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Per il Centenario dell’URSS

Il modo migliore per ricordare il centenario della nascita dell’URSS è riuscire a trarne al massimo le lezioni politiche e teoriche utili per il nostro presente.
Una corretta contestualizzazione deve partire dal ricordare che la nascita dell’URSS non è stato affatto un evento scontato, bensì duramente contestato e contrastato: non alludiamo soltanto alla continua guerra condotta dall’imperialismo per tentare di distruggere l’esperimento profano fin dalla sua culla. Una guerra che ha accomunato le vecchie classi padronali russe e principali potenze capitaliste di tutto il mondo, che in questa maniera hanno favorito la prosecuzione dello stato di guerra per tre anni in Russia, anche dopo il trattato Brest-Litovsk del marzo 1918. È fuor di dubbio che l’interventismo della borghesia internazionale, capace di ricompattarsi e di coordinarsi, quanto meno parzialmente, per affrontare la minaccia bolscevica, abbia avuto un ruolo decisivo per impedire la diffusione della rivoluzione, e quindi del socialismo, in tutto il mondo. Da questo punto di vista esso ha avuto anche l’importante conseguenza di aver impedito al gruppo dirigente bolscevico di adempiere al salto tanto ambito e progettato verso il comunismo.
Occorre ricordare infatti che l’altra ragione per cui l’istituzionalizzazione del regime sovietico fosse un fatto assolutamente non scontato veniva dalla stessa volontà dei comunisti di superare al più presto quella condizione giudicata ineludibile, ma pur sempre temporanea e intermedia, della dittatura del proletariato, nell’obiettivo di costruire una società priva di divisioni di classe e priva di uno Stato, concepito come strumento di dominio di una classe su un’altra classe.
La lettura corrente all’epoca desunta dall’opera di Marx ed Engels assumeva (nonostante la battaglia che l’ultimo Engels intraprese contro questa interpretazione):

  1. l’idea che per giungere al socialismo si dovesse prima passare da una condizione di stabile sviluppo delle forze produttive, passando da un lungo periodo di tempo caratterizzato dal rafforzamento del modello di democrazia liberale borghese;
  2. l’idea che per giungere al comunismo si dovesse realizzare una rivoluzione non solo nazionale, ma internazionale, e quindi quanto meno europea, al fine di determinare in tempi brevi il passaggio dal capitalismo direttamente al comunismo;
  3. l’idea che la dittatura del proletariato dovesse quindi essere un passaggio estremamente breve, rapido, necessario per eliminare la forza politica, economica e militare delle classi reazionarie, ma con l’obiettivo ultimo di condurre ad una società comunista in cui venissero eliminati tutte quelle strutture economiche e politiche tra cui il tanto vituperato Stato moderno, usato nel corso dei secoli per accentuare il controllo e l’oppressione del popolo.

