Riportiamo alcuni passaggi estratti dall’intervento del compagno Alessandro Mustillo (ufficio politico PC) all’iniziativa organizzata a dal Partito Comunista a Terni lo scorso 30 settembre. La conferenza si è svolta alla presenza di lavoratori e delegati sindacali con lo scopo di sensibilizzare i lavoratori sulla necessità di mantenere alta la vigilanza sui piani della ThyssenKrupp in relazione all’AST facendo avanzare fin da ora la consapevolezza della necessità di una lotta politica nei prossimi mesi per tutelare occupazione e condizioni di lavoro. Di seguito alcuni passaggi dell’intervento.
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In questi anni troppo spesso è accaduto che i lavoratori abbiano iniziato a lottare quando ormai era già troppo tardi. Penso a casi di delocalizzazioni, ristrutturazioni aziendali, esuberi. Anche a causa di mancanze politiche e sindacali, e soprattutto per la fiducia mal risposta nelle organizzazioni politiche e sindacali sbagliate, i lavoratori si sono trovati disarmati ad appuntamenti fondamentali. Per questa ragione il Partito Comunista ha cercato oggi un confronto con gli operai dell’AST di Terni, con la consapevolezza che fin da ora è necessario iniziare a preparare la lotta e a diffondere tra i lavoratori la coscienza di ciò che potrebbe accadere nei prossimi mesi […]
Recentemente la Confindustria ha salutato con toni entusiastici un modesto incremento della produzione dell’acciaio in Italia, che nel 2018 ha segnato un +3% circa sul dato dell’anno precedente, con conseguente reingresso dell’Italia nei primi dieci paesi produttori di acciaio al mondo. Senza dubbio i capitalisti – italiani e stranieri – fanno grandi profitti sull’acciaio prodotto in Italia, grazie anche alla costante compressione dei diritti dei lavoratori e alla scarsa attenzione alle questioni ambientali. Ma questo dato è rassicurante per la Confindustria, per i profitti privati delle aziende, ma non per i lavoratori, né per il futuro della produzione di acciaio in Italia e il mantenimento dei livelli occupazionali attuali.
In realtà l’Italia oggi produce la stessa quantità di acciaio che produceva nel 1980, circa 24 milioni di tonnellate. La produzione mondiale dell’acciaio però è più che raddoppiata passando dai 707 milioni di tonnellate del 1980 alle 1.689 di oggi, con una chiara redistribuzione dei rapporti di forza tra i grandi monopoli internazionali e gli stati. Parto da quest’ultimo dato.
Nel 1980 gli USA erano il secondo produttore del mondo – dopo l’URSS – con 109 milioni di tonnellate annue. Oggi ne producono poco più di 81 e sono al quarto posto dietro Cina, Giappone e India. La Cina da sola produce il 49,6% dell’acciaio mondiale. In Europa dopo la Germania (43 milioni) c’è l’Italia (24) seguita a distanza da Francia e Spagna. In sostanza il fabbisogno di acciaio è aumentato in quelli che venivano definiti paesi in via di sviluppo, che hanno accresciuto i propri settori industriali a tal punto da ridurre la crescita nei paesi a capitalismo avanzato, che hanno iniziato a importare acciaio a basso costo dismettendo la propria produzione. Tutto questo processo è ovviamente nelle mani di grandi gruppi monopolistici. Arcelor Mittal, il primo gruppo al mondo, noto in Italia per aver comprato l’ILVA grazie all’accordo siglato da Calenda prima e Di Maio poi, da sola produce circa 100 milioni di tonnellate, ossia più della produzione degli Stati Uniti. Questi dati spiegano perché l’acciaio sia divenuto uno dei settori oggetto dei dazi voluti da Trump, nell’ottica di riportare una parte della produzione “delocalizzata” negli USA.
L’analisi generale può apparire lontana dalle questioni che riguardano Terni nell’immediato, ma in realtà non lo è. Dietro le scelte aziendali ci sono le previsioni e la lettura di quanto accade a livello generale, vista la stretta connessione dei mercati a livello internazionale. Confindustria si è affrettata a dire che i dazi USA non avranno serie ripercussioni sulla produzione italiana, dal momento che il mercato statunitense copre appena il 2% delle esportazioni di acciaio dall’Italia, e che il prezzo dell’acciaio italiano resta ancora competitivo sul mercato statunitense nonostante il peso dei dazi. È possibile che questa previsione sia in parte corretta per quanto riguarda il rapporto diretto con gli USA, tuttavia è assolutamente parziale, perché non tiene conto degli effetti indiretti dei dazi sul mercato globale e le ripercussioni nel consumo interno europeo. Il mercato europeo potrebbe essere ancora più esposto all’ingresso di acciaio dagli altri paesi produttori, deviati dal commercio verso gli USA a causa dei dazi, con ripercussione sulla produzione interna. In poche parole Cina e India potrebbero scaricare una parte rilevante del surplus produttivo non più diretto verso gli USA proprio sul mercato europeo. È un’ipotesi, che però appare assai probabile.
