di Marco Rizzo (segretario del Partito Comunista)
Nel 2007 ero stato invitato alla trasmissione “Domenica In” per presentare il libro “Perché ancora Comunisti. Le ragioni di una scelta”. Per una casualità incontrai dietro le quinte Cesare Romiti, che negli anni ’80 era stato al vertice della FIAT. Parlammo a lungo essendo arrivati entrambi in anticipo. Lui mi parlava di varie questioni, ma da parte mia c’era un solo interesse: avevo la possibilità di parlare con l’uomo della marcia dei quarantamila, di scoprire il punto di vista di chi aveva guidato l’altra “parte”, quella contro sin da giovani ci eravamo battuti direttamente. Ricordavo quei giorni a Torino, e pensavo: ho Romiti davanti devo cercare di sapere di più. Ad un certo punto iniziò quella che mi apparve come una vera e propria confessione, dal contenuto assolutamente inaspettato. Mi disse: «Verso la fine della vicenda dei 35 giorni di occupazione dei cancelli alla Fiat eravamo sul punto di cedere. Cioè io e l’Avvocato (Agnelli n.d.r.) eravamo disponibili ad accettare la nazionalizzazione dell’intero gruppo, poi vi fu quella marcia. Non era previsto quell’impatto che ci fu lì. Ce la siamo trovata. Arrivavano le telefonate a Corso Marconi (sede del comando Fiat n.d.r.) che dicevano: “stanno crescendo, sono sempre di più. Vogliono attraversare la città”. E così quella massa informe di capi e capetti assunse una forte soggettività politica in quel momento (col tempo le gerarchie aziendali subirono invece una vera e propria legge del contrappasso subendo, coni processi di ristrutturazione, tagli molto più significativi rispetto alla stessa classe operaia).
L’antefatto è noto. La Fiat arrivò agli anni ’70 con la massima capacità di attrarre risorse pubbliche da parte dello Stato. Si calcola che il Ministero del Bilancio diede circa tre volte l’intero valore dell’azienda in finanziamenti pubblici con svariate modalità. E si era ad una svolta anche dal punto di vista del modello produttivo: la fabbrica fordista si stava trasformando nella nuova fabbrica automatizzata con l’introduzione dell’informatica, delle macchine a controllo numerico e di tutto quanto ne conseguiva dal punto di vista di riduzione del personale. Infatti nell’estate del 1980 la Fiat, superata la gestione del capitale produttivo con l’ingegner Vittorio Ghidella – l’uomo dei grandi successi come col modello 127 – ed inserita nella prospettiva del capitale finanziario – appunto con Romiti come amministratore delegato – approntò la messa in licenziamento di oltre 24 mila operai. Lo scontro fu durissimo ed iniziò a settembre con l’avvio di quella che fu definita dalla storia come la “lotta dei 35 giorni”. La Fiat fu letteralmente bloccata con presidi e picchetti permanenti davanti ad ogni cancello. Lo stesso segretario Berlinguer recatosi ai cancelli della FIAT e rispondendo ad una domanda di un delegato sindacale aveva ipotizzato l’appoggio del PCI nel caso si fosse arrivato all’occupazione della fabbrica e non solo al blocco delle porte. Invece alla fine di quei giorni arrivò la “marcia dei quarantamila”. Non che fossero davvero quarantamila in realtà erano dieci-dodici mila persone, però erano tanti. Ricordo che noi, studenti all’epoca, andammo a tirargli le uova in Via Nizza a metà percorso ma non fummo certo in grado di bloccarne l’avanzata. Mi ricordo quegli uomini grigi. Quel corteo grigio e silenzioso. Così diverso da quelli operai.
Romiti in sostanza mi stava dicendo che nel 1980 la FIAT, che nel racconto dell’oggi viene accreditata come solida e fortissima, era in realtà una tigre di carta in procinto di cedere. La storia d’Italia sarebbe cambiata radicalmente. La partita che si giocava a Torino, nell’ottobre del 1980, era lo scontro tra la massima forza del movimento operaio e la FIAT, la più grande impresa italiana alle prese con i profondi mutamenti dell’innovazione informatica e tecnologica. Infatti gli effetti non furono limitati alla FIAT ma si estesero all’Italia intera. Ma in quel momento, sentendo quelle parole pensavo all’originalità con cui si era determinata una sconfitta così cocente ed epocale.