Lenin

Stante questi tre punti teorici riusciremo a capire come mai nel movimento marxista dell’immediato dopoguerra, tra la fine degli anni ‘10 e l’inizio degli anni ‘20, i bolscevichi continuassero ad essere visti dalla sinistra dell’epoca come dei nemici del socialismo, nonostante una crescente simpatia popolare. Le invettive lanciate ai bolscevichi dipendevano dalla loro scarsa ortodossia ad una teoria che nella sua applicazione politica da parte dei partiti della vecchia II Internazionale, aveva perso la propria vitalità, irrigidendosi in una serie di dogmi mummificati assai distanti dal senso profondo del materialismo dialettico.
Lenin, maestro “dell’analisi concreta della situazione concreta”, aveva guidato i bolscevichi alla rivoluzione violando la prima idea, nello scetticismo dell’intero movimento marxista dell’epoca. La grandezza del suo personaggio sta già in questo suo “marxismo creativo”, in questa sua “rivoluzione contro il Capitale” – come ebbe a intitolare Gramsci (che dimostrò già nel 1918 di essere più “marxista” dei suoi maestri italiani) in un suo celebre articolo – che mostrò la forza di una teoria fondata sì sullo studio, ma anche su un metodo, piuttosto che sull’applicazione schematica di analisi datate ad un contesto inedito ed in movimento.
L’ulteriore grandezza sua e del resto del gruppo dirigente bolscevico guidato da Stalin, sta poi nell’aver preso atto, tra il 1921 e il 1922, che anche le altre due idee fondamentali che ne avevano guidato in una certa misura le azioni nel periodo precedente, erano uscite sconfitte dalla risposta della borghesia internazionale e dall’insufficienza politica del resto del movimento socialdemocratico europeo.
L’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche nasce quindi come un laboratorio inedito, privo di indicazioni concrete provenienti dal marxismo su come costruire uno “Stato socialista” (si ricordi in tal senso l’ostilità di Marx a parlare di “ricette per l’osteria dell’avvenire”). Un laboratorio che si trova di fronte ad una situazione catastrofica a seguito del crollo dell’economia causata dalla prolungata guerra, oltre che dalla perdita di ampi territori nell’est Europa e da un consenso interno sempre più scarso non solo nelle vaste campagne, ma anche all’interno dello stesso Partito, dove minoranze agguerrite contestano in maniera sempre più dura e polemica la “svolta statale”, unitamente alla NEP e alle politiche complessive di ripiegamento che conducevano al tentativo di costruire un socialismo concreto in un solo paese, prevedendo a tempi molto più lunghi del previsto il salto verso il comunismo.
Un altro tema occorre mettere in rilievo nella fondazione dell’URSS: tra i molti problemi da risolvere c’era per i bolscevichi – ed in particolar modo per Stalin, incaricato di trovare una soluzione da Lenin – la questione nazionale, ossia la problematica di garantire la convivenza di decine di nazionalità diverse senza scadere in una forma di nazionalismo grande-russo.
Su questo tema Stalin, autore nel 1913 dell’opera sempre attuale Il marxismo e la questione nazionale, poteva ispirarsi agli insegnamenti politici di Marx ed Engels, che avevano sempre considerato la questione nazionale come un elemento della lotta per la democrazia (e quindi delle lotte della classe operaia), oltre che dell’internazionalismo proletario, in polemica contro le correnti opportuniste-riformiste (che rinunciavano ad intervenire nelle lotte di liberazione nazionale) con quelle estremiste (che interpretavano meccanicamente l’internazionalismo giudicando erroneamente superflue le rivendicazioni nazionali) e quelle apertamente nazionaliste (che tradivano gli interessi della classe operaia a favore della borghesia).
Questo serve a ribadire quindi che ieri come oggi la questione nazionale, con il conseguente nesso decisivo di sovranità nazionale e popolare, rimane attualissimo. La cosa peraltro è sempre stata nota ai veri marxisti, come spiegato da Lenin fin dal giugno 1920 (Progetto di tesi su Questioni nazionali e coloniali, per il Secondo Congresso dell’Internazionale Comunista):

2. In conformità con il suo compito fondamentale, cioè con la lotta contro la democrazia borghese e con la denuncia delle sue menzogne e ipocrisie, il partito comunista, interprete cosciente della lotta del proletariato per abbattere l’oppressione della borghesia, deve – anche nella questione nazionale – muovere non da principi astratti e formali, ma, in primo luogo, da una valutazione precisa della situazione storica concreta e, anzitutto, di quella economica; in secondo luogo, da una netta separazione tra gli interessi delle classi oppresse, lavoratrici, sfruttate, e il concetto generale degli interessi nazionali, il quale esprime gli interessi della classe dominante; in terzo luogo, da una distinzione altrettanto netta tra le nazioni oppresse, soggette, private dei loro diritti e le nazioni sovrane che ne sfruttano e ne opprimono altre, in antitesi alle menzogne della democrazia borghese, la quale occulta l’asservimento coloniale e finanziario – proprio dell’epoca del capitale finanziario e dell’imperialismo – della stragrande maggioranza della popolazione del globo ad opera di un’infima minoranza di paesi capitalistici più progrediti e più ricchi.» (sottolineature nostre)
4. Dalle tesi fondamentali sopra enunciate risulta che la pietra angolare di tutta la politica dell’Internazionale comunista nelle questioni nazionale e coloniale deve essere l’avvicinamento dei proletari e delle masse lavoratrici di tutte le nazioni e di tutti i paesi ai fini della lotta rivoluzionaria comune per rovesciare i grandi proprietari terrieri e la borghesia. Solo questo avvicinamento potrà infatti garantire la vittoria sul capitalismo, senza la quale è impossibile abolire l’oppressione e la disuguaglianza nazionale.
6. Di conseguenza, oggi non ci si può più limitare a riconoscere o a proclamare il ravvicinamento dei lavoratori delle diverse nazioni, ma è necessario condurre una politica che realizzi la più stretta alleanza fra tutti i movimenti di liberazione nazionale e coloniale e la Russia sovietica, determinando le forme di questa alleanza in modo corrispondente al grado di sviluppo del movimento comunista tra il proletariato di ciascun paese o del movimento democratico borghese di liberazione tra gli operai e i contadini delle nazionalità e dei paesi arretrati.
Lenin quindi, nel solco della sua proverbiale concretezza, nel 1920 ci dà due chiari riferimenti: la lotta contro le classi dominanti (proprietari terrieri e borghesia al suo tempo, oggi possiamo dire il complesso finanziario-militare-industriale) deve connettersi al movimento proletario e democratico nella lotta comune contro un’infima minoranza di paesi capitalistici più progrediti e più ricchi. E però naturalmente questa lotta deve avere come stella polare non un indistinto “interesse nazionale”, ma la finalità di rovesciare la borghesia, comunque esso venga mascherato, poiché:
9. … è anche necessario, in primo luogo, spiegare instancabilmente che soltanto il sistema sovietico può realizzare l’effettiva uguaglianza delle nazioni, unendo dapprima i proletari e, in seguito, tutte le masse lavoratrici nella lotta contro la borghesia; in secondo luogo, è necessario che tutti i partiti comunisti diano un aiuto diretto ai movimenti rivoluzionari dei paesi dipendenti o menomati nei loro diritti (per esempio, in Irlanda, fra i negri d’America, ecc.) e delle colonie.
10. … Il nazionalismo piccolo-borghese riduce l’internazionalismo al riconoscimento della parità giuridica delle nazioni e (senza dire del carattere puramente verbale di questo riconoscimento) lascia intatto l’egoismo nazionale, mentre l’internazionalismo proletario esige anzitutto la subordinazione degli interessi della lotta proletaria in un paese agli interessi di questa lotta nel mondo intero ed esige inoltre che la nazione la quale ha vinto la propria borghesia sia capace dei più grandi sacrifici nazionali e sia disposta ad affrontarli per abbattere il capitale internazionale.