L’Italia – come detto – produce 24 milioni di tonnellate di acciaio all’anno. Di queste ogni anno ne esporta ben 18 milioni, mentre ne importa dall’estero 20 milioni. Anche il mercato interno italiano è tutt’altro che legato strettamente alla produzione di acciaio nazionale e quindi può risentire molto delle vicende internazionali. In secondo luogo nell’area del mercato comune europeo – come in gran parte del settore industriale – la competizione tra paesi, tra cui Germania e Italia è un dato di fatto. Il contrasto tra i grandi gruppi infine incrementerà i processi di concentrazione aziendali, con ristrutturazioni e inevitabili ricadute sull’occupazione: solo incrementando lo sfruttamento del lavoro, diminuendo i costi di produzione e accorpandosi i grandi monopoli riusciranno a competere sul mercato internazionale, compreso quello interno all’area europea.
La Thyssen non fa eccezione. In questo quadro di possibile competizione che la proprietà dell’AST faccia capo alla società tedesca non è certo un fatto rassicurante. La Thyssen da una parte sta portando a compimento il progetto di fusione con l’indiana Tata, da cui nascerà il secondo gruppo mondiale di produzione dell’acciaio, e su cui è attesa la pronuncia della Commissione Europea il 30 ottobre. Dall’altra ha stabilito una divisione in due tronconi della società con la creazione di Thyssen Industries e Thyssen Materials (AST finirà nella seconda, da tutti giudicata meno importante). La direzione dell’azienda tedesca ha sempre dichiarato che il sito di Terni «non costituisce un asset strategico aziendale». Due più due fa quattro. Solo chi vuole illudersi non vede la probabilità di una ristrutturazione aziendale già a partire dai prossimi mesi, sia essa in termini di vendita o di riarticolazione dei processi produttivi, con ricadute occupazionali o nuovi accordi peggiorativi sulla pelle dei lavoratori. D’altronde l’esperienza di questi anni ha dimostrato che la competizione sui mercati viene scaricata direttamente sui lavoratori: se tutto dipende dal prezzo della merce finale i tagli ai salari e l’incremento della produttività sono da sempre la prima risposta che i capitalisti danno per mantenere i propri margini di profitto. Nel settore dell’industria metallurgica l’altra partita è sui costi ambientali: scaricare sulla collettività il peso di ristrutturazioni del processo produttivo che sarebbero necessarie è un modo per non caricare quei costi sulla merce finale, ma il prezzo è il danno per la salute dei lavoratori e delle popolazioni locali […]
Che fare? Nel dibattito collettivo prende forma l’idea che l’importante sia tutelare o riportare sotto la nazionalità italiana la proprietà delle imprese. I capitalisti italiani stanno giocando a diffondere un senso comune di perdita di posizioni alimentando un sentimento nazionalista, che punta a unire lavoratori e imprenditori in ottica corporativa. Ma per i lavoratori la questione non è la nazionalità del proprio padrone, se la logica di sfruttamento resta invariata. Thyssen dice di non voler vendere l’AST, ma il gruppo Marcegaglia si fa avanti per l’acquisto. Può essere la vendita a Marcegaglia una soluzione stabile per il futuro dei lavoratori? Certo che no. È assolutamente impensabile che oggi una industria – sebbene di importanti dimensioni – da sola sia in grado di competere in un settore tanto polarizzato. Oltre alla Marcegaglia ci saranno quindi accordi e compartecipazioni, con altre società, fondi, banche. In ogni caso anche una società italiana non farebbe altro che applicare le regole del mercato capitalistico.
La proposta della nazionalizzazione è quindi l’unica in grado di assicurare l’occupazione dei lavoratori, il mantenimento della produzione dell’acciaio in Italia, la risoluzione del conflitto con l’ambiente e la salute, liberando risorse da sottrarre al profitto privato per il reinvestimento nelle politiche sociali. Si tratta ovviamente di una lotta assolutamente politica, che va oltre una visione meramente sindacale, ma unica in grado di ottenere risultati significativi e duraturi. La nazionalizzazione non muta di per sé il carattere dei rapporti di produzione in uno stato a capitalismo avanzato: non è l’obiettivo finale della nostra azione, la creazione di una società socialista, ma è un risultato ottenibile nell’immediato, che allo stesso tempo caricherebbe quella lotta di nuova forza.
