“Il Partito dalle pareti di vetro”

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“Il Partito dalle pareti di vetro”

Sabato 9 aprile, a Roma, alle ore 15.00, presso il Teatro Flavio, via Crescimbeni 19, sarà presentato il libro di Álvaro Cunhal, Il Partito dalle pareti di vetro, edito in Italia dalla Casa Editrice “La Città del Sole”.

I relatori sono Fosco Giannini, direttore di Cumpanis, Marco Rizzo, segretario generale del Partito Comunista, e Pedro Guerreiro, responsabile del Dipartimento Esteri del Partito Comunista Portoghese.

Saranno presenti anche i direttori di giornali comunisti on line italiani

 

Pubblichiamo di seguito l’Introduzione di Fosco Giannini al libro di Álvaro Cunhal “Il Partito dalle pareti di vetro”

 

L’attualità del pensiero di Álvaro Cunhal e la sua utilità per l’attuale movimento comunista italiano

Introduzione di Fosco Giannini

 

«Da dove viene a noi, comunisti portoghesi, questa allegria di vivere e di lottare? Che cos’è che ci porta a considerare il nostro Partito come un aspetto centrale nella nostra vita? Che cos’è che ci porta a destinare tempo, energie, capacità, attenzione al lavoro nel Partito? Che cosa ci porta ad affrontare, a causa delle nostre idee e della nostra lotta, tutte le difficoltà, i pericoli, a resistere alle persecuzioni e, se le condizioni lo impongono, a sopportare torture e condanne e a dare la vita se necessario? L’allegria di vivere e di lottare ci viene dalla profonda convinzione che è giusta, entusiasmante, invincibile la causa per la quale lottiamo».

È questo il fragoroso, splendido incipit del saggio di Álvaro Cunhal, Il Partito dalle pareti di vetro, pubblicato in Portogallo nel 1985 (undici anni dopo, dunque, la Rivoluzione dei Garofani, che in Portogallo mise fine alla dittatura fascista di Salazar e che vide il Partito Comunista Portoghese svolgere un ruolo decisivo) e, sino a questa pubblicazione, inedito in Italia. Nell’inconsueta (nel mondo comunista tradizionale, nella sua riflessione generale) concezione dell’“allegria del vivere e del lottare”, nel coraggio di elevare a valore umano alto e rivoluzionario l’allegria vi è già un’anticipazione, un segno, del pensiero di Álvaro Cunhal, vi è una sintesi estrema del saggio che presentiamo; vi è il riflesso della vasta e insolita cultura del grande dirigente comunista portoghese che, in ogni pagina del libro, in ogni passaggio concettuale, di fronte ad ogni “nodo” ideologico od organizzativo che attiene alla questione della costruzione del Partito Comunista e alla sua natura politica e ideologica, sempre si dispone a collocare e a mettere a valore l’antropocentrismo umanistico e rinascimentale (umanesimo e pensiero rinascimentale che segnano, assieme alla cultura materialistica, l’essere filosofico di Álvaro Cunhal e anche la sua alquanto insolita – tra i dirigenti comunisti della Terza Internazionale – multiforme, alta e sconosciuta ai più, attività artistica) nel quadro essenziale e prioritario del pensiero marxista e leninista.

Questo coraggioso e nuovo legame tra entità filosofiche diverse, tendente ad umanizzare ancor più la concezione leninista del Partito – senza sottrarle nulla del peso rivoluzionario, anzi liberandola da certo “teocentrismo” con il quale a volte la storia successiva a Lenin l’aveva zavorrata – ha arricchito la teoria e la prassi del Partito Comunista Portoghese, che probabilmente, crediamo, deve molto al pensiero di Álvaro Cunhal e a questo stesso libro. Peraltro, come ricorda lo stesso Álvaro Cunhal nella prefazione da lui scritta per la sesta edizione portoghese, del 2002, di questo saggio e in questa nostra edizione riportata: “Il fatto che la pubblicazione di questo lavoro sia stata approvata dalla Commissione Politica del Comitato Centrale è indicativo che, rispetto ad esso esiste, una ferma e chiara opinione collettiva.

Un’“opinione collettiva” – in verità una vera e propria concezione politica e teorica del Partito – che è già tutta sintetizzata ed evocata nel titolo stesso del saggio di Álvaro Cunhal, Il Partito dalle pareti di vetro, che rimanda immediatamente, senza perifrasi, all’idea alta della trasparenza, dell’elogio del dibattito aperto come premessa della ricerca politica e teorica antidogmatica, della libertà d’espressione, dell’accorciamento delle distanze tra dirigenti e militanti, dell’idea di un Partito Comunista che praticando già al suo interno la democrazia socialista sia un’anticipazione stessa del socialismo a cui quel Partito mira. Del socialismo che vorremmo.

I tratti migliori, più avanzati, della cultura umanistica e rinascimentale, in Álvaro Cunhal, non solo non entrano mai in contrasto con la profonda cultura marxista e leninista dell’Autore, ma a questa cultura donano uno splendore, persino una pietas, una clemenza umana e una comprensione dell’umano (pur sempre all’interno di una ferrea e totale concezione di classe) che in altre riflessioni di altri partiti comunisti è forse mancata. Il risultato di tutto ciò, in una rozza sintesi che solo la lettura e soprattutto lo studio del libro possono sciogliere in un più vasto pensiero, è che ogni problematica inerente alla natura politica e ideologica del Partito Comunista Portoghese, alle questioni dell’organizzazione, della democrazia e della disciplina interna, è affrontata attraverso una lente rivoluzionaria che mai dimentica o trascura l’elemento umano, attraverso un’inclinazione culturale che è la stessa del proletariato.

