È di qualche giorno fa l’annuncio di Silvio Berlusconi, leader di Forza Italia, che ha lanciato la proposta di un “reddito di dignità”: mille euro al mese garantiti dallo Stato, che verserà la differenza a chi si trova al di sotto di quella soglia di reddito. Una misura, quella del reddito minimo garantito, già esistente in paesi come la Germania. Da anni è uno dei cavalli di battaglia del Movimento Cinque Stelle, che la chiama “reddito di cittadinanza” (con una proposta a tratti diversa), e fatto proprio anche da diverse sigle a sinistra. Nomi e forme diverse nelle proposte, ma stessa sostanza.
È un dato di fatto che questa proposta oggi è sempre più diffusa. Di per sé, il fatto che persino Berlusconi la faccia propria, tra l’altro citando il concetto di “imposta negativa” di Milton Friedman, dovrebbe spingere a una riflessione. Si tratta solo di grandi annunci elettorali, o c’è qualcosa di più?
Il punto è che quella del reddito non è di per sé una proposta rivoluzionaria, e nemmeno “di sinistra” come molti hanno creduto. Non lo è nemmeno nella sua forma più “radicale”, quella del “reddito di base” incondizionato, che andrebbe cioé elargito a tutti indipendentemente dal reddito di ciascuno. Questa forma più “radicale” nasceva paradossalmente (solo in apparenza) nei primi circoli neoliberisti degli USA, dopo la pubblicazione di “Capitalism and freedom” (1962) da parte del già citato Milton Friedman, e ben si sposava con l’ondata di privatizzazioni selvagge che si progettava. Il reddito elargito incondizionatamente, come garanzia della sussistenza di base, era concepito come contraltare alla privatizzazione di istruzione, sanità ecc. La garanzia di questi diritti, secondo quell’idea, non sarebbe più dovuta essere onere dello Stato, ma lasciata al “libero mercato”, e il reddito di base elargito a tutti avrebbe soppiantato la spesa nel Welfare State da smantellare.
Non è un caso se questa proposta oggi diventa trasversale a più forze politiche. Lo è perché, al di là di ogni logica di polemica politica, si sposa con alcuni interessi immediati di settori del capitale italiano e delle grandi imprese. In termini economici, il reddito di cittadinanza è una misura che gioverebbe quasi più alle imprese che non a chi lo riceverebbe. È una misura di politica fiscale di sostegno alla domanda aggregata, che in termini macroeconomici punta all’aumento del reddito disponibile per rilanciare i consumi. Quello che bisogna chiedersi è: a spese di chi?
In tutti questi anni è stato condotto un attacco ai diritti dei lavoratori e delle classi popolari da parte dei grandi settori dell’economia, dei monopoli bancari e industriali. La “produttività” viene rilanciata attaccando i salari e il costo del lavoro, mentre i profitti delle grandi imprese crescono. Il contraltare di tutto ciò è una povertà diffusa, nello specifico una povertà assoluta aumentata del 141% in dieci anni (dagli 1,9 milioni di poveri di 10 anni fa agli attuali 4,5 milioni), dato che mal si sposa con la necessità di tenere alti i consumi, cioè di garantire la vendita di ciò che effettivamente viene prodotto: nessuno spende in compere se non ci sono i soldi per farlo. È qui che entra in gioco il reddito di cittadinanza: a fronte di un trasferimento di ricchezza dal basso verso l’alto, avvenuto in questi anni, si chiede che sia lo Stato a sopperirvi elargendo un reddito finanziato tramite la fiscalità generale. Cioè grazie alle tasse che vengono pagate, in proporzione, dai redditi medio-bassi più che da quelli elevati e dalle grandi imprese.
Una redistribuzione di ricchezza dai poveri ai poverissimi, quindi. Molte obiezioni, come quelle di settori della Confindustria negli ultimi anni, hanno mosso una critica sostanzialmente di carattere quantitativo alle proposte sul reddito di cittadinanza, sostenendo che un reddito troppo elevato porterebbe al rischio di un innalzamento dei salari nel “mercato del lavoro” a causa di atteggiamenti “parassitari”, e quindi a un potenziale svantaggio per le imprese. Ma nessuno critica la misura nella sostanza, e anzi sempre più sono le aperture a una proposta che, specie quando fatta propria dalle forze di “sinistra”, si trasforma in una vera e propria battaglia di retroguardia.
Ai lavoratori, ai precari, ai disoccupati, tanto a quelli “anziani” quanto ai giovani che non trovano lavoro, non serve una misura che renda tollerabile una situazione che di incertezza e precarietà. Quello che serve è il diritto al lavoro, che oggi in Italia non esiste. La grande contraddizione dei nostri tempi è che a fronte del progresso scientifico e tecnologico, che permette un incremento della produttività del lavoro, si lavora sempre di più, a condizioni sempre peggiori dopo l’attacco ai diritti sociali degli ultimi anni. E se da un lato c’è chi lavora, dall’altro c’è un esercito di disoccupati pronti ad accettare qualsiasi condizione pur di lavorare, che i padroni utilizzano come strumento di pressione nei confronti dei lavoratori per tenere bassi i salari.
