di Eros Barone
1. La direzione gramsciana del Partito Comunista d’Italia (1923-1926) e la lotta contro le opposizioni di sinistra
La lettura dei documenti raccolti nel quinto volume delle opere di Gramsci[1] presenta, nell’attuale congiuntura ideologico-culturale, un interesse che, se difficilmente si può sopravvalutare, sicuramente arricchisce il significato dell’80° anniversario della morte del grande rivoluzionario e pensatore sardo. Questo elemento va sottolineato non tanto per i nessi che collegano la situazione di quella fase alla situazione del 1944-1945 e alla situazione odierna (nessi che pure vi sono) quanto per l’insegnamento scientifico e politico che si ricava da questa serie degli scritti di Gramsci precedenti il carcere: l’ultimo articolo contenuto in questo volume è infatti del 22 ottobre 1926 e la prima lettera datata dal carcere è del 20 novembre. L’arresto era avvenuto la sera dell’8 novembre a Roma. Si tratta perciò di un volume che abbraccia un arco di tempo (autunno 1923 – autunno 1926), che coincide con un periodo di intensa attività nella vita militante di Gramsci: periodo che ha riscontro solo nelle lotte operaie del “biennio rosso” 1919-1920, la cui eco si avverte, nitida e costante, in molte di queste pagine.
Il primo aspetto che occorre rilevare è che contro la direzione gramsciana del Partito Comunista d’Italia (d’ora in avanti PCd’I), costituita con un atto di forza della Terza Internazionale nella seconda metà del 1923 ed imposta ad una schiacciante maggioranza di bordighiani, convergevano, da un lato, la repressione fascista e, dall’altro, l’attacco della socialdemocrazia turatiana e nenniana contro i cosiddetti “fascisti rossi”: repressione ed attacco che trovavano spazio nell’assenteismo politico del vecchio gruppo raccolto attorno a Bordiga. Allora, esattamente come accade oggi con il tentativo di ricostruire un partito comunista nel nostro paese, la sinistra italiana contrapponeva al PCd’I la tesi secondo cui per battere il fascismo era necessario che la borghesia si staccasse dal fascismo; il corollario di questa tesi era la necessità di un ‘partito di sinistra’ (antifascista), ma non di un partito comunista (anticapitalista). Sennonché, si domanda Gramsci, dopo l’assassinio Matteotti (10 giugno 1924) che cosa è la ‘sinistra italiana’? chi sono gli antifascisti italiani? qual è, nella seconda metà del ’24, il significato della parola d’ordine ‘di massa’ del ‘cartello delle sinistre’? «In verità – risponde Gramsci – questo decantato ‘cartello delle sinistre’ rassomiglia un po’ troppo ad una associazione di ‘mandanti del fascismo mussoliniano’, associazione di mutuo soccorso e di difesa di fronte allo sdegno dei lavoratori e al giudizio della storia»[2]. In una relazione al Comitato centrale dell’agosto del ’24 Gramsci definisce i partiti aventiniani come esponenti di un «semifascismo che vuole riformare, addolcendola, la dittatura fascista». Contro la politica di compromesso dell’opposizione aventiniana il PCd’I afferma che «solo una classe, il proletariato, doveva guidare la lotta contro il fascismo, che solo il proletariato avrebbe dovuto condurre fino in fondo questa lotta che non era e che non è solo contro il fascismo come tale, ma (…) è lotta di classe fra il proletariato e la borghesia per il possesso dei mezzi di produzione, e quindi per il potere statale»[3]
La lotta contro le opposizioni di sinistra all’epoca della crisi Matteotti è la più netta confutazione della tesi sostenuta da quanti, anche all’interno della sinistra di classe, hanno visto nell’eliminazione della direzione bordighiana l’inizio di una direzione ‘centrista’ nel PCd’I. È vero, semmai, proprio il contrario, poiché l’avvento della direzione gramsciana segnò concretamente, cioè nella pratica, la nascita del movimento comunista in Italia: un movimento che passava dalle enunciazioni astratte, di principio, all’organizzazione concreta della lotta contro il fascismo e contro la democrazia borghese.