Uno straordinario viatico politico e filosofico, questo, volto ad assicurare la fermezza rivoluzionaria del Partito, ad evitare in ogni modo le eventuali involuzioni burocratiche e “dittatoriali” ad esso interne, favorendo conseguentemente la continua messa a valore dell’essenza umana e di classe dei militanti comunisti e degli stessi “quadri” del Partito, ostinatamente e continuamente posti sullo stesso piano valoriale. Come dirà Álvaro Cunhal in questo stesso libro, parliamo, nell’essenza, della democrazia del Partito, della democrazia comunista. Una questione che Álvaro Cunahl sente così tanto – vale la pena ribadirlo – poiché tanto crede alla concezione del Partito Comunista come premessa della stessa forma sociale per cui lotta: il socialismo. Se vogliamo che “la classe” si innamori del progetto socialista – è il pensiero di Álvaro Cunahl – occorre fare in modo che il Partito Comunista, nella sua prassi quotidiana, nella lotta e nella sua vita interna ne sia, appunto, l’anticipazione nel presente. L’anticipazione che anche il PCI, prima della propria, lunga, involuzione e del proprio autoscioglimento, rappresentava, quando Pier Paolo Pasolini lo definiva “Un Paese nel Paese”.

Attraverso la propria concezione articolata, profonda, Álvaro Cunhal immerge continuamente sia le questioni “cardinali”, quelle ideologiche e strategiche, che quelle organizzative e di gestione interna al Partito, nell’acqua balsamica dell’antidogmatismo, costruendo un prisma dalle molte lenti unificate col quale interpretare, nella loro dialettica, sia le questioni relative alla necessità di uno studio serio e continuo sul piano della ricerca politica e teorica e sul piano della comprensione del presente, che le questioni relative all’efficacia del lavoro politico dei militanti e dei quadri del Partito Comunista e alla loro autorevolezza, le questioni della democrazia interna e del rispetto e della messa a valore umana e di classe dei militanti e dei dirigenti. Gli strali che Álvaro Cunhal lancia contro ogni forma di “culto della personalità”, di dispotismo dei quadri dirigenti, contro ogni forma di abuso di potere, di centralizzazione del potere e di rimozione del lavoro collettivo (che Álvaro Cunhal giudica la qualità massima e imprescindibile del Partito Comunista, senza la quale ci si avvia alla degenerazione) sono strali feroci, attacchi violenti contro ogni possibile involuzione della prassi e dell’ideale comunista.

I capisaldi del pensiero e della prassi del movimento comunista sono, in questo libro, non solo creativamente rilanciati, a fronte di qualche cedimento e qualche distorsione apparsa in alcune esperienze del movimento comunista mondiale, ma – questi capisaldi – sono sviluppati e rafforzati nella ricerca e nella lotta.

Ricollocate al centro, nella riflessione di Álvaro Cunhal, sono le questioni dell’imperialismo e della lotta antimperialista, questioni che invece andranno man mano offuscandosi in alcune esperienze comuniste e di sinistra, specie in Europa. Come non ricordare, rispetto a ciò, il commento de “L’Unità”, (il quotidiano di quel PCI che alla fine degli anni ’80 stava cambiando radicalmente la propria natura politica) rispetto alla prima Guerra del Golfo, 1991, quando, appunto dalle pagine di quella testata, emergeva un giudizio sull’attacco USA e NATO così formulato: Questa è certo una guerra, ma non una guerra imperialista”?

Una categoria, questa dell’imperialismo, invece pienamente riassunta nel bagaglio politico-teorico dell’odierno Partito Comunista Italiano. Scrive Álvaro Cunhal sull’imperialismo:

«Rifiutandosi di accettare le nuove realtà del mondo di oggi, l’imperialismo e, specialmente, l’imperialismo nordamericano, utilizza contro il processo di trasformazione sociale colossali mezzi materiali e ideologici. Appoggia e aiuta le classi parassitarie detentrici del potere per continuare a imporre lo sfruttamento dei loro popoli. Appoggia le dittature fasciste, i regimi più reazionari, le misure repressive più brutali contro i lavoratori e i popoli in lotta. Utilizza contro le rivoluzioni mezzi finanziari, economici, diplomatici, politici e militari. Organizza blocchi, sabotaggi, attentati, eversioni, reti, gruppi e azioni terroristiche. Scatena aggressioni militari e guerre non dichiarate. Nella sua espressione più avventuristica e irresponsabile, com’è attualmente il governo Reagan degli Stati Uniti, lancia la corsa agli armamenti nucleari e alla militarizzazione dello spazio, e scatena una politica di vera crociata anticomunista e antisovietica, mettendo in pericolo la pace mondiale e l’esistenza dell’umanità».

