgio Balladore-Pallieri nel 1954 sul Foro Padano, Piero Calamandrei nel 1955, e Lelio Basso nel 1958 (nel suo libro “Il principe senza scettro”).
Oggi lo si capisce chiaramente dalla semplice lettura dei trattati, i cui valori supremi sono i classici valori del capitalismo ultraliberista:– la stabilità dei prezzi (art. 3 TUE; art.li 119 co.2°, 120, 127 TFUE);
– l’istituzionalizzazione del mercato quale spazio aperto senza frontiere (art. 26 co.2° TFUE);
– la libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali (art. 26 co.2° TFUE);
– la concorrenza (art.li 101 ss. TFUE), con il suo corredo delle liberalizzazioni – mortali per il lavoro autonomo – e del divieto di aiuti di stato, definiti “incompatibili con il mercato interno” dall’art. 107 TFUE;
– la demolizione del welfare;
– il lavoro come merce (art. 151 TFUE);
– le “riforme”, ovvero la precarizzazione del lavoro e l’elevato tasso di disoccupazione (entrambi funzionali al principale obiettivo della stabilità dei prezzi);
– il divieto di ingerenza dello stato nell’economia (art.li 107, 119, 120, 121, 123-125 TFUE);
– l’indipendenza della Banca Centrale dal Governo (art.li 127-133 TFUE);
– i vincoli di bilancio pubblico (3% del deficit: art. 126 TFUE e relativo protocollo; pareggio di bilancio: Fiscal Compact + art. 81 Cost.).
L’obiettivo delle cessioni di sovranità, peraltro dichiarato (art. 3 TUE), era dunque la creazione di un mercato unico senza stati, fortemente concorrenziale e divisivo, in cui prevale la legge del più forte, l’egoismo individuale, il classismo, lo sfruttamento del lavoro, l’insofferenza ad ogni limite morale. Il teatro ideale per le scorribande di un sistema di potere che mirava a “piegare ogni uomo alle esigenze del profitto”, a “spogliare il popolo dall’esercizio della sovranità in materie di estrema importanza” e a “sovvertire l’ordinamento costituzionale”, specialmente quello italiano (Lelio Basso, intervista al Corriere della Sera, 1973).
Le cessioni sono dunque state il grimaldello che, passo dopo passo, ha permesso a un sistema di potere transnazionale e plutocratico di orientare e controllare le politiche nazionali. Un sistema che oggi mira al controllo totale dell’essere umano mediante la tecnologia, l’informatizzazione e l’emergenza permanente, quale pretesto per la normazione d’urgenza.
4. COSA DICE LA COSTITUZIONE ITALIANA
Svelata dunque la matrice ideologica delle c.d. cessioni di sovranità (con particolare riferimento ai poteri in materia economica, monetaria, fiscale e di bilancio), nonché le finalità che esse sottendono, è ora di analizzarne la compatibilità con il dettato costituzionale e in particolare con i principi fondamentali della Carta, mancando un’esplicita fonte normativa che le consenta.
Decidendo sulla costituzionalità dell’art. 189 del trattato di Roma, che attribuiva efficacia normativa obbligatoria ai regolamenti e alle decisioni del Consiglio e della Commissione, sottraendo tali atti normativi al controllo degli organi elettivi del nostro Paese e, quindi, alla sovranità popolare (così Lelio Basso, nell’intervista sopra citata), la Corte costituzionale, con sentenza 27 dicembre 1973 n.183, riteneva tale norma compatibile con i principi della nostra Carta fondamentale.
Secondo la Corte, il trattato di Roma rispondeva alle finalità indicate dall’art. 11 Cost., ispirato “a principi programmatici di valore generale” di cui la C.E.E. costituirebbe concreta attuazione, come desumibile dalle solenni affermazioni contenute nel preambolo del trattato e nelle norme riguardanti i principi, i fondamenti e la politica della Comunità. La competenza normativa degli organi C.E.E., secondo l’art. 189 del trattato, sarebbe inoltre limitata “a materie concernenti i rapporti economici” e sarebbe pertanto “difficile configurare anche in astratto l’ipotesi che un regolamento comunitario” possa “incidere in materia di rapporti civili, etico-sociali, politici, con disposizioni contrastanti con la Costituzione italiana”.
