di Sabrina Cristallo.
Negli scorsi giorni, la Sicilia è balzata al centro della cronaca per due vicende nerissime che hanno coinvolto prima la città di Ragusa, dove un neonato è stato recuperato, appena in tempo, dal cassonetto in cui era stato abbandonato; e poi Trapani, dove un altro neonato, invece, è stato trovato morto in un sacchetto, gettato da una finestra da chi, solo poco prima, lo aveva partorito in casa: una minorenne terrorizzata dalla possibile reazione dei genitori, i quali hanno dichiarato di non essersi accorti prima dello stato interessante della figlia. Si tratta di situazioni estreme, senza alcun dubbio da condannare, ma che innegabilmente trascinano dietro di sé un’eco tremenda e responsabilità sociali sulle quali siamo chiamati a riflettere e agire: è il grido sordo di tutte quelle donne, tra cui purtroppo si contano sempre più adolescenti, che si ritrovano sole e smarrite davanti alla condizione di una gravidanza indesiderata.
Un Paese che non tutela la donna e le sue specificità è un Paese privo di visione.
Ci troviamo di fronte ad un gigantesco problema sociale favorito dalla concentrazione capitalistica: anni di tagli, privatizzazioni e degradazione di servizi dalle mani dello Stato alle mani delle singole famiglie, spingono le giovani più vulnerabili, che in circostanze inerenti la propria salute sessuale e riproduttiva identificano la famiglia di origine come un nemico, in un vortice di paura e disperazione. Senza il sostegno di servizi pubblici di riferimento e accesso all’informazione e alla conoscenza dei propri diritti, le fasce di popolazione più deboli restano in balia di sé stesse.
La grande assente in Italia è la prevenzione.
Una classifica del 2015 stilata dal Barometro Europeo per il monitoraggio dell’accesso delle donne alla contraccezione avanzata, posiziona il nostro paese tra gli ultimi posti con un punteggio del 22,4%, notevolmente inferiore rispetto anche agli altri stati del sud Europa. Non è certo un caso, considerato che l’Italia risulta uno dei pochi Paesi europei a non aver ancora introdotto l’obbligo dell’educazione sessuale nei programmi scolastici.
Fonte: Barometer of Women’s Access to Modern Contraceptive Choice 2015
Non solo. La Relazione del Ministro della salute sulla attuazione della legge contenente norme per la tutela sociale della maternità e per l’interruzione volontaria di gravidanza (Legge 194/78) del 2017, rivela una copertura nazionale estremamente ridotta di sportelli dedicati alle famiglie. Scarsamente finanziati e sottorganico, vi sono solo tra gli 1 e i 3 consultori ogni 10.000 donne in età fertile e questa insufficienza presenta, a sua volta, una marcata diseguaglianza territoriale in quanto i consultori risultano difficilmente raggiungibili fuori dai centri abitati più grandi.
Tali mancanze, che riducono la capacità delle giovani e delle donne lavoratrici ad autodeterminarsi, risultano invece essere capisaldi strategici in quelle società che perseguono il benessere collettivo, di cui la salute e i diritti sessuali e riproduttivi della donna occupano, senza dubbio, uno spazio fondamentale.
Il diritto alla libera scelta della maternità.
42 anni fa, la Legge 194 depenalizzava finalmente l’aborto inserendovi tuttavia, come contrappeso, il presunto diritto di obiezione di coscienza. Un diritto, quest’ultimo, che ovviamente non riguarda l’intera struttura medico sanitaria ma che, chiamando in causa la coscienza, può essere esercitato a livello individuale. Eppure l’interruzione volontaria di gravidanza resta ancora garantita solo sulla carta: spesso, nelle strutture, i medici non obiettori sono una minoranza e non riescono a coprire tutti i turni, altri, invece, sono obiettori a convenienza.
A fronte di una media complessiva in Italia di 7 obiettori di coscienza su 10 nelle strutture pubbliche, l‘Istituto Superiore di Sanità ha stimato un numero altissimo di aborti clandestini che ruota tra i 12.000 e i 15.000 l’anno.
In più, decenni di tagli alla spesa sanitaria in nome della razionalizzazione delle risorse hanno colpito gli ospedali sia a livello occupazionale che di capillarità sul territorio, favorendo, di proposito, il fiorire delle cliniche private.