Centrale, in Álvaro Cunahl, è certamente la questione ideologica, la questione del marxismo-leninismo, che all’interno del Partito Comunista Italiano della fase in cui esce il libro in oggetto (1985) iniziava già a subire quegli attacchi che avrebbero portato alla “Bolognina” e alla trasformazione del PCI nel PDS ed infine nel PD. Ma il marxismo-leninismo di Álvaro Cunahl è dichiaratamente antidogmatico. Scrive infatti l’Autore:

«Il marxismo-leninismo è una spiegazione della vita e del mondo sociale, uno strumento di ricerca e uno stimolo alla creatività… è una potente arma di analisi e di ricerca che permette di caratterizzare le situazioni e i nuovi fenomeni e trovare per le une e gli altri le risposte adeguate. È in questa analisi, in questa ricerca e in queste risposte che vengono messe alla prova della prassi, che si rivela il carattere scientifico del marxismo-leninismo e che il PCP si conferma come un partito marxista-leninista. Pertanto, in relazione a esso si rifiutano simultaneamente due tendenze. La prima è la cristallizzazione dei principi e concetti, che rende impossibile l’interpretazione della realtà attuale perché ignora o disprezza le nuove, costanti e arricchenti conoscenze ed esperienze… Lo studio dei testi non dispensa dallo studio della vita. La teoria nasce dalla pratica e vale per la pratica. È nella pratica che può diventare una forza materiale. Un marxista-leninista non può mai opporre i testi alla realtà. Non può negare una realtà che gli si presenta nel cammino con il pretesto che i maestri non l’avevano prevista… Non si è marxista-leninista solo perché si dice “Viva il marxismo-leninismo” e si afferma la fedeltà ai principi, se questi sono intesi come pietrificati e fuori dalla realtà in cui si lotta. Per un partito che si dice marxista-leninista è importante esserlo di fatto. La seconda tendenza in relazione alla teoria che il PCP rifiuta, è il tentativo di rispondere alle nuove situazioni attraverso un’elaborazione teorica speculativa e aprioristica, disprezzando o rifiutando i principi del marxismo-leninismo e le esperienze che sono valide universalmente del movimento rivoluzionario. In questa tendenza è frequente la preoccupazione della “novità” credendo che è giusta solo perché appare come qualcosa di nuovo e rinnovatore».

Mentre nella fase d’uscita del libro di Álvaro Cunhal veniva già avanti, su diversi fronti, politici e accademici, un’offensiva ideologica volta ad attaccare e rimuovere la concezione del partito comunista come partito d’avanguardia, Álvaro Cunhal scrive:

«Il PCP si conferma l’avanguardia rivoluzionaria della classe operaia e di tutti i lavoratori. Che cosa è che caratterizza il PCP come avanguardia? In primo luogo, la conoscenza profonda della situazione e dei problemi dei lavoratori, la difesa dei loro interessi e aspirazioni, la definizione su base scientifica degli obiettivi della lotta nelle varie situazioni e tappe dell’evoluzione sociale nel quadro della missione storica della classe operaia. Se diminuisce la conoscenza della situazione e dei problemi, se si affievoliscono le posizioni di difesa degli interessi di classe, se gli obiettivi di lotta non sono definiti con rigore, è inevitabile che il Partito, nonostante si affermi come avanguardia, congiunturalmente smette di esserlo».

Naturalmente, in relazione alla tenuta ideologica del Partito Comunista Portoghese, alla sua scelta politico-teorica di non abbandonare la propria natura di classe e rivoluzionaria ma di rinnovarla, invece, nella ricerca continua e nella prassi, prende corpo (non tanto tra le forze politiche e sociali portoghesi, che conoscono la natura del PCP e ne rispettano il prestigio e l’autorevolezza, quanto tra diverse forze di sinistra europee) un pregiudizio volto a rimandare, del PCP, un’immagine di partito chiuso e “ortodosso”, genuflesso al filo-sovietismo. Álvaro Cunhal, nel suo libro, di nuovo risponde a questo interessato pregiudizio con una disamina dei “modelli” da seguire che rende risibile l’immagine falsa che da alcune parti viene fatta del suo partito. E così si esprime l’Autore:

«I fatti comprovano che non ci sono né “modelli” di rivoluzione né “modelli” di socialismo. Ci sono leggi generali di sviluppo sociale che si verificano dovunque. Ci sono caratteristiche fondamentali (relative al modo di produzione e ai rapporti di produzione) delle formazioni sociali ed economiche che si succedono nella storia. In un processo di carattere universale ci sono esperienze di validità universale. Ma le specificità e originalità delle situazioni e dei processi, inclusa l’influenza dei fattori internazionali, determinano ed esigono una crescente differenziazione nelle soluzioni di problemi concreti, che in ogni paese si presentano alle forze di trasformazione sociale. Accade che trionfino rivoluzioni che si dovrebbero considerare sbagliate o impossibili alla luce delle esperienze conosciute. E, tuttavia, dal punto di vista storico, bisogna per forza ammettere che il cammino era quello giusto perché non si può considerare sbagliata una rivoluzione che trionfa».