A parte la scarsissima lungimiranza dimostrata dal Giudice delle leggi (il ritorno al liberismo economico – modello sociale radicalmente antitetico a quello prescelto dai Padri costituenti e palesemente ricavabile dal contenuto del Trattato di Roma del 1957 – non avrebbe potuto non comportare l’effetto indicato dalla Corte proprio sul piano dei rapporti civili, etico-sociali e politici, data la sua storica e intrinseca incapacità di fornire una soddisfacente risposta alle diseguaglianze sociali e ai conflitti di classe dal medesimo generati), tale sentenza, come altre (v., da ultimo, quelle sull’obbligo vaccinale anti Covid-19), genera l’amara constatazione che, quando la decisione è politica, la Corte segue la politica, essendo per i due terzi espressione della politica, ovvero che il sistema di nomina dei suoi componenti non è più in grado (ammesso che lo sia mai stato) di garantire l’effettiva indipendenza della Corte dal potere politico. Circostanza che inevitabilmente espone la nostra Costituzione e il modello di democrazia sociale da essa accolto alla sempre più esplicita aggressione da parte dei gruppi di potere transnazionali che perseguono obiettivi del tutto antitetici a quelli prefissati dalla nostra Legge fondamentale (stiamo parlando della Banca mondiale, delle famiglie Rockfeller, Rothschild, Bill Gates, Soros, dei grandi fondi di investimento internazionali quali BlackRock, Vanguard, State Street, che controllano quasi tutta la finanza mondiale, di Big Pharma, Big Data e altri personaggi e centri di interesse, emersi e sommersi, finanziari e governativi. Personaggi e gruppi tutti facenti parte del Word Economic Forum, potentissima organizzazione internazionale, il cui Consiglio di fondazione comprende leader di spicco del mondo degli affari, della politica, del mondo accademico e della società civile). Enti e personaggi vari, accomunati dal desiderio di potere dell’uomo sull’uomo e di ricchezza smisurata, che perseguono, ormai apertamente e a velocità supersonica, la realizzazione del progetto di smantellamento delle democrazie costituzionali del secondo dopoguerra (e in particolare della nostra, per il modello di Stato sociale da essa adottato), per sostituirle con il sistema di plutocrazia transnazionale sopra citato.
Un progetto – definito capitalismo della sorveglianza e ben descritto da Shoshana Zuboff – che guarda con ammirazione al sistema di credito sociale cinese, coniugato con la feroce e spietata dottrina economica iperliberista, propria del turbo-capitalismo. Ovvero il progetto che Klaus Schwab, nei suoi libri deliranti, chiama il “Grande Reset” e che viene servilmente perseguito, senza eccezione alcuna, dagli attori della politica nazionale e internazionale, con la collaborazione della potente macchina della disinformazione dei media ufficiali e con una censura sempre più sfacciata e stringente nei confronti della libera informazione.
Ritornando alle motivazioni della citata sentenza 183/1973 della Corte costituzionale, esse, sul piano strettamente giuridico, non possono essere condivise.