2. Lotta contro il fascismo e contro la democrazia borghese, per la dittatura del proletariato
Orbene, queste due lotte, nel pensiero di Gramsci, sono strettamente connesse. Fermo restando che solo la classe operaia ed i contadini poveri possono battere il fascismo, il vero problema è esattamente l’opposto di quello che vedevano i liquidatori della lotta di classe: il problema del dopo-fascismo condizionava quello della tattica anti-fascista. In altri termini, se si combatteva per un governo ‘democratico’, per un governo ‘di sinistra’, era chiaro che il proletariato doveva essere subordinato politicamente alla borghesia: questa era la strategia indicata da un ampio arco di forze ‘costituzionali’, un arco che partiva da Nenni e arrivava a Giovanni Amendola. Ciò significava che la lotta democratica era direttamente contro la lotta di classe, era lotta antifascista ma, al contempo, lotta anticomunista. Se invece l’obiettivo era il ‘governo operaio e contadino’, che Gramsci, Togliatti e l’enorme maggioranza del PCd’I consideravano sinonimo di dittatura del proletariato, si doveva lottare contro il fascismo «sgretolando – così si esprime Gramsci – la base sociale delle opposizioni, staccando cioè i contadini meridionali dalle posizioni democratiche per portarli a quelle dell’alleanza con gli operai, distruggendo l’influenza che i partiti socialdemocratici hanno nella classe operaia», talché l’obiettivo dei comunisti è quello «di abbattere non solo il fascismo di Mussolini e Farinacci, ma anche il semifascismo di Amendola, Sturzo, Turati»[4]. Questa è la linea che conquista, tra il ’24 e il ’25, , la maggioranza delle avanguardie operaie italiane, raddoppiando il numero degli iscritti al partito e triplicando la tiratura dell’«Unità». Il PCd’I assumerà in quegli anni il rango di una forza politica di primo piano, la sola in grado di indicare con chiarezza una strategia antifascista e di tradurla in atto.
3. Partito comunista e “spirito di scissione”
Per Gramsci «l’unità di fronte contro il fascismo deve crearsi nelle classi sfruttate e deve raggiungersi sotto la direzione della classe operaia»[5]. A partire da questa premessa si aprono tutta una serie di problemi attinenti alla linea politica, alla tattica e all’organizzazione, ossia, in concreto, alla costruzione del partito. Che cosa vuol dire, dunque, per Gramsci costruire il partito comunista? Qui si colloca una prima importante riflessione. Infatti, per Gramsci costruire il partito comunista non significa costruire un partito più ‘a sinistra’ delle socialdemocrazie italiane, ma, al contrario, un partito radicalmente diverso. I comunisti, come Gramsci non si stancherà mai di sottolineare, non sono più radicali, più ‘a sinistra’ dei socialisti, ma sono esattamente l’opposto; sono, cioè, un partito rivoluzionario contrapposto ad un partito riformista, poiché non si collocano al polo opposto dei socialisti rispetto ai problemi (sindacali, politici e morali) di una stessa classe, ma su un fronte di classe opposto. Ciò significa che il partito comunista è l’avanguardia della classe operaia, mentre i socialdemocratici sono l’ala ‘sinistra’ della borghesia e del fascismo. Ecco perché la polemica contro Bordiga si concentra contro i residui di mentalità socialista (nella fattispecie, massimalista) ancora presenti nel fondatore del PCd’I. Le nuove leve affluite nel partito nei mesi successivi al delitto Matteotti non avranno fatto l’esperienza di vita e di lotta nei partiti socialdemocratici e saranno questi nuovi arrivati che determineranno il trionfo della linea gramsciana nel partito (esattamente come, nella situazione odierna, saranno le nuove leve che emergeranno da un’aspra rottura sociale a ‘bolscevizzare’ concretamente l’attuale Partito Comunista, depurandolo dal pesante retaggio opportunista e revisionista delle precedenti formazioni politiche, tutte di stampo socialdemocratico, da cui è scaturito).
Pertanto, prima ancora di essere un problema di linea politica, il problema della costruzione del partito comunista è, per Gramsci, un problema “morale”, di “concezione del mondo e della vita”, di sano “spirito di scissione”, attraverso i quali approfondire e rendere irreversibile la rottura con la “tradizione socialista”. Ciò spiega come mai i problemi della formazione ideologica di massa e della formazione del gruppo dirigente assumano, in questo periodo, un posto centrale nella elaborazione gramsciana.
4. In che cosa consistono studio e cultura per un partito comunista?
Così, la ricchezza e la profondità delle notazioni politico-organizzative su questi temi, oltre a testimoniare tale centralità, rendono particolarmente pregevoli i contributi che Gramsci dedica alla fondazione delle scuole di partito. Sono pagine straordinarie, dove compare quella definizione della cultura proletaria e marxista che deve essere la stella polare di un autentico partito rivoluzionario: «Siamo una organizzazione di lotta, e nelle nostre file si studia per accrescere, per affinare le capacità di lotta dei singoli e di tutta la organizzazione, per comprendere meglio quali sono le posizioni del nemico e le nostre, per poter meglio adeguare ad esse la nostra azione di ogni giorno. Studio e cultura non sono per noi altro che coscienza teorica dei nostri fini immediati e supremi, e del modo come potremo riuscire a tradurli in atto»[6] .
Sotto questo profilo, occorre dunque riconoscere che, congiungendosi con un processo di “bolscevizzazione” che si era sviluppato in modo eminentemente spontaneo, l’azione di Gramsci impresse al partito una “svolta a sinistra” rispetto alla fase contrassegnata dalla direzione di Bordiga. Già la stessa polemica contro il “partito-organo della classe operaia”, cioè puro agente esterno, e a favore del “partito-parte della classe operaia”, «unito alla classe operaia non solo da legami ideologici, ma anche da legami di carattere ‘fisico’»[7], è indicativa di quella rottura radicale con la “tradizione socialista” che caratterizza gli anni di costruzione del PCd’I.