Di grande importanza, nella riflessione di Álvaro Cunhal, è il rilancio, per la struttura organizzativa del PCP, della centralità della “cellula di produzione”, del partito – dunque – di tipo leninista e gramsciano. Un’opzione organizzativa rimossa, sia sul piano teorico che, soprattutto, su quello della prassi, da tanta parte delle forze di sinistra europee (a volte anche comuniste), forze che, riassumendo in toto la forma ideologica dei partiti socialisti della Seconda Internazionale, che prevedevano la sezione territoriale come unica opzione organizzativa, abbandonavano in verità la concezione leninista del partito, che vedeva proprio nella cellula di produzione, nell’organizzazione calata direttamente nel conflitto capitale-lavoro, l’essenza di un partito conseguentemente anticapitalista, comunista e rivoluzionario. Una concezione, questa leninista, rilanciata da Gramsci nelle “Tesi di Lione”.

Scrive, a proposito del partito organizzato in cellule di produzione, Álvaro Cunhal:

«La natura di classe del Partito si afferma e si rivela, …nella struttura organica, dato che le organizzazioni nei posti di lavoro, in particolare le cellule d’impresa, costituiscono la forma fondamentale e prioritaria dell’organizzazione di base del Partito. L’esperienza internazionale evidenzia numerosi casi in cui decisioni di sostituire le cellule di impresa con le cellule di territorio, le cellule del luogo di lavoro con le cellule del luogo di residenza, attribuendo, a volte, a organizzazioni sociali o politiche unitarie la direzione delle attività nelle imprese, corrispondono a un infiacchimento ideologico e a un abbandono di obiettivi di classe dei rispettivi partiti». Un’idea-forza, questa di Álvaro Cunhal mutuata da Lenin e da Gramsci, che molto sarebbe utile anche alle attuali esperienze organizzative del movimento comunista italiano.

La questione dei quadri comunisti, della loro preparazione come elemento prioritario per la conduzione della lotta di classe è questione tuttora centrale e discussa, è questione da chiarire nella misura in cui ancora, in alcune aree politiche ed intellettuali, permangono visioni inclini a contrapporre il partito di quadri al partito di massa, contrapposizione surreale, dato che – come anche Gramsci chiariva nella propria teoria della centralità dei capitani – non può esservi nessun partito di massa e con una linea di massa senza un partito di quadri. Chiarisce Álvaro Cunhal, anche in questo caso fornendo riflessioni dal carattere antidogmatico:

«La preparazione e formazione dei quadri costituisce un lavoro con aspetti estremamente diversificati, ma che contiene come linea di orientamento fondamentale, l’assimilazione di principi legati all’attività pratica. A volte, parlando della preparazione e formazione dei quadri, si tiene quasi esclusivamente conto della loro preparazione e formazione ideologica. Senza dubbio hanno un importante ruolo nella preparazione e formazione dei quadri. Perciò, l’aiuto politico, lo studio in generale e lo studio del marxismo leninismo in particolare, la partecipazione ai dibattiti, la frequenza dei corsi, costituiscono aspetti significativi e a volte determinanti della preparazione dei quadri. Ma la preparazione e la formazione dei quadri non si limitano alla preparazione e formazione ideologica. Altri aspetti inseparabili sono la capacità acquisita nell’esecuzione dei compiti che sono loro affidati, il crescente senso di responsabilità, la formazione del carattere».

Vi sono categorie e concezioni, nella riflessione di Álvaro Cunhal, che per una sorta di cosmopolitismo affiorato in aree di sinistra e persino comuniste europee, hanno decentrato e poi soppiantato l’internazionalismo e il patriottismo antimperialista e anticolonialista e che l’Autore rimette decisamente in circolo. Per l’importanza e la densità della riflessione su questi temi enucleiamo un ampio brano di Álvaro Cunhal:

«Patriottismo e internazionalismo sono tratti essenziali della politica e dell’attività del PCP. Figlio della classe operaia portoghese, figlio del popolo portoghese, il PCP è parte integrante della società portoghese e della nazione portoghese. Le sue radici di classe risiedono nella realtà economica e sociale, nella problematica, nella cultura e nelle tradizioni nazionali. Per la sua natura, e per la sua politica, per la sua azione, il PCP è un Partito nazionale nel più ampio è più profondo senso della parola. Partito al servizio del popolo, partito al servizio della Patria. La fase imperialista dello sviluppo del capitalismo determina un crescente abbandono degli interessi nazionali da parte della borghesia, sempre più strettamente legata agli interessi dell’imperialismo straniero e spesso da completamente dipendente da essi. Durante il fascismo, i gruppi monopolistici associati all’imperialismo e al governo fascista, loro agente, sottomettevano apertamente l’interesse nazionale agli interessi dell’imperialismo straniero. Dopo il 25 Aprile, la politica controrivoluzionaria, avendo come obiettivo centrale e fondamentale il ripristino dei monopoli, è ugualmente caratterizzata dal sacrificio degli interessi nazionali a questo obiettivo, da sottomissione, servilismo e capitolazione, da gravi concessioni economiche, finanziarie, politiche, diplomatiche e militari all’imperialismo. L’autorizzazione alla creazione in Portogallo di grandi banche straniere, la consegna di settori chiave dell’economia portoghese alle multinazionali, l’adesione alla CEE e gli accordi di capitalizzazione firmati con questa, l’accettazione di imposizioni leonini del FMI, le nuove concessioni militari in territorio portoghese fatte agli Stati Uniti e agli altri paesi della NATO – sono testimonianze della progressiva consegna del Portogallo allo straniero per la politica di restaurazione monopolistica. La politica dei grandi capitalisti, dei latifondisti e dei partiti che li servono è, nei suoi aspetti essenziali, una politica antinazionale, una politica che aggrava i legami di dipendenza, una politica che diminuisce, limita, ferisce, compromette la sovranità e indipendenza nazionale. Inversamente, l’evoluzione del capitalismo determina l’identificazione crescente degli interessi della classe operaia e delle masse lavoratrici con gli interessi nazionali. La lotta dei lavoratori contro il potere economico e politico dei monopoli e dei latifondisti esistente al tempo del fascismo, e contro la loro restaurazione dopo la Rivoluzione di Aprile è diventata, per la sua stessa natura, una lotta per la salvaguardia della sovranità e dell’indipendenza nazionale… Partito patriottico, il PCP è allo stesso tempo un partito internazionalista».