Se vogliamo esser obbiettivi non possiamo non dire che furono le scelte strategiche dei vertici politici della sinistra e dei sindacati a determinare la sconfitta. Il giorno dopo la marcia, il sindacato confederale, la FLM potevano fare una manifestazione nazionale a Torino con cento mila persone, che avrebbe fatto impallidire quella del giorno prima. Ma praticamente non venne in mente a nessuno! Bertinotti, Fassino, Novelli – rispettivamente il capo sindacale, quello del PCI locale ed il sindaco comunista – e tutti gli altri non l’avrebbero neanche voluta. Tutto si risolse in una pantomima. Ci fu una drammatica riunione al cinema Smeraldo, dove c’erano tutti i delegati. Io riuscì ad infilarmi lì per vedere. C’era la gente che piangeva, erano quelli che erano stati per quaranta giorni a fare i picchetti. E i picchetti alla FIAT non erano fatti solo dagli operai di Mirafiori. Gli operai di Torino non erano soli, c’era il PCI e l’estrema sinistra di tutta Italia. Si stava lì davanti e c’era tutto il meglio che si poteva pensare. Siamo stati sconfitti perché i generali che ci dovevano guidare non avevano compreso fino in fondo cosa stava accadendo, che c’erano ancora margini di successo. Bastava davvero “durare un minuto in più del padrone” – come ebbe a dire falsamente il segretario nazionale della UIL Giorgio Benvenuto – ed invece si calarono le brache. Nelle assemblee sindacali che ratificavano l’accordo a perdere, senza neanche la rotazione nella cassa integrazione, votavano i capi, gli impiegati, votava gente esterna alla FIAT. Le votazioni erano fatte su piazzali dove poteva partecipare chiunque.
Quell’ottobre lì segna la sconfitta del soggetto del cambiamento sociale in Italia, la sconfitta della classe operaia. La classe operaia scompare lì, non numericamente ma politicamente. Dopo il 1980 il sindacato non sarà più lo stesso, dieci anni dopo scomparirà il PCI e da lì inizieranno le politiche di attacco sistematico ai diritti dei lavoratori. Paradossalmente, come si diceva poc’anzi quei quadri intermedi, quegli impiegati che marciavano contro gli operai sono stati i più licenziati, perché per fare un automobile serviva un capo e dodici operai, dopo con l’innovazione tecnologica servivano meno operai, i capi non servivano. Li hanno fatti fuori tutti. Loro, che come soggetto sociale, avevano sposato l’alleanza con la FIAT sono i primi a scomparire, come spesso accade nella storia.
Questa vicenda, la sua corretta e completa lettura storica dimostra che spesso il nemico di classe è più debole di quanto possa sembrare, e che sono le scelte politiche a determinare direttamente la vittoria o la sconfitta. Se il sindacato e il PCI avessero tenuto e la FIAT avesse piegato la testa, oggi in che Italia vivremmo? È lecito chiederselo, ma più che altro guardare a quell’esempio per le lotte di oggi.
Anche allora come adesso, una svolta epocale del modo di produzione e nelle dinamiche dell’intera società, possono produrre enormi cambiamenti nei rapporti di forza tra le classi. Oggi la scelta è da una parte la concentrazione delle ricchezze nelle mani di pochi oppure dall’altra, grazie ad un ulteriore salto nella riduzione dei tempi di lavoro, dovuto all’innovazione tecnologica e al progresso scientifico, un abbassamento drastico dei tempi di lavoro e la possibilità di conquistare la piena occupazione. Quando il capitale sembra invincibile anche da un punto di vista strutturale, basti pensare alla concentrazione e alla forza dei monopoli anche rispetto ai singoli Stati, si possono celare dei momenti di estrema debolezza. E quindi quando pensiamo ad esempio in Italia alle grandi vertenze dall’acciaio dell’Ilva all’alluminio dell’Alcoa dalla Fiat Chrysler all’Alitalia, ma giù per i rami, anche alle piccole e medie aziende che ora presentano in Italia il cuore dell’innovazione. Sarebbe possibile affidare ai lavoratori, agli operai riuniti in forme innovative di auto-produzione, la possibilità di gestire in maniera pubblica dal punto di vista del regime proprietario e di protagonismo individuale collettivo dal punto di vista della gestione e della decisione su cosa, come e quanto produrre. In sostanza la scelta socialista potrebbe esser molto più vicina di quanto immaginiamo.