Tutto questo avviene mentre lo sviluppo economico e del sistema produttivo permetterebbe la drastica riduzione dell’orario di lavoro. Se tutto questo non avviene, è perché si tutela il diritto delle imprese a fare profitti sempre maggiori, a spese proprio dei lavoratori e delle classi popolari. La proposta del reddito, in ogni sua forma, è una proposta che non rompe con questo stato di cose, ma al contrario vi si trova in piena compatibilità.
Alcune forze liberali contrarie al reddito di cittadinanza, dal PD di Renzi alle forze di destra, inclusi settori della Confindustria, hanno fatto proprio l’argomento “dare lavoro, non reddito”. Ma “dare lavoro”, detto da un liberale, dal PD o dalla Confindustria, significa “dobbiamo ridurre le tutele e i salari ed elargire incentivi alle imprese, così assumeranno di più”.
La proposta dei comunisti, che pure parla di lavoro, è radicalmente opposta, perché lavoro e dignità non possono camminare separati. La retorica di questi anni, secondo cui per aumentare l’occupazione bisogna accettare riduzioni dei salari e cancellazione di diritti conquistati in decenni di lotta, va rifiutata senza sconti assieme a quella secondo cui “siamo tutti sulla stessa barca” e bisogna venirsi incontro, perché mentre si abbassavano i salari e crescevano precarietà e disoccupazione c’è chi ha continuato a fare profitti sulle nostre spalle.
Ad essere oggi più attuale che mai è la parola d’ordine “lavorare meno, lavorare tutti”, ancor più praticabile oggi rispetto al passato, visto il livello di sviluppo raggiunto. Una proposta, a differenza del reddito, davvero rivoluzionaria e che per questo fa parte del programma dei comunisti. In altre parole, questo significa riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, ripristino del sistema di collocamento pubblico con l’obiettivo chiaro della piena occupazione; abolizione del Jobs Act e delle leggi Fornero, Biagi e Treu, e quindi in sostanza abolizione della precarietà sul lavoro e istituzione, infine, di un salario minimo intercategoriale, che l’Italia è fra i pochissimi paesi del continente a non avere. Queste sono le parole d’ordine dei comunisti, e le uniche “di sinistra” nel senso più progressista e conseguente del termine.
A qualcuno sembrerà scontato obiettare dicendo che “non si può fare” per ragioni economiche, perché “banalmente” senza contratti precari e con salari più alti “le imprese non assumeranno più”. E in effetti è evidente che queste proposte non si conciliano con la necessità delle grandi imprese di fare profitti sempre maggiori, di rilanciare la produttività come va di moda dire ultimamente. Ma sta proprio qui il punto.
Alla domanda “è davvero possibile far lavorare tutti, ridurre l’orario di lavoro, aumentare i salari?” i comunisti rispondono di “sì, se si spezzano i vincoli di questo sistema”. Come? Ad esempio nazionalizzando le grandi imprese, i settori strategici dell’economia, sganciandoli dalla legge del profitto che governa il sistema capitalista. Una proposta che il Partito Comunista ha recentemente lanciato per Alitalia, ad esempio, in contrapposizione alle politiche di questi anni che socializzano le perdite, con piani di salvataggio a spese dello Stato mentre i profitti restano privati e i lavoratori restano in balia dell’arroganza padronale. Una politica che senza dubbio sarebbe realizzata in forte rottura con il sistema di potere oggi esistente, contro i principi di “libero mercato” e di libera circolazione di merci e servizi” imperanti nell’Unione Europea.
La questione oggi si riduce esattamente a questo: scegliere se accettare o no la compatibilità con questo sistema e le sue leggi. Chi propone il reddito di cittadinanza, anche a sinistra, ha già fatto la sua scelta, perché formula una proposta che sa benissimo essere del tutto compatibile con l’attuale stato delle cose, tanto nelle sue versioni di stampo “keynesiano”, quanto in quelle più marcatamente liberiste come quella proposta da Berlusconi. La scelta dei comunisti è diversa, e per questo rivoluzionaria.
1 Comment
L’analisi è molto ben articolata, il programma ottimo. Ma non credo che con la minima base di reddito di sussistenza per i disoccupati si possa oggi sostenere la vecchia domanda aggregata di Keynes, che si risolve nella vetusta formula
consumi + investimenti + esportazioni se non ricordo male:Dg = C+In+Ex.
Si vuole invece con tale mossa da lupi mannari imprenditoriali – e solo in tal caso Confindustra approva – detassare il plusvalore aziendale sulle spalle, come detto giustamente nell’articolo, del salario dirottandone una quota verso i disoccupati, tramite il prelievo dello Stato volto in tal modo a sostenere politicamente dall’altro lato l’accumulazione del capitale industriale. Ma sostenendo artificialmente con l’aiuto statale il saggio d’accumulazione ridottosi nell’ultimo decennio, i profitti, sempre più detassati, si dirotteranno in gran parte in impianti e robot di linea, cioè in capitale fisso a scapito della forza lavoro. E la “crescita” avrà come effetto un aggravamento della disoccupazione, salari più bassi e una necessaria e giusta esplosione rivoluzionaria. Il mio voto, credetemi, sarà per Voi, per il Partito Comunista per l’analisi e l’onestà intellettuale in una marea di partiti opportunisti filo-imprenditoriali.