Vi è poi la questione del Programma Generale del partito comunista (cosa ben diversa, occorre ricordarlo, sia da eventuali proposte programmatiche che dai documenti congressuali) attraverso il quale il partito può presentare la propria carta d’identità ai lavoratori, alle masse popolari e alle giovani generazioni. Così parla Álvaro Cunhal del Programma Generale:

«Il programma di un partito non si deve considerare come un programma di governo, relativo a un breve periodo della sua amministrazione, ma come la definizione di obiettivi e delle misure necessarie in una tappa determinata dello sviluppo sociale e politico. La rivoluzione democratica e nazionale fu cominciata ma deve ancora essere completata. Per questo si mantiene interamente valido il Programma del PCP. Programma per una tappa determinata di lotta del popolo portoghese. Ma con una più ampia prospettiva di sviluppo. I grandi compiti nella tappa attuale sono quelli della rivoluzione democratica e nazionale. Ma il PCP – esattamente perché è un partito comunista – mantiene come suo obiettivo la costruzione del socialismo e del comunismo in Portogallo. Confermando il testo primitivo approvato nel 1965, il VII Congresso, realizzato nel novembre del 1974, ha sottolineato che “instaurato il regime democratico si aprono grandi possibilità di uno sviluppo pacifico del processo rivoluzionario, potendo essere realizzate profonde riforme sociali nel quadro della legalità democratica e dell’accordo con la volontà espressa dal popolo portoghese”».

Ma oltre che sui temi fondanti, altrettanto innovativa e densa è la riflessione di Álvaro Cunahl su quelli (non certo secondari) della vita interna al Partito Comunista, del lavoro collettivo, della democrazia di partito, dell’etica comunista.

Quante volte, nella loro esperienza pratica, i militanti comunisti, nella loro storia generale, si sono trovati di fronte a forme degenerative della democrazia interna al loro partito, quali l’accentramento del potere da parte dei gruppi dirigenti, all’esautoramento degli stessi gruppi dirigenti da parte del leader, del segretario, del dirigente, alla rimozione del lavoro collettivo? Non raramente. Altissima è la lezione che sul lavoro collettivo delinea Álvaro Cunhal nel terzo capitolo del libro (“Il grande collettivo del Partito”):

«Il lavoro collettivo, avendo come prima e fondamentale espressione la direzione collettiva, ha costituito un principio di base del nostro Partito. Molti partiti definiscono la sua direzione come direzione collettiva. Ma i modi di comprendere e realizzare la direzione collettiva sono diversi e anche contraddittori. Nel PCP si intende la direzione collettiva come un principio e una pratica che vanno molto al di là dell’approvazione o ratifica di decisioni, della votazione maggioritaria di proposte individuali e della responsabilizzazione del collettivo per decisioni individuali… Nel PCP la direzione collettiva in qualunque organismo, a cominciare dagli organismi esecutivi del Comitato Centrale, significa, in primo luogo, che è l’organismo e non qualcuno dei suoi membri che decide sugli orientamenti e direzioni fondamentali della sua attività e che esiste la permanente apertura alle opinioni divergenti e ai contributi individuali di ciascuno. Significa, in secondo luogo, che ciascuno dei suoi membri sottopone la sua attività pratica all’opinione e approvazione dell’organismo… L’espressione “il nostro grande collettivo di partito”, che diventò abituale sulla bocca dei militanti (e che è diventata ufficiale a partire dal X Congresso), traduce la partecipazione, l’intervento e il contributo costante dei collettivi, la ricerca costante dell’opinione, dell’iniziativa, dell’attività e della creatività di tutti e di ciascuno, la convergenza delle idee, degli sforzi, del lavoro delle organizzazioni e dei militanti nel risultato comune».

Poiché questo alto ideale espresso da Álvaro Cunahl del lavoro collettivo e del rifiuto, conseguentemente, dell’accentramento del lavoro e del potere politico in poche mani è divenuto pratica comune e interiorizzata nel PCP, la lezione è davvero importante per l’intera esperienza comunista.