Un forte movimento dei lavoratori che in casi come quello dell’AST lottasse per la nazionalizzazione, aprirebbe un varco anche sotto il profilo culturale nella percezione collettiva, contrastando nei fatti il pensiero dominante sull’efficienza del privato. La dimostrazione contraria è sotto gli occhi di tutti, dai settori produttivi, all’acciaio appunto, basti pensare all’Ilva, alla telefonia per non parlare delle autostrade. Il Ministero dei Trasporti ha diffuso i dati della propria commissione d’inchiesta secondo cui di tutta la manutenzione fatta sul Ponte Morandi dal 1982 ad oggi ben il 98% dell’importo è stato stanziato quando le autostrade erano pubbliche. Anche i tagli sulla sicurezza hanno fatto parte della strategia di incremento dei margini di profitto per i privati. E così lo vediamo ogni giorno nei trasporti pubblici privatizzati, dove stanno peggio i lavoratori e sono peggiori i servizi, nella sicurezza sui luoghi di lavoro, nel ricorso alle esternalizzazioni per comprimere i costi.
Nazionalizzare l’AST significherebbe poter utilizzare quegli 87 milioni di profitti netti fatti dall’azienda nello scorso anno sottraendoli al controllo privato: reinvestendoli in maggiore sicurezza, migliori condizioni di lavoro, potenziamento delle tecnologie per ridurre ulteriormente l’impatto ambientale e così via. Significherebbe riunificare la produzione, eliminando le esternalizzazioni e garantendo a tutti i lavoratori – compresi quelli a cui proprio oggi è scaduto l’appalto – una garanzia di futuro stabile. Una lotta che va accompagnata con quella per il controllo diretto dell’azienda da parte dei lavoratori,, evitando che lo stato ponga al vertice delle società gli stessi manager che entrano e escono da società private, vanificando di fatto ogni reale diversità nella gestione. Questa lotta, partendo da grandi distretti produttivi, metterebbe davvero nuovamente la classe operaia al centro di un movimento più largo e vasto nella società italiana, unico a poter invertire la rotta nel nostro Paese […]
In conclusione due sono le questioni che dobbiamo tenere a mente. In primo luogo non è possibile riporre alcuna fiducia in questo governo, che gioca a presentarsi come “governo del popolo” ma in realtà rappresenta interessi di una parte dei capitalisti italiani. Prova ne è l’appoggio esplicito dato alla Lega da Confindustria. Un governo che gioca a costruire mediaticamente l’idea di uno scontro con le istituzioni europee ma propone un deficit di appena lo 0,1% superiore a quello del 2017. Annunciano la revoca della concessione ad Autostrade ma poi nel decreto per Genova prospettano addirittura l’anticipo delle spese per la ricostruzione del Ponte Morandi da parte dello stato. Non facciamoci prendere in giro! A Taranto questo governo ha già dimostrato la sua vera natura, rimangiato tutte le sue promesse proseguendo sulla linea tracciata dal PD accettando la vendita dell’ILVA a Arcelor Mittal e rinviando ogni aggiornamento necessario agli impianti sul fronte della tutela ambientale.
La seconda questione è l’attualità di un diverso modello di società. I lavoratori hanno tutte le capacità per portare avanti le proprie aziende senza padroni, senza che qualcuno si appropri del prodotto del loro lavoro. Sappiamo che questa prospettiva appare oggi distante dal pensiero collettivo: è un problema di coscienza, non di possibilità oggettive. Per questo è necessario lavorare in questa direzione, per far avanzare la consapevolezza che il socialismo è possibile, attuale ed è la vera e definitiva risposta alle contraddizioni di questa società. Una società socialista è la sola in cui la produzione e tutta l’economia possa essere realmente posta al servizio dello sviluppo sociale, del miglioramento delle condizioni di vita di tutti.
Rivendicando che lo Stato strappi ai privati la proprietà delle più grandi industrie del Paese, lottando per il controllo diretto della produzione, si avanzerebbe davvero verso questa direzione. Accettando l’ennesimo accordo al ribasso i margini di compromesso anche temporanei andranno a ridursi sempre di più e il futuro dei lavoratori sarà solo un incremento del loro sfruttamento.