Sebbene la situazione odierna non sia riferibile esattamente a quella di cento anni fa, il punto di vista leniniano è chiaro. La lotta per l’indipendenza delle nazioni deve essere riportata dai comunisti all’interno della più vasta lotta per il rovesciamento del capitalismo nei paesi dominanti e deve essere il grimaldello per sottrarre ad essi lo sfruttamento dei paesi dominati.
In questo segue fedelmente il pensiero di Marx, espresso nella celebre Lettera a Sigfried Meyer e August Vogt dell’aprile 1870, in cui la soluzione della questione nazionale irlandese è vista come il mezzo per indebolire la classe dei proprietari terrieri. Se moltiplichiamo per mille e mille volte quella proporzione, oggi sottrarre il dominio dell’imperialismo e del neocolonialismo in tutti i paesi da esso dominati, significa acuire fino al crollo il capitalismo nei paesi dominanti.
Lenin tornerà nel giorno della fondazione dell’URSS (Sulla questione delle nazionalità o della «autonomizzazione», 30 dicembre 1922), scusandosi col fatto che non si poté occupare direttamente della questione

Ho già scritto nelle mie opere sulla questione nazionale che non bisogna assolutamente impostare in astratto la questione del nazionalismo in generale. È necessario distinguere il nazionalismo della nazione dominante dal nazionalismo della nazione oppressa, il nazionalismo della grande nazione da quello della piccola.

Quindi la questione va affrontata, come sempre, rispetto al bilancio complessivo che ogni elemento apporta rispetto al quadro generale dell’avanzamento verso il rovesciamento del capitalismo.
E continua negli appunti successivi (Quali misure pratiche bisogna allora prendere nella situazione creatasi? 31 dicembre 1922):

In quarto luogo, bisogna introdurre le norme più rigorose riguardo all’uso della lingua nazionale nelle repubbliche di altra nazionalità che fanno parte della nostra Unione, e controllare queste norme con particolare accuratezza.
Sarebbe inescusabile opportunismo se noi, alla vigilia di questa entrata in scena dell’Oriente e all’inizio del suo risveglio, minassimo la nostra autorità tra i suoi popoli, sia pure con la minima grossolanità e ingiustizia nei confronti dei nostri stessi allogeni. Una cosa è la necessità di essere compatti contro gli imperialisti dell’Occidente, che difendono il mondo capitalistico; … altra cosa è quando noi stessi cadiamo, anche soltanto nelle piccolezze, in atteggiamenti imperialistici verso le nazionalità oppresse, minando cosi completamente tutta la sincerità dei nostri principi, tutta la nostra difesa di principio della lotta contro l’imperialismo. E il domani della storia universale sarà appunto il giorno in cui si sveglieranno definitivamente i popoli oppressi dall’imperialismo, che ora appena si destano, e in cui comincerà la lunga, difficile e decisiva lotta per la loro liberazione.

