di Sabrina Cristallo
Il governo Conte ha gestito l’emergenza sanitaria partorendo protocolli e decreti sotto la stretta vigilanza di Confindustria. La salvaguardia della classe padronale a discapito dei lavoratori è la costante di ogni momento di crisi del Capitalismo.
Che la pandemia, dunque, si sarebbe trasformata in una ghiotta occasione per sferrare un duro attacco ai diritti dei lavoratori, era chiaro sin dal principio.
Era già scritto in quelle parole beffarde pronunciate dal presidente del consiglio che, a reti unificate, ripeteva implacabile come il diritto alla salute (di tutti) non potesse valicare il diritto d’iniziativa d’impresa (di pochi).
Gran parte delle fabbriche, infatti, non hanno mai chiuso mentre i dispositivi di protezione individuale sono stati ottenuti solo dopo reiterata richiesta da parte dei lavoratori di molte, troppe realtà. Intanto, veniva chiesto lo scudo per gli imprenditori (e ora per i presidi) rispetto alla responsabilità penale in caso di contagi, mentre noi lavoratori, dal personale sanitario fino all’ultimo dei disoccupati, siamo stati trattati come carne da macello, sacrificabili, invisibili e abbandonati. In cambio, solo degli stupidi slogan da interiorizzare.
Il presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, legittimato dall’ampio spazio di manovra che il governo e i sindacati collaborazionisti gli hanno fornito, dichiara apertamente guerra alla classe lavoratrice, rivendicando il ripristino totale della libertà di licenziare; no assoluto agli aumenti in busta paga, incluso le categorie che hanno continuato a recarsi al lavoro durante tutta la pandemia; più soldi a beneficio delle imprese e la fine dell’erogazione di sussidi a persone e famiglie in difficoltà.
Tuona sulla questione del rinnovo dei contratti collettivi nazionali, affermando di volerli “rivoluzionare rispetto al vecchio scambio di inizio Novecento tra salari e orari”. Il superamento a ritroso della retribuzione legata all’orario in favore del cottimo, una forma contrattuale barbara legata alla produttività che costringe i lavoratori a ritmi di lavoro sempre più sostenuti e li pone in condizioni di maggiore ricattabilità.
Il signor Bonomi – che svolge molto bene il suo compito di classe – invita gli industriali a sostenere “con tutta la risolutezza necessaria” l’uso del cottimo come metodo naturalmente conseguente al progresso tecnologico. Eppure, con i tempi di lavoro che si riducono, la soluzione ovvia è quella di poter lavorare tutti e meglio, ma con i mezzi di produzione e l’innovazione nelle loro mani, il blocco padronale ha relegato la classe lavoratrice ad un’esistenza fatta di precariato e intensificazione del lavoro e delle ore di lavoro: lavoriamo a volte e quando lavoriamo, si lavora di più.
Un colpo di spugna per cancellare diritti e dignità per i quali è stata data la vita e condannarci alla schiavitù.
Oltre la ferocia, anche lo scherno: forse si burla dei sindacati confederali proni ai loro interessi da decenni, forse deride il ruolo storico rivoluzionario del proletariato quando, giocando con il lessico, afferma – “Non è che siamo rivoluzionari noi, è un aggettivo che proprio non ci si addice”. Un “noi” che pone le dovute distanze tra classi, una frase sprezzante che potrebbe benissimo passare inosservata in mezzo a tanto odio ma che conferma come loro lo sanno … e anche noi dobbiamo ricordarcelo.