Grande è l’attenzione che Álvaro Cunhal mostra nei confronti delle possibili degenerazioni della vita interna del Partito Comunista (peraltro, come asserivano i poeti dell’America Latina “I comunisti esistono perché il comunismo non c’è”, chiaramente intendendo che sino a che una formazione sociale nuova, rivoluzionaria, comunista, non si sia affermata e abbia costruito e disseminato in profondità un nuovo senso comune di massa, anche i comunisti che operano all’interno delle formazioni sociali capitalistiche sono destinati a risentire delle degenerazioni morali capitalistiche). Scrive Álvaro Cunhal, ad esempio, nel Capitolo 5 e nel paragrafo significativamente intitolato “Arroganza del capo e del potere”:

«L’arroganza del comando e del Potere (di un partito o di uno Stato) consiste fondamentalmente nella affermazione del comando e del potere di fronte agli altri, anche quando non è opportuno o necessario. Tale arroganza può derivare dalla concezione politica che la leadership e il potere devono evidenziarsi per imporre rispetto e autorità. Può anche avere come origine l’indole personale dei dirigenti e dei rappresentanti del potere, che difficilmente accetteranno di passare inosservati… L’arroganza del comando e del potere è sempre un’espressione di privilegio acquisito o tollerato e di esercizio abusivo di funzioni responsabili… Oltre agli aspetti più gravi nei quali si può riflettere, si manifesta in gradi minori che sono la genesi dei maggiori. L’arroganza si può manifestare nella maniera di muoversi, di parlare, di comportarsi tra gli altri compagni evidenziando una responsabilità superiore; in maniera maggiore, a volte fuori luogo, nel reagire a opinioni differenti; nella intolleranza verso comportamenti o parole discordanti; nello stabilire forme di relazione che evidenziano, anche quando non serve, dove sta il comando e dove sta il Potere».

La stessa, profonda, critica Álvaro Cunhal la riserva al “culto della personalità”: «Il culto della personalità è un fenomeno negativo che comporta inevitabilmente pesanti conseguenze nel partito in cui si verifica. Gli elogi pubblici e l’esagerazione dei meriti del dirigente oggetto del culto sono aspetti superficiali. Le questioni di fondo sono straordinariamente più gravi. Sono le incomprensioni e la sopravvalutazione del ruolo dell’individuo. È l’attribuzione a una personalità non solo di ciò che gli è dovuto per i suoi meriti, ma di ciò che è dovuto ai meriti di molti altri militanti. È l’ingiusto oscuramento del contributo degli altri militanti, nonché della classe e delle masse. È la pratica della direzione individuale e della sovrapposizione della opinione individuale (anche se errata) a quella collettiva. È l’accettazione sistematica, cieca, senza riflessione critica delle opinioni e decisioni del dirigente. È la convinzione o l’imposizione della sua infallibilità. È l’attesa delle decisioni del “capo” e la distruzione dell’iniziativa, dell’intervento e della creatività delle organizzazioni e dei militanti. È la falsa idea che i compiti che spettano al Partito e perfino alla classe operaia e alle masse possano essere svolti dal dirigente oggetto di culto. È l’indebolimento della coscienza comunista, dell’apprendimento e della responsabilità dei dirigenti e militanti. È l’indebolimento e l’annegamento della democrazia interna nei suoi vari aspetti (lavoro collettivo, regola della maggioranza, indipendenza di giudizio e di opinione, prestazione di rendiconti). È il cammino quasi inevitabile verso l’intolleranza, il dirigismo, l’uso di metodi amministrativi e sanzioni in relazione a coloro che non sono d’accordo col dirigente oggetto del culto, lo contraddicono o gli si oppongono».

Il pericolo delle tendenze burocratiche è sotto esame costante di Álvaro Cunhal:

«L’apparato o nucleo centrale svolge un ruolo della più grande importanza nel Partito, a condizione che venga assicurato, nell’apparato, il rispetto dei principi organici e la pratica dello stile di lavoro del Partito. Si tratta di una condizione indispensabile perché qualunque apparato, anche quando inserito nella totalità dell’organizzazione, è suscettibile di favorire tendenze burocratiche incarnate in quel che si può chiamare “spirito di apparato” o “vizi di apparato”. L’apparato o nucleo centrale del PCP comprende e compie le sue funzioni, ed è fondamentalmente alieno dal burocratismo e dai “vizi di apparato” per due ragioni fondamentali: perché sono costantemente valorizzati gli orientamenti, le norme, e metodi corretti di lavoro su cui, anche in modo costante, si insiste; e perché sono costantemente combattute le tendenze burocratiche e le loro manifestazioni. Sono orientamenti costantemente valorizzati la creazione di un ambiente fraterno, di fiducia reciproca in tutti gli organismi, mantenendo sempre viva la responsabilità individuale e di ciascuno dei membri e la responsabilità collettiva e individuale davanti alle rispettive organizzazioni e davanti a tutto il Partito».