Queste parole fanno giustizia delle infamie che sa sempre gli storiografi della borghesia hanno riversato sull’URSS, tacciandola di atteggiamenti da Grande Russia. Tutta l’opera sviluppata nella costruzione dell’URSS ha difeso e promosso con grande attenzione tutte le lingue e le culture dell’Unione. Ne sono testimonianza le opere letterarie, teatrali e artistiche. Ad alcune lingue si diede una forma scritta che non avevano mai avuto.
Tra le nefaste attività che si possono addebitare all’opera di Gorbacev c’è anche da annoverare la rottura dei delicati equilibri tra le Repubbliche dell’Unione, cosa che diede l’avvio al processo che poi si concluse con il dissolvimento dell’URSS stessa.

Stalin

In realtà, a dirigere in prima persona l’attività per la fondazione dell’URSS fu Stalin. Già nel febbraio del 1921 ne I compiti immediati del partito nella questione nazionale (Tesi presentate al Congresso del PCR (b)) si legge:

Le contraddizioni che esistono fra gli interessi della nazione dominante e quelli delle nazioni soggette sono tali, che l’esistenza stabile di uno stato plurinazionale è impossibile senza la loro soluzione. La tragedia dello stato plurinazionale borghese consiste nella sua incapacità di risolvere queste contraddizioni e nel fatto che ogni suo tentativo di “stabilire la uguaglianza” fra le nazioni e di “tutelare” le minoranze nazionali, conservando la proprietà privata e la disuguaglianza di classe, termina di solito con un nuovo insuccesso, con un nuovo inasprimento dei conflitti fra le nazionalità.
… la questione nazionale si è ampliata, e, in ultima analisi, si è fusa, per il procedere stesso degli avvenimenti, con la questione generale delle colonie, e l’oppressione nazionale, da questione interna dello stato, si è trasformata in una questione che riguarda i rapporti fra gli stati, nella questione della lotta (e della guerra) tra le «grandi» potenze imperialistiche per asservire le nazionalità deboli, soggette.
Ma la costituzione di nuovi stati nazionali indipendenti non ha instaurato e non poteva instaurare la convivenza pacifica delle nazionalità, non ha eliminato e non poteva eliminare né la disuguaglianza fra le nazioni né l’oppressione nazionale…
L’esistenza del capitalismo è inconcepibile senza l’oppressione nazionale, come è inconcepibile l’esistenza del socialismo senza la liberazione delle nazioni oppresse, senza la libertà nazionale.
Perciò la vittoria dei Soviet e l’instaurazione della dittatura del proletariato sono la condizione fondamentale per distruggere l’oppressione nazionale, per instaurare l’uguaglianza nazionale, per garantire i diritti delle minoranze nazionali.
L’esperienza della rivoluzione sovietica conferma interamente questa tesi.
Tuttavia l’aggressione imperialista e la debolezza economica delle altre Repubbliche sovietiche mina la loro esistenza.
Le repubbliche nazionali sovietiche, che si sono liberate dalla «propria» o dall’«altrui» borghesia, possono difendere la loro esistenza e vincere le forze unite dell’imperialismo solo stringendosi in una compatta unione statale: in caso contrario non vinceranno.

Da qui la necessità della nascita della Repubblica Socialista Federativa Sovietica della Russia dalla federazione basata sull’autonomia sovietica (Kirghisia, Basckiria, Tartaria, popoli della montagna, Daghestan) a una federazione basata su trattati con le repubbliche sovietiche indipendenti (Ucraina, Azerbaigian), ammissione di gradi intermedi fra queste due forme (Turkestan, Bielorussia), basate sul carattere volontario.
Stalin nota l’importanza dell’equilibrio demografico dei vari popoli della costituenda Unione e gli squilibri che essa eredita.

La Repubblica socialista federativa sovietica della Russia e le repubbliche sovietiche con essa collegate hanno una popolazione di circa 140 milioni di abitanti. Di questi, circa 65 milioni non sono di nazionalità grande-russa (ucraini, bielorussi, kirghisi, usbeki, turkmeni, tagiki, azerbaigiani, tartari della regione del Volga, tartari di Crimea, bukhari, khivinzi, basckiri, armeni, ceceni, kabardini, oseti, circassi, ingusci, karaciaievi, balkari, calmucchi, careli, avari, darghini, kazikumukhi, kiurini, kumyki, mari, ciuvasci, votiaki, tedeschi della regione del Volga, buriati, iakuti, ecc.).
Ora che i grandi proprietari fondiari e la borghesia sono stati rovesciati e che anche in questi paesi le masse popolari hanno proclamato il potere sovietico, il partito ha il compito di aiutare le masse lavoratrici dei popoli di nazionalità non grande-russa a raggiungere la Russia centrale più progredita … una popolazione di circa 25 milioni di persone … che non ha ancora attraversato il periodo dello sviluppo capitalistico … ma è già stata attirata nel comune alveo dello sviluppo sovietico.
Il partito ha il compito di aiutare le masse lavoratrici di questi popoli a liquidare le sopravvivenze dei rapporti patriarcali-feudali e a partecipare all’edificazione dell’economia sovietica sulla base dei Soviet dei contadini lavoratori, creando fra questi popoli solide organizzazioni comuniste, capaci di utilizzare l’esperienza degli operai e dei contadini russi nell’edificazione della economia sovietica e, al tempo stesso, capaci di tener conto, nel loro lavoro di edificazione, di tutte le particolarità della situazione economica concreta, della struttura di classe, della cultura, del modo di vita di ogni nazionalità, senza trapiantare meccanicamente le misure economiche attuate nella Russia centrale, adatte soltanto per un grado diverso, più elevato, di sviluppo economico.