La fonte normativa delle cessioni di sovranità non può infatti ravvisarsi nell’art. 11 della Costituzione, poiché la limitazione di sovranità ivi prevista è funzionalmente correlata a finalità di pace e giustizia fra le nazioni. Tale norma contiene, cioè, un vincolo di scopo (“la pace e la giustizia tra le nazioni”), rigido e imprescindibile. Le “limitazioni” di sovranità sono consentite solo ed esclusivamente a favore di organizzazioni volte a promuovere la pace e la giustizia tra i popoli. Tali non sono le unioni economiche e, tanto meno, le unioni monetarie (quali l’eurozona) che prevedono l’instaurazione di un libero mercato fortemente competitivo – perciò una feroce concorrenza mercantilista tra gli Stati membri (ovvero l’esatto contrario della pace: chi più esporta vince, chi più importa perde), in un’area valutaria non ottimale (con una moneta unica che favorisce alcuni stati ed è invece svantaggiosa per altri) – che esclude qualsiasi forma di solidarietà e che inoltre si prefigge, come principale obiettivo, la “stabilità dei prezzi” (quindi un elevato tasso di disoccupazione “non inflazionistico”, soprattutto negli stati svantaggiati dalla moneta unica).
L’art. 11 Cost., inoltre, non prevede “cessioni”, ma “limitazioni” di sovranità, purché ciò avvenga “a condizioni di parità con gli altri Stati”. Circostanza esclusa già nel trattato di Roma, poiché della Commissione potevano non far parte membri italiani, tanto più nell’attuale UE e nell’EZ, area valutaria non ottimale a predominanza tedesca, in cui, sin dall’inizio, le regole di convergenza dell’inflazione e di riduzione del deficit, coessenziali alla moneta unica, ma irragionevoli sul piano scientifico, applicate in modo asimmetrico ed “elastico” (solo per alcuni stati), hanno provocato squilibri (vantaggi e svantaggi) e divergenti modalità di attuazione dell’euro tra i vari stati, generando gravi disparità tra gli stessi.
Tantomeno la norma prevede cessioni a favore di apparati di comando oligarchici, come tali privi di legittimazione democratica e di responsabilità politica (operando essi “al riparo dal processo elettorale”).
A differenti conclusioni approda invece una parte della dottrina giuridica con riferimento all’art.10 della Costituzione.
Assumendo a postulato la “progressiva messa in crisi delle tradizionali funzioni sovrane degli Stati nel campo della direzione e del controllo dei processi economici”, essa sottolinea l’esigenza di “assumere a punto di riferimento quel fenomeno sociale omogeneo costituito dall’insieme dei processi di verticalizzazione ed internazionalizzazione delle funzioni politiche” e ne deduce “una posizione di supremazia della Comunità internazionale”. Posizione che diverrebbe “presupposto per l’attribuzione alla Comunità degli Stati di una vera e propria funzione normativa nel disciplinare, per conto di questi ultimi, specifiche questioni d’interesse generale”, con conseguente “riconoscimento di fonte di diritto alle disposizioni del Trattato sull’Unione monetaria” (ora dei Trattati UE).
Tale interpretazione potrebbe “ritenersi in linea con le indicazioni rivenienti dal disposto dell’art. 10 comma 1 Cost.”, in base al quale “l’ordinamento italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute”.
Ciò – si badi bene – ove a tale norma si dia “una lettura che ne apra i contenuti in vista della valorizzazione dell’ordinamento internazionale” e che “non sia circoscritta all’individuazione esclusiva di disposizioni a carattere consuetudinario, bensì estesa a ricomprendere anche le altre regole che possono considerarsi espressione del potere organizzativo della Comunità internazionale, ovviamente prescindendosi dalla natura convenzionale che le medesime presentano” (F. Capriglione, Moneta, Enc. Diritto, Aggiornamento III, Giuffrè, Milano, 1999, 760).
“Prescindendosi, ovviamente…” (!) E qui casca l’asino, perché da tale natura non è assolutamente possibile prescindere. È infatti nozione pacifica in dottrina e nella giurisprudenza della Corte Costituzionale che il meccanismo di adattamento automatico previsto dall’articolo 10 Cost. vale limitatamente alle fonti consuetudinarie, cioè a quelle norme di validità generale riconosciute come tali dalla comunità internazionale, rimanendone invece escluso tutto il diritto internazionale pattizio, ovvero quello che sorge da trattati validi solo per gli stati che li hanno stipulati.