Dal momento che non abbiamo una Sanità centralizzata ma i presidi ospedalieri sono affidati alle Regioni, l’applicazione della Legge 194 è risultata, fin dall’inizio, molto debole, in particolare nel sud.
Pensando alla Sicilia, una tra le regioni italiane che soffre maggiormente la mancanza di collegamenti autostradali e ferroviari adeguati per la percorribilità del suo stesso territorio, nonché regione con un tasso di disoccupazione femminile del 48,2% (dati Istat 2019) e una media di 1 donna su 2 a rischio povertà ed esclusione sociale (dal report Mai più invisibili. Indice 2020 sulla condizione di donne, bambini e bambine in Italia diffuso dalla Onlus WeWorld), l’obiezione di coscienza riguarda l’86% dei ginecologi, il 78,9% degli anestesisti e l’84,5% del personale non medico. Per riportare due esempi significativi, a Messina, 35 medici su 36 sono obiettori, mentre a Trapani, l’unico medico ginecologo non obiettore ha raggiunto la pensione nel giugno del 2016 e da allora, il Servizio di IVG, chirurgico e farmacologico, è accessibile un solo giorno alla settimana con un medico incaricato che vi si reca da Castelvetrano e una popolazione femminile in età fertile corrispondente a circa 1/3 dei 67.000 abitanti.
In una intervista Rai del 1978, Tina Anselmi, al tempo Ministro della sanità, in risposta alla giornalista che le pone dinanzi l’ipotesi in cui nessuno sia disposto a praticare l’interruzione volontaria di gravidanza nonostante la legge lo consenta, afferma che non può fare niente ma che, in tal caso, il Parlamento sarebbe chiamato a valutare la situazione. [1] Una risposta che, considerati i dati attuali, dimostra come i diritti civili senza quelli sociali siano spesso una trappola. Infatti, in questo caso hanno tutelato il “diritto” del medico obiettore a danno del diritto sociale della donna.
Le donne lavoratrici difendono l’aborto come strumento attraverso cui esercitare il diritto alla libera scelta della maternità, ma affinché la maternità sia realmente una scelta libera è necessario intraprendere una lotta che miri ad alleggerire il ricorso all’aborto stesso. Occorre, pertanto, incentivare l’educazione all’affettività e alla sessualità e alle misure di contraccezione e la loro diffusione a partire dalla gioventù e garantire istituzioni a tutela della maternità e della cura ed educazione dell’infanzia per emancipare la donna dal percorrere la scelta abortiva come soluzione unicamente dettata dalla propria condizione materiale.
Ma ancora prima è il diritto al lavoro della donna, un lavoro dignitoso, garantito, al riparo dei mille ricatti a cui esse sono quotidianamente esposte. In ciò si unifica la lotta di tutte le donne lavoratrici: le madri, doppiamente oberate, le giovani, private della loro libera scelta di procreare consapevolmente, le nonne, che devono poter gioire dei nipoti non come sostituite dei doveri della società che spesso scarica sulle loro ormai deboli spalle l’onere della cura dei piccoli.
Niente di nuovo per i comunisti.
La depenalizzazione dell’aborto venne legiferata, per la prima volta nel mondo, nel 1920 in Unione Sovietica, nel contesto di solide politiche progettate per salvaguardare i bambini e le donne lavoratrici come madri. Nel socialismo, la convenienza collettiva ha la precedenza sui diritti individuali, infatti anche l’interruzione di gravidanza non è ridotta a discorso relativo la donna singola, bensì è volta alla protezione della collettività e della salute della madre per il bene delle generazioni future.
Diversamente, il sistema capitalista spreme la donna sul piano produttivo del lavoro continuando, allo stesso tempo, ad assoggettarla a quello improduttivo del focolare domestico e, in più, l’abbandona davanti al suo ruolo sociale riproduttivo, speculando sulla sua salute e le sue specificità e lasciandola senza tutele e soluzioni.
No, il capitalismo non è una società per le donne, è barbarie!
Socialismo o barbarie.
[1] Link: http://www.teche.rai.it/2016/05/legge-194-le-riflessioni-di-tina-anselmi-1978/