Compito quindi enorme. Da un lato superare i residui feudali nelle Repubbliche arretrate e proiettarle verso l’edificazione sovietica, dall’altro – ricordiamo – affrontare nel cuore della RSFSR i problemi economici che il cosiddetto comunismo di guerra aveva lasciato e costruire il sistema economico noto come NEP. Il tutto senza basarsi sull’epocale sfruttamento degli altri popoli di cui aveva goduto il regime zarista, ma anzi aiutandoli nell’opera di sviluppo.
Stalin torna su questi punti ne Sulla presentazione della questione nazionale del maggio 1921. Ci si conceda una digressione utile a chiarire qual era all’epoca il dibattito in Europa:

Il primo punto è la fusione della questione nazionale, come parte, con la questione generale della liberazione delle colonie, nel suo insieme. Nell’epoca della II Internazionale si era soliti confinare la questione nazionale in una ristretta cerchia di questioni che riguardavano esclusivamente le nazioni “civili”. Gli irlandesi, i cechi, i polacchi, i finlandesi, i serbi, gli armeni, gli ebrei e alcune altre nazionalità europee: tale era il circolo di nazioni ineguali al cui destino la Seconda Internazionale si interessava. Le decine e centinaia di milioni di persone in Asia e in Africa che soffrono l’oppressione nazionale nella sua forma più cruda e brutale, di regola, non rientravano nel campo visivo dei “socialisti”. Non si azzardarono a collocare bianchi e neri, negri “incolti” e irlandesi “civili”, Indiani “arretrati” e polacchi “illuminati” sullo stesso piano. Si presumeva tacitamente che, sebbene fosse necessario lottare per la liberazione delle nazioni europee diseguali, era del tutto sconveniente per “rispettabili socialisti” parlare seriamente della liberazione delle colonie, che erano “necessarie” per la “conservazione” di “civiltà”. Questi socialisti, salvo il segno, non sospettavano nemmeno che l’abolizione dell’oppressione nazionale in Europa fosse inconcepibile senza la liberazione dei popoli coloniali dell’Asia e dell’Africa dall’oppressione imperialista, che la prima fosse organicamente legata alla seconda. Furono i comunisti a rivelare per primi il nesso tra la questione nazionale e la questione delle colonie, che lo hanno dimostrato teoricamente e ne hanno fatto la base delle loro pratiche attività rivoluzionarie. Che ha abbattuto il muro tra bianchi e neri, tra gli schiavi “colti” e gli “incolti” dell’imperialismo. Questa circostanza ha notevolmente facilitato il coordinamento della lotta delle colonie arretrate con la lotta del proletariato avanzato contro il nemico comune, l’imperialismo.

Il punto di vista del proletariato, che si oppone diametralmente a quello della borghesia, fa emergere la questione coloniale come essenziale all’interno della lotta di classe dentro i paesi capitalistici, per saldare le due lotte contro il nemico comune e sconfiggere l’infausta illusione dentro la classe operaia dei paesi imperialisti che un rafforzamento dell’imperialismo stesso potesse mai condurre a anche solo un miglioramento delle condizioni di vita del proletariato. Quindi non un atto di cristiana “generosità” verso i popoli oppressi, ma di concreta lotta di classe comune.