A dimostrazione della filosofia politica di Álvaro Cunhal come simbiosi straordinaria tra ideologia rivoluzionaria leninista, umanesimo e grande cultura rinascimentale, enucleiamo ed uniamo tra loro tre passaggi del Capitolo 8 e dei paragrafi sulla “morale nuova”, sull’“amore per la verità” e sulla “fraternità e sull’aiuto reciproco”:

«Essere comunista non consiste solo nell’avere un obiettivo politico e lottare per la sua realizzazione. Essere comunista non è solo un modo di agire politicamente. È un modo di pensare, di sentire e di vivere. E questo significa che i comunisti non hanno solo obiettivi politici e sociali, non hanno solo un’ideologia e un ideale di trasformazione della società, ma anche che hanno una morale propria, differente dalla morale della borghesia e superiore ad essa… la causa operaia inspira concetti e sentimenti di generosità, di fraternità, di solidarietà, di amore per gli esseri umani. L’ideale politico comunista si inspira ad una morale superiore. La pratica rivoluzionaria dei comunisti è una scuola di elevata educazione morale e di formazione del carattere… La morale dei comunisti è parte integrante della forza rivoluzionaria del Partito. Interviene come forza materiale nel processo della lotta emancipatrice e di trasformazione della società. È anche un elemento integrante della trasformazione dell’uomo stesso… La verità è un principio inerente a tutta la vita e l’attività del partito. L’amore per la verità è elemento componente della morale comunista… La comunanza di ideali, l’identità di obiettivi, la radice di classe, la lotta comune e le prove che questa esige, la vita democratica del Partito e il lavoro collettivo, la partecipazione in realizzazioni che implicano organizzazione e coordinamento di sforzi – tutti questi e altri molteplici fattori sono incompatibili con l’isolamento dell’individuo e con comportamenti egoistici, e sviluppano nei militanti l’abitudine di aiuto reciproco e sentimenti di amicizia e fraternità. Casi di relazioni difficili o anche di incompatibilità tra compagni, perché come casi sono considerati, seguiti e aiutati, confermano una situazione generale e un ambiente generale che li condanna esplicitamente o implicitamente. La normalità nelle relazioni tra comunisti e l’amicizia disinteressata, profonda e durevole, la prontezza nel correre in aiuto dei compagni, la facilità nel condividere gli sforzi, le privazioni e le difficoltà, la fraternità nel senso più alto del termine. Ci consideriamo fratelli nella lotta e come fratelli di lotta ci vediamo, ci conosciamo, ci rispettiamo e ci stimiamo».

Naturalmente, l’attenzione di Álvaro Cunhal verso i possibili aspetti degenerativi non declina certo verso una concezione “libertaria” della vita interna al partito comunista. Il centralismo democratico (con il valore centrale della disciplina) è, da questo punto di vista, riassunto totalmente dall’Autore come cardine della vita interna al Partito Comunista, come regolatore delle relazioni tra i militanti, come esorcismo primario della deleteria formazione di correnti o frazioni e anche come elemento indispensabile dell’azione e della lotta. Tuttavia, la concezione del centralismo democratico di Álvaro Cunhal punta, in continuità con Lenin e la concezione leninista del Partito, alla costruzione di un centralismo che rifiuti innanzitutto di essere “burocratico”; punta ad un centralismo democratico che non abbia in orrore il dibattito franco e aperto e che, al contrario, questo dibattito, invece di essere ostracizzato, sia sollecitato dagli stessi gruppi dirigenti, che sono tenuti ad interiorizzare il valore assoluto di una linea costituitasi nella discussione aperta e non “nelle segrete stanze”.

Nel Capitolo 9 Álvaro Cunhal rimarca, con parole che davvero colpiscono per la loro forza e densità rivoluzionaria, la diversità tra “disciplina di partito e disciplina militare”:

«La disciplina di Partito non ha niente a che vedere con la disciplina militare. Il militare obbedisce al comando. Non interviene nelle decisioni, non ne conosce le motivazioni e gli obiettivi. Nel Partito, il militante ha (o deve avere) piena coscienza delle ragioni e degli obiettivi di ogni decisione, interviene nella definizione delle linee generali di orientamento, interviene in numerosi casi in quella relativa al lavoro che esegue. Il militante del Partito agisce d’accordo con decisioni che sono garantite dall’esame e dall’opinione di collettivi, nei quali lo stesso militante si inserisce. Così, sono completamente estranei al funzionamento del Partito, metodi militareschi e concezioni militaresche della disciplina. Sono lontani dai più elementari principi organici del Partito compagni che “comandano” e “danno ordini” invece di chiarire, orientare e dirigere, e che pensano che il dovere degli “inferiori” è quello di adempiere agli ordini “superiori” (i loro ordini) in modo meccanico, ciecamente, anche senza sapere il perché e per che cosa. Nel Partito essere disciplinato non è “obbedire agli ordini superiori” sotto pena di un immediato e grave castigo. Non è adempiere senza che ci sia la propria volontà in ciò che gli altri decidono. La disciplina nel Partito non è un qualunque obbligo che si impone all’individuo, che lo pressa, lo costringe e lo forza. La disciplina può essere sentita solo come una costrizione dell’individuo e della personalità, come accettazione passiva, contraffatta e cieca di “ordini superiori” se, in un Partito, o in un’organizzazione del Partito, sono preponderanti il dirigismo, l’autoritarismo, criteri militaristi di direzione, decisioni amministrative e burocratiche. In tali casi, la disciplina contiene in sé il germe della fermentazione e della cristallizzazione di discordie e riserve e, pertanto, anche di forme di resistenza passiva e di repentine e inaspettate esplosioni di indisciplina».