5. L’importanza della cellula di fabbrica e del lavoro sindacale dei comunisti
Da tale premessa discende logicamente la duplice necessità della cellula come organizzazione dei comunisti all’interno della fabbrica e del lavoro nel sindacato. A questo proposito, è opportuno rilevare il ruolo fondamentale che Gramsci assegna all’organizzazione comunista sul terreno dell’azione sindacale: un ruolo che non ha soltanto motivazioni politiche, ma anche strategiche e di principio. Per Gramsci, infatti, «senza grandi organizzazioni sindacali non si esce dalla democrazia parlamentare»[8]: la questione sindacale è quindi un aspetto, per molti versi decisivo, della lotta per la conquista del potere politico da parte del proletariato. Inoltre, l’esperienza sindacale ha un grande valore formativo, poiché insegna a grandi masse la negazione pratica del democratismo borghese, quindi un «un modo di far politica» diametralmente opposto a quello che caratterizza la democrazia parlamentare, fondato cioè sulla lotta, sui rapporti immediati di forza e non sulla contrattazione parlamentare. Le “tesi sindacali” permettono di capire a fondo la politica di massa del PCd’I in quegli anni. Gramsci individua il nodo cruciale ‘crescita del partito-sviluppo della rivoluzione’ nell’antitesi ‘scissione di partito-unità del proletariato’: i comunisti proprio perché spezzano l’unità del partito socialista, proprio perché prendono atto che le differenze tra loro ed i riformisti sono differenze di classe, e non di linea politica, possono porsi come nuovo nucleo unificante di tutto il proletariato. Il radicalismo del PCd’I negli anni della direzione gramsciana deriva così dall’incontro fra una ideologia marxista-leninista e una presenza organizzativa in strati sempre più rilevanti di proletariato operaio e contadino: la linea politica viene tradotta in pratica e ciò produce quel “nucleo d’acciaio” che permetterà al partito, solo fra tutti i partiti italiani, di resistere alla repressione fascista degli anni seguenti.
6. Teoria e pratica dello “spirito di scissione”
Infine, ecco ciò che Gramsci afferma circa il nodo, strategicamente decisivo, del rapporto tra partito e masse: «Il partito rappresenta non solo le masse lavoratrici, ma anche una dottrina (…) e perciò lotta per unificare la volontà delle masse nel senso del socialismo (…). Il nostro partito attua la volontà di quella parte più avanzata delle masse che lotta per il socialismo e sa di non poter avere per alleata la borghesia in questa lotta, che è appunto lotta contro la borghesia. (…) Questa volontà (…) disgrega gli altri partiti operai – operai per la loro composizione sociale, non per il loro indirizzo politico»[9]
Gramsci pone pertanto come obiettivo dei comunisti la teoria e la pratica di quello “spirito di scissione” che si può considerare base e principio del suo insegnamento scientifico e politico: «Lo spirito di scissione, cioè il progressivo acquisto della coscienza della propria personalità storica, spirito di scissione che deve tendere ad allargarsi dalla classe protagonista alle classi alleate potenziali: tutto ciò domanda un complesso lavoro ideologico, la prima condizione del quale è l’esatta conoscenza del campo da svuotare del suo elemento di massa umana»[10].
È questo l’insegnamento di Gramsci di cui occorre, soprattutto oggi, far tesoro per la lotta comunista contro lo Stato democratico-borghese, contro i partiti riformisti e contro le tendenze opportuniste, dovunque e comunque si manifestino.
Note:
[1] A. Gramsci, La costruzione del Partito Comunista – 1923-1926, Einaudi, Torino 1971. Questo volume, così come gli altri quattro del periodo antecedente ai Quaderni del carcere, sono stati fatti scomparire dalla circolazione editoriale e sono oggi reperibili soltanto in alcune ben fornite biblioteche pubbliche. La ragione di tale scomparsa è evidente, così come è palese il ruolo culturalmente decorativo, filologicamente bifido e politicamente controrivoluzionario della Fondazione Gramsci e della sua direzione social-liberale. In effetti, il ruolo filologico svolto dalla sullodata Fondazione è piuttosto velenoso quando si tratta di speculare sulle divergenze tra Gramsci e il partito nel periodo carcerario.
[2] Op. cit., p.195.
[3] Ibidem , p. 278.
[4] Ibidem, p. 39.
[5] Ibidem, p. 198.
[6] Ibidem, pp. 49-50.
[7] Ibidem, p. 482.
[8] Ibidem, p. 38.
[9] Ibidem, p. 239.
[10] A. Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica a cura di V. Gerratana, vol. I, Einaudi, Torino 1977², p. 333.