Il secondo punto è che il vago slogan del diritto delle nazioni all’autodeterminazione è stato sostituito dal chiaro slogan rivoluzionario del diritto delle nazioni e delle colonie alla secessione, alla formazione di stati indipendenti. Quando parlavano del diritto all’autodeterminazione, i leader della Seconda Internazionale di regola non accennavano nemmeno al diritto alla secessione: il diritto all’autodeterminazione veniva interpretato nel migliore dei casi nel senso del diritto all’autonomia in generale. Springer e Bauer, gli “esperti” della questione nazionale, arrivarono addirittura a trasformare il diritto all’autodeterminazione nel diritto delle nazioni oppresse d’Europa all’autonomia culturale, cioè il diritto ad avere proprie istituzioni culturali, mentre restava tutto il potere politico (ed economico) nelle mani della nazione dominante. In altre parole, il diritto all’autodeterminazione delle nazioni ineguali è stato convertito nel privilegio delle nazioni dominanti di esercitare il potere politico, ed è stata esclusa la questione della secessione. Kautsky, il leader ideologico della Seconda Internazionale, si è associato principalmente a questa interpretazione essenzialmente imperialista dell’autodeterminazione data da Springer e Bauer. Non sorprende che gli imperialisti, rendendosi conto di quanto fosse conveniente per loro questa caratteristica dello slogan dell’autodeterminazione, proclamassero proprio lo slogan. Come sappiamo, la guerra imperialista, il cui scopo era quello di schiavizzare i popoli, fu combattuta sotto la bandiera dell’autodeterminazione. Così il vago slogan dell’autodeterminazione si convertì da strumento di liberazione delle nazioni, per raggiungere uguali diritti per le nazioni, in uno strumento per addomesticare le nazioni, uno strumento per mantenere le nazioni sottomesse all’imperialismo.

Queste parole suonano oggi profetiche. Anticipano una situazione in cui la propaganda imperialista ci ammorba ogni giorno. Parole d’ordine opportuniste che vengono assunte dall’imperialismo, sviando così il proletariato verso obiettivi “addomesticati”. L’odierno dibattito sul problema delle migrazioni forzate, sui diritti civili contrapposti ai diritti sociali, sui diritti di minoranze di costume e non di classe ne sono esempi chiari.
Tornando agli antefatti della fondazione dell’URSS, Stalin fa emergere con chiarezza la differenza fondamentale tra l’atteggiamento degli imperialisti e quello della Repubblica Sovietica nei confronti della Finlandia, Persia settentrionale, della Mongolia, della Cina, ecc., ecc.
In contrapposizione agli austro-marxisti Bauer e Renner (Springer), che seguendo il filone “deterministico” della socialdemocrazia, pensavano la questione nazionale poteva essere risolta senza abbattere il dominio del capitale, senza e prima della vittoria della rivoluzione proletaria, Stalin afferma con forza che:

La guerra imperialista ha dimostrato, e l’esperienza rivoluzionaria degli ultimi anni ha nuovamente confermato che:
1) le questioni nazionali e coloniali sono inseparabili dalla questione dell’emancipazione dal dominio del capitale;
2) l’imperialismo (la più alta forma di capitalismo) non può esistere senza l’asservimento politico ed economico delle nazioni e delle colonie disuguali;
3) le nazioni e le colonie ineguali non possono essere liberate senza rovesciare il dominio del capitale;
4) la vittoria del proletariato non può essere duratura senza la liberazione delle nazioni e delle colonie ineguali dal giogo dell’imperialismo.
Se l’Europa e l’America possono essere chiamate il fronte o l’arena delle grandi battaglie tra socialismo e imperialismo, le nazioni ineguali e le colonie, con le loro materie prime, il combustibile, il cibo e la vasta riserva di manodopera, devono essere considerate come la retrovia, la riserva dell’imperialismo. Per vincere una guerra è necessario non solo trionfare al fronte, ma anche rivoluzionare le retrovie del nemico, le sue riserve. Quindi, la vittoria della rivoluzione proletaria mondiale può considerarsi assicurata solo se il proletariato saprà coniugare la propria lotta rivoluzionaria con il movimento di liberazione delle masse lavoratrici delle nazioni ineguali e delle colonie contro il dominio degli imperialisti e per la dittatura del proletariato.

Quindi il richiamo alla preveggenza di Marx è immediato.

Il quarto punto è che nella questione nazionale è stato introdotto un elemento nuovo, quello dell’eguaglianza concreta (e non meramente giuridica) delle nazioni (aiuto e cooperazione delle nazioni arretrate per elevarsi al livello culturale ed economico di quelle più avanzate nazioni), come una delle condizioni necessarie per assicurare la cooperazione fraterna tra le masse lavoratrici delle varie nazioni.
Ma l’uguaglianza nazionale dei diritti, sebbene di per sé un vantaggio politico molto importante, rischia di rimanere una mera frase in assenza di risorse e opportunità adeguate per esercitare questo importantissimo diritto. È fuor di dubbio che le masse lavoratrici dei popoli arretrati non sono in grado di esercitare i diritti che sono loro accordati dall’“eguaglianza nazionale dei diritti” nella stessa misura in cui possono essere esercitati dalle masse lavoratrici delle nazioni avanzate. Si fa sentire l’arretratezza (culturale ed economica) che alcune nazioni hanno ereditato dal passato e che non può essere abolita in uno o due anni.