Per la sua grande forza evocativa e la positiva novità del senso politico, non possiamo poi non enucleare, dunque rimarcandolo e proponendolo alla stessa esperienza comunista attuale, un passaggio del terzo Capitolo relativo al paragrafo “Fattori di stabilità e il rinnovamento”:

«La continuità della Direzione e la stabilità del nucleo dirigente derivano da vari fattori. In primo luogo dalla giusta linea politica, comprovata dalla pratica e dall’inesistenza di gravi errori di direzione. Se questo fattore non si verifica, il Partito finisce inevitabilmente per esigere e imporre modifiche nel nucleo dirigente, il che, spesso, significa crisi e scissione. In secondo luogo, è importante fattore di stabilità del nucleo dirigente la capacità creativa e innovatrice necessaria per rispondere ai nuovi problemi e alle nuove situazioni, trovare le soluzioni giuste, definire i compiti concreti, individuare deficienze ed errori e correggerli prontamente. Se questo fattore non si verifica, la Direzione cade nella routine, non solo si commettono ma gli errori si aggravano anche, e prima o poi, si impone la necessità della sua sostituzione o cambiamento profondo. In terzo luogo, è importante fattore di stabilità il lavoro collettivo di direzione e la compattezza della Direzione. Se questo fattore non si verifica, si evolve o verso il culto della personalità o verso conflitti e divisioni, provocando, in un caso o nell’altro, una inevitabile rottura della stabilità del nucleo dirigente. In quarto luogo, è importante fattore di stabilità il legame della Direzione con tutto il Partito, la comprensione giusta del lavoro della Direzione e dell’intervento dei militanti nell’ambito di una vasta democrazia interna. Se questo fattore non si verifica, allora, prima o poi, la rottura della continuità e della stabilità sono inevitabili. Infine, un fattore essenziale per la stabilità della Direzione è il suo stesso e progressivo rinnovamento. L’importanza di questo fattore giustifica che gli si dedichi un’attenzione più dettagliata. La sua importanza è tale che si può dire che la stabilità della Direzione e del nucleo dirigente non solo è compatibile con il rinnovamento ma ne dipende largamente. Se il nucleo dirigente non si rinnova con l’entrata di nuovi quadri – si cristallizza in una Direzione chiusa alla trasformazione dei tempi, alle nuove realtà –, arriva un momento in cui si impone un rinnovamento repentino, a volte quasi totale, spesso in situazione di crisi e di instabilità».

Sorprendente (e per chi scrive profondamente positiva) è la posizione che Álvaro Cunahl esprime sullo stesso ruolo del segretario generale di un Partito Comunista (a partire, naturalmente, da quello portoghese):

«Nel nostro Partito si è considerata completamente inaccettabile qualunque situazione o qualunque pratica che significhi la sovrapposizione dell’opinione, decisione e azione del segretario generale all’opinione e decisione collettiva, il potere di decisione individuale del segretario generale in questioni fondamentali, l’accettazione delle opinioni del segretario generale non perché in ogni caso sia riconosciuta la sua giustezza ma per l’incarico che ricopre. Se si intendono come giusti questo orientamento e questa pratica, bisogna mantenere viva l’idea che gli altri compagni devono immediatamente richiamare l’attenzione del segretario generale nel caso che egli non agisca conformemente al suo incarico. Un segretario generale del Partito ha l’obbligo di aiutare gli altri compagni. Anche gli altri compagni hanno l’obbligo di aiutare il segretario generale del Partito… Tenendo conto dell’esperienza vissuta dal nostro Partito durante un quarto di secolo, non è obbligatoria l’esistenza di un segretario generale. L’articolo 29 dello Statuto è esplicito: “[…] Il Comitato Centrale ha la facoltà di eleggere, tra i suoi membri effettivi, un segretario generale del Partito, definendo ugualmente le sue attribuzioni”».

È vero che “la facoltà”, non l’obbligo, di eleggere il segretario generale proviene, nel PCP del 1985, dalla vicinanza storica al fascismo di Salazar, che poteva arrestare il segretario generale del partito comunista illegale decapitando così lo stesso partito. Tuttavia, sorprendente – dicevamo – rimane questo passaggio sulla facoltà e non sull’obbligo di eleggere il segretario generale, specie se assunto da un Partito Comunista, come quello Portoghese, definito da diverse parti (in modo completamente sbagliato e volutamente distorcente) come un partito “ortodosso”. In verità, la smitizzazione del capo, del segretario generale (a cui va comunque il massimo rispetto, come a tutti gli altri dirigenti e militanti) nel quadro più vasto della democratizzazione totale del partito, rimanda alla stessa storia personale di Lenin, che mai è stato segretario generale.

Questo libro di Álvaro Cunhal, per la ricchezza delle argomentazioni, per la carica davvero rivoluzionaria che contiene in relazione alla moderna forma-partito comunista può svolgere un importante ruolo sia per il rinnovamento della forma organizzativa dei comunisti in Italia che per lo stesso rilancio dell’interesse verso l’opzione comunista in Italia, specie per ciò che riguarda le giovani generazioni.

Per questi motivi siamo orgogliosi di aver lavorato affinché quest’opera di Álvaro Cunhal fosse finalmente pubblicata anche nel nostro Paese.

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