La questione fu oggetto di approfondita discussione in Assemblea costituente, ove venne proposto un emendamento inteso a sopprimere le parole “generalmente riconosciute” dal testo dell’articolo, poiché ritenute inutili.
La commissione dei 75 tuttavia precisò che si trattava di un’espressione tecnica per indicare il diritto internazionale generale, lasciando ad altri procedimenti l’adattamento del diritto italiano a quello internazionale pattizio. L’emendamento non fu approvato e nella seduta del 24 marzo 1947 l’Assemblea approvò l’attuale testo dell’articolo 10.
D’altra parte, l’interpretazione estensiva di una norma inserita tra i principi fondamentali della Costituzione deve ritenersi inammissibile: si risolverebbe infatti in una forma di revisione tacita del principio in essa affermato, pacificamente sottratto a procedimento di revisione in quanto “fondamentale” e, perciò, insuscettibile di modifica (secondo l’insegnamento costante della Corte Costituzionale).
In realtà il diritto internazionale pattizio entra nel nostro ordinamento attraverso l’art. 10 Cost., ma come fonte secondaria. Tra le norme di diritto internazionale generalmente riconosciute opera, infatti, la consuetudine che impone agli stati di osservare gli accordi liberamente stipulati (pacta sunt servanda). Da questa consuetudine (fonte primaria) deriva l’obbligo delle istituzioni di far rispettare i trattati nell’ambito dello Stato (e, dunque, di ratificarli).
Ma solo entro determinati limiti. E qui arriviamo al nocciolo del problema.
Secondo la Corte Costituzionale, i principi fondamentali della Costituzione e i diritti inalienabili della persona (cioè tutte le norme che caratterizzano la nostra Repubblica come uno Stato di diritto, basato su una democrazia del lavoro) costituiscono un “limite all’ingresso […] delle norme internazionali generalmente riconosciute alle quali l’ordinamento giuridico italiano si conforma secondo l’art. 10, primo comma della Costituzione (sentenze n.48 del 1979 e n. 73 del 2001)” ed operano quali “controlimiti all’ingresso delle norme dell’Unione europea (ex plurimis: sentenze n.183 del 1973, n. 170 del 1984, n.232 del 1989, n.168 del 1991, n.284 del 2007) […] Essi rappresentano, in altri termini, gli elementi identificativi ed irrinunciabili dell’ordinamento costituzionale, perciò stesso sottratti anche alla revisione costituzionale (art. 138 e 139 Cost.: così nella sentenza n.1146 del 1988)” (Corte Cost. n.238 del 22 ottobre 2014, paragr. 3.2 -3.4).
Cosa del tutto ovvia, se ripensiamo a quanto detto sulla prevalenza del potere costituente rispetto al potere costituito.
Le restrizioni di sovranità (cessioni o limitazioni) imposte dai trattati UE non dovrebbero, cioè, “indurre alterazioni dei lineamenti del nostro stato come stato di diritto, democratico e sociale” (Mortati, Istituzioni diritto pubblico, Tomo II, Nona edizione, Padova, 1976, 1501 e ss.). Ne consegue che il trasferimento delle relative competenze ad organi comunitari potrebbe ritenersi ammissibile ove questi ultimi fossero informati ai principi fondamentali della nostra Carta Costituzionale e risultassero soddisfatte le esigenze caratterizzanti il tipo di aggregazione sociale voluta dai padri costituenti (cioè, le esigenze proprie di una democrazia sociale del lavoro).
5. I PRIMI 4 ARTICOLI MANDATI AL MACERO
L’attenzione cade perciò sui primi quattro articoli della Costituzione e, in particolare, sul principio democratico, su quello di eguaglianza e su quello lavorista.La forma democratica, com’è noto, è stabilita dall’art. 1 Cost.