Il colonialismo non era ancora finito e il neocolonialismo era ancora da venire, ma già Stalin intravvede le crepe dove il dominio imperialista si insinuerà nel prossimo futuro.
E andiamo finalmente al dibattito che concretamente condusse alla fondazione dell’Unione.
Stalin spiega bene quali sono le condizioni che hanno portato alla fine a trasformare quelli che erano dei semplici accordi, prima militari e poi commerciali, in una vera e propria nuova entità statuale, l’URSS. Ne L’Unione delle Repubbliche Sovietiche, (Rapporto consegnato al decimo congresso panrusso dei soviet il 26 dicembre 1922) leggiamo:

Quali sono le ragioni che spingono le repubbliche a intraprendere la via dell’unione? Quali sono le circostanze che hanno determinato la necessità dell’unione? Tre gruppi di circostanze hanno reso inevitabile l’unione delle repubbliche sovietiche in un unico stato di unione.

Il primo gruppo di circostanze è costituito da fatti relativi alla nostra situazione economica interna. In primo luogo, l’esiguità delle risorse economiche rimaste a disposizione delle repubbliche dopo sette anni di guerra. Questo ci costringe a combinare queste scarse risorse per impiegarle più razionalmente e per sviluppare i rami principali della nostra economia che costituiscono la spina dorsale del potere sovietico in tutte le repubbliche.
In secondo luogo, la divisione naturale del lavoro storicamente evoluta, la divisione economica del lavoro, tra le varie regioni e repubbliche della nostra federazione. Ad esempio, il Nord fornisce tessuti al Sud e all’Est, il Sud e l’Est forniscono al Nord cotone, carburante e così via. E questa divisione del lavoro stabilita tra le regioni non può essere eliminata con un semplice tratto di penna: è stata creata storicamente dall’intero corso dello sviluppo economico della federazione.
In terzo luogo, l’unità dei principali mezzi di comunicazione dell’intera federazione, nervi e fondamento di ogni possibile unione. Va da sé che non si può permettere che i mezzi di comunicazione abbiano un’esistenza divisa, a disposizione delle singole repubbliche e subordinata ai loro interessi, perché ciò trasformerebbe il nervo principale della vita economica – i trasporti – in un agglomerato di parti separate utilizzate senza un piano. Questa circostanza inclina anche le repubbliche all’unione in un unico stato.
Infine, l’esiguità delle nostre risorse finanziarie. Compagni, bisogna affermare senza mezzi termini che la nostra situazione finanziaria ora, nel sesto anno di esistenza del regime sovietico, ha molte meno opportunità di sviluppo su larga scala rispetto, ad esempio, sotto il vecchio regime che aveva vodka, che noi non avremo, producendo 500.000.000 di rubli all’anno, e che possedeva crediti esteri per un importo di diverse centinaia di milioni di rubli, che anche noi non abbiamo. Tutto ciò sta a dimostrare che con così scarse opportunità per il nostro sviluppo finanziario non riusciremo a risolvere i problemi fondamentali e attuali dei sistemi finanziari delle nostre repubbliche se non uniamo le forze e uniamo la forza finanziaria delle singole repubbliche in un unico insieme.

Il secondo gruppo di circostanze che hanno determinato l’unione delle repubbliche sono fatti relativi alla nostra situazione internazionale. Ho in mente la nostra situazione militare. Penso ai nostri rapporti con il capitale straniero attraverso il Commissariato per il commercio estero. Penso, infine, alle nostre relazioni diplomatiche con gli Stati borghesi. Va ricordato, compagni, che nonostante le nostre repubbliche siano felicemente uscite dalla condizione di guerra civile, il pericolo di un attacco dall’esterno non è affatto escluso. Questo pericolo esige che il nostro fronte militare sia assolutamente unito, che il nostro esercito sia un esercito assolutamente unito, soprattutto ora che abbiamo intrapreso la strada, non del disarmo morale, certo, ma di una reale, materiale riduzione degli armamenti. Ora che abbiamo ridotto il nostro esercito a 600.000 uomini. Inoltre, oltre al pericolo militare, c’è il pericolo dell’isolamento economico della nostra federazione.

Infine, c’è la nostra situazione diplomatica. Il boicottaggio diplomatico organizzato della nostra federazione è stato interrotto. L’Intesa fu costretta a fare i conti con la nostra federazione. Ma non ci sono motivi per presumere che questi e simili fatti sull’isolamento diplomatico della nostra federazione non si ripeteranno. Di qui la necessità di un fronte unito anche in campo diplomatico.

Potrebbe sembrare più opportuno che la RSFSR non aderisca all’Unione delle Repubbliche come un’unità federale integrale, ma che le repubbliche che la compongono aderiscano singolarmente, a tal fine sarebbe evidentemente necessario sciogliere la RSFSR nelle sue parti componenti. Penso che questa via sarebbe irrazionale e inopportuna, e che è preclusa dallo stesso andamento della campagna.
In primo luogo, l’effetto sarebbe che, parallelamente al processo che sta portando all’unione delle repubbliche, avremmo un processo di disunione delle unità federali già esistenti, un processo che sconvolgerebbe il processo veramente rivoluzionario di unione delle repubbliche che è già iniziato.
In secondo luogo, … ciò comporterebbe notevoli perturbazioni organizzative, del tutto inutili e dannose al momento attuale, e che non sono minimamente richieste dalla situazione interna o esterna. Ecco perché penso che le parti della formazione dell’unione dovrebbero essere le quattro Repubbliche: la RSFSR, la Federazione Transcaucasica, l’Ucraina e la Bielorussia.

Ciò chiarisce bene sia le motivazioni strategiche sottese alla formazione dell’Unione, che il problema dell’architettura statuale. Questa lascia intatta la struttura della RSFSR, già entità federale multinazionale, ma unisce altre quattro (all’epoca) repubbliche sovietiche, lasciando ad esse una più ampia autonomia statuale.
Ci sarebbe da seguire gli eventi della Federazione Transcaucasica e le motivazioni per cui alle varie Repubbliche (RSS Georgiana, la RSS Armena e la RSS Azera) si diede questa forma che poi nel 1936 invece si trasformò nell’adesione delle singole Repubbliche all’URSS. (Vedi I compiti immediati del comunismo in Georgia e Transcaucasia, Rapporto a un’assemblea generale dell’Organizzazione Tiflis del Partito Comunista della Georgia, luglio 1921). In realtà la motivazione risiedeva nel fatto che il diseguale sviluppo tra le stesse tre repubbliche avrebbe potuto creare delle posizioni di privilegio, cosa a cui lo sviluppo economico successivo poté mettere fine. Infatti abbiamo visto che, appena dissolta l’URSS, tali antichi conflitti sono riemersi, a causa della sovversione indotta dall’imperialismo.

Conclusioni

Nel Centenario della fondazione dell’URSS possiamo trarre importanti osservazioni e preziose indicazioni sulla battaglia che i comunisti proseguono nel mondo.
L’indicazione che l’atteggiamento che i comunisti devono avere rispetto agli stati imperialisti e rispetto alle nazioni oppresse è quello della «subordinazione degli interessi della lotta proletaria in un paese agli interessi di questa lotta nel mondo intero», come dice Lenin. Quindi non ci sono “ricette” valide per tutti i luoghi e tutti i tempi.
In Europa e in America lo scontro tra proletariato e borghesia, pur articolato nelle varie sfaccettature della lotta di classe tra questi due schieramenti, è chiaro e immediato. La propria borghesia imperialistica va combattuta senza cedimenti all’“interesse nazionale”, che essa non incarna ma anzi lo svende per gli interessi di un capitale monopolistico internazionale a cui partecipa pro quota. Questa bandiera va invece ripresa dai comunisti, non solo per contrastare la velenosa propaganda nazionalistica della borghesia, ma per ribaltarla e porre i comunisti alla testa di un vero e ampio movimento per la difesa degli interessi delle classi subalterne. Queste classi sono diventate sempre più numerose e variegate, ma hanno in comune l’interesse a contrastare i monopoli. Quindi l’opera dei comunisti dev’essere quello di aggregare tali interessi in un programma che riesca a far capire come la lotta per la difesa dei propri diritti e del proprio livello di vita è sempre più insanabilmente contrapposto al grande capitale.

Le «nazioni ineguali e le colonie, con le loro materie prime, il combustibile, il cibo e la vasta riserva di manodopera, devono essere considerate come la retrovia, la riserva dell’imperialismo», come dice Stalin.
E quindi qui è necessario :
1) che le forze che contrastano il saccheggio da parte dell’imperialismo di quelle risorse si uniscano e reagiscano alla propaganda filoimperialista e appoggino gli sforzi di quei paesi che si oppongono al suo predominio;
2) che il proletariato assuma un atteggiamento utile agli interessi della lotta proletaria del mondo intero, che oggi passa dal contrasto alla guerra che l’imperialismo sta innescando in tutto il mondo.

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