La dichiarazione di appartenenza della sovranità al popolo implica la permanenza dell’esercizio di questa nel popolo come contrassegno essenziale e ineliminabile del regime democratico e significa che l’esercizio dei poteri più elevati, cioè quelli che condizionano la direzione e lo svolgimento degli altri, è attribuito al popolo in modo ineliminabile, sicché questo non possa esserne spogliato nemmeno attraverso procedimenti di revisione costituzionale. Il diritto del popolo di partecipare alle supreme decisioni politiche rientra, cioè, fra i diritti inalienabili di cui al successivo art.2, restando così sottratto al potere di revisione (Mortati, Op. cit., Tomo I, Decima edizione, Padova, 1991, 153 ss.).
Questo è ciò che si studiava nei corsi universitari di diritto costituzionale, sino a quando il diritto costituzionale è stato insegnato in modo coerente al testo della nostra Legge fondamentale.
Il potere costituito, in parole semplici, non può cedere ciò che non gli appartiene e che appartiene esclusivamente, in modo ineliminabile, al popolo italiano.
Orbene, nessuno può seriamente dubitare che il potere di assumere tutte le decisioni riguardanti la politica economica, fiscale, monetaria, di bilancio, occupazionale e industriale rientri fra quelli più elevati e condizionanti che l’art. 1 Cost. attribuisce al popolo in modo permanente ed ineliminabile.
Eppure i trattati UE (art. 2, commi 1° e 3°, TFUE; art. 3, comma 1°, lett. c, TFUE; art. 4, comma 3°, ultimo periodo, TUE; art.li da 119 a 133 TFUE; Fiscal Compact, e altri atti giuridici come il Two pack ed il Six Pack) hanno trasferito tale potere ad apparati di comando (Consiglio, Commissione europea, Eurogruppo e BCE) notoriamente privi di legittimazione democratica e politicamente irresponsabili, che sono il braccio esecutivo dei gruppi finanziari e delle multinazionali economiche sopra citate. Apparati la cui struttura e la cui azione, in quei medesimi settori, si pongono in insanabile contrasto con il principio democratico di cui all’art. 1 Cost., sfuggendo completamente al controllo popolare.
Essi hanno istituito un’unione monetaria, adottando una moneta non nazionale, l’euro (art. 3 co. 4 TUE), emessa e controllata (ex art. 127 e ss. TFUE) da un organismo sovranazionale estraneo alla Costituzione (la BCE).
Hanno poi sottoposto gli Stati a vincoli di bilancio pubblico (il 3% del deficit : art. 126 TFUE e relativo protocollo; sino addirittura al pareggio di bilancio con il c.d. Fiscal Compact) che larga parte della dottrina economica giudica insensati e deleteri; vincoli che erodono il risparmio privato (secondo una nota relazione di contabilità nazionale), ostacolano gli investimenti che da questo dipendono e impediscono le politiche sociali che la Costituzione impone alle istituzioni dello stato al fine di realizzare l’eguaglianza sostanziale tra i cittadini (art.3 co. 2° Cost.) e di garantire la piena occupazione (art. 1, 4 e 36 Cost.). Politiche che necessitano di spesa a deficit.Di conseguenza:– il popolo italiano non può più scegliere l’indirizzo fiscale, economico e monetario che gli organi elettivi dovrebbero perseguire;– questi indirizzi fondamentali sono predeterminati (nell’ambito della procedura nota come “semestre europeo”) senza alcuna partecipazione del popolo (non più) sovrano, qualunque sia l’esito delle consultazioni elettorali (vinca l’una o l’altra delle due facce della stessa medaglia filo-capitalista che si alternano al potere);– svuotata da tali contenuti, rimane poco o nulla della sovranità popolare. La sovranità non appartiene più al popolo e la democrazia rimane soltanto un’apparenza formale, svuotata di contenuti sostanziali.
6. LA DISTRUZIONE DELLO STATO SOCIALE
Ma vi è di più. Le cessioni di sovranità economica, monetaria e fiscale hanno prodotto alterazioni dei lineamenti fondamentali del nostro stato anche come stato sociale.
I valori supremi dei trattati UE (cioè, quelli del liberismo economico), fideisticamente perseguiti dai predetti apparati di comando, si collocano agli antipodi di quella “democrazia sociale” che è “il contenuto coessenziale a qualsiasi regime democratico” (Mortati, Op. cit., Tomo I, Decima edizione, Padova, 1991, 147) e che rappresenta l’ideologia accolta dalla nostra Legge fondamentale.
Essi, in quanto valori supremi del liberismo economico (v. sopra), implicano l’attuazione di una politica economica esattamente contrapposta agli obiettivi della piena occupazione (art. 1 e 4 Cost.) e dell’uguaglianza sostanziale (art. 3, comma 2° Cost. ed art.li da 35 a 47 Cost., che ne costituiscono la specificazione) che informano invece il nostro ordinamento costituzionale.
I trattati UE sono dunque la codificazione di un modello sociale, quello ultra capitalista (oggi ulteriormente aggettivabile come capitalismo della sorveglianza), totalmente antitetico a quello accolto dalla nostra Costituzione.
7. USCIRE DALL’UE E’ UN DOVERE GIURIDICO
La cessione a quegli apparati di comando delle funzioni sovrane in materia di politica economica, monetaria, fiscale e di bilancio, perfezionatasi con la ratifica dei Trattati UE, ha conseguentemente comportato la disattivazione dei primi quattro articoli e di tutta la parte economica della Costituzione, cioè dei principi caratterizzanti il tipo di Stato prescelto dal popolo italiano. Si è così resa inoperativa la Costituzione, ben oltre i limiti di una revisione costituzionale, peraltro non ammessa. Si è quindi consolidato, di fatto ed extraordinem, un nuovo assetto di potere plutocratico e autoritario, autolegittimatosi dietro il paravento giuridico dei trattati UE. La UE, in altre parole, è il paravento giuridico di tale potere. Nel cui interesse legifera, con efficacia vincolante, sopra gli stati nazionali, senza alcuna legittimazione democratica (essendo “al riparo dal processo elettorale”). Mortati, ipotizzando astrattamente una tale situazione, la definisce come un atto eversivo, una rivoluzione a tutti gli effetti. Una rivoluzione che è stata attuata senza violenza fisica, perché il popolo italiano, non accorgendosi di nulla, non ha opposto resistenza. Si è dunque verificata la situazione che un altro grande giurista e padre costituente, Piero Calamandrei, il 4 marzo 1947, aveva ipotizzato in Assemblea costituente: l’abolizione anche di fatto dei principi fondamentali della Costituzione comporta non tanto la modifica, ma la completa distruzione della nostra Legge Fondamentale e, con essa, del tipo di Stato prescelto dal Popolo italiano, ormai privato della propria sovranità. Uscire dall’UE sarebbe quindi un preciso dovere giuridico, imposto dalla nostra Costituzione per il rispetto dei suoi principi fondamentali.
[1] Avvocato, in pensione di anzianità dal 1° ottobre 2019. È stato legale fiduciario di primarie compagnie di assicurazione e della Fondazione IRCCS Policlinico San Matteo di Pavia (dall’anno 2002), maturando una profonda esperienza in materia di responsabilità civile. Studioso di diritto costituzionale e dei trattati europei, negli anni ’90 ha pubblicato articoli in materia di responsabilità civile e danni alla persona sulla rivista “Giurisprudenza di merito” della Giuffré Ed. Dal 2013 ha scritto numerosi articoli e tenuto conferenze sull’incompatibilità tra la Costituzione repubblicana del 1948 ed i trattati europei. Nel 2015 ha organizzato un corso di aggiornamento valido per la formazione professionale continua degli avvocati accreditato dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Pavia ed ha svolto la relazione conclusiva dal titolo “L’illegittimità costituzionale delle cessioni di